mercoledì 5 novembre 2008

Inter-ludio 3

Certo, se si toccasse il tema delle amnesie, la serie dei capita potrebbe prolungarsi all’infinito.
Ma non ritengo sia il caso di puntualizzare le singole dimenticanze che sono costretto ad accusare, per esempio, nel corso di una conversazione.
Credo piuttosto che mi convenga osservare il problema nei suoi aspetti ricorrenti.
Che con il passare degli anni si faccia sempre più fatica a ricordare i nomi delle persone, è un lamento comune.
E io non mi sottraggo a questo disappunto così diffuso.
Ma mi accorgo anche che la vecchiaia, se da una parte toglie, dall’altra restituisce.Mi riferisco alla facilità con cui in questa età affiorano ricordi di tempi lontani, con una ricchezza e nitidezza di particolari davvero sorprendenti.
Vorrei a questo proposito segnalare un caso che mi ha molto colpito.
Ero parroco da poco tempo quando venni a sapere che una signora ultranovantenne desiderava una mia visita.
Era una persona ancora molto vivace, che però negli ultimi tempi aveva perso completamente l’uso della lingua italiana, mentre aveva preso a esprimersi correttamente in francese.
Perché in francese?
Perché, essendo nata a Cap d’Ail in Costa Azzurra, il francese era stato la lingua parlata negli anni della sua prima infanzia.
Anch’io mi sto accorgendo di ritrovare, dopo più di sessant’anni di oblio, parole, espressioni, modi di dire appartenenti al mondo dell’infanzia lontana.
Si tratta per lo più di termini dialettali la cui riscoperta, involontaria, mi procura sempreun’emozione intensa, perché mi permette di rivivere momenti e situazioni abbelliti dal fascino della nostalgia.
E’ quello che ho provato recentemente quando mi sono ritrovato nella memoria, non so come, la parola burlott.
E’ bastata questa parola per evocare la cena di certe sere d‘estate, quando compariva in tavola un minestrone in cui si distinguevano nettamente , panciuti e paffuti com’erano, i fagioli appena colti chiamati appunto i burlott.
E chiaro che l’attenzione dei bambini fosse rivolta soprattutto a questa deliziosa apparizione. Quanti ne sarebbero toccati a ciascuno?
Ma prima che le papille gustative potessero esercitarsi su tanto bendidio, c’era un rituale da osservare.
Nessuno lo imponeva, ma erano i bambini stessi a farne memoria.
Ciascuno raccoglieva la propria razione di burlott in una pezzuola di tela bianca (il cosiddetto mantin) che poi, tenendo bene stretti i quattro capi in una mano, spiaccicava con colpi assai ben assestati sulla propria fronte.
Si può facilmente immaginare la soddisfazione quando, svolgendo i lembi estremi del mantin,si vedeva comparire un tortino di farina di fagioli con tutta la fragranza di un dessert casereccio.
Questo ricordo, come altri che hanno una vaga parentela con la famosa madeleine di proustiana memoria, compensa coloro che come me da tempo sono incamminati sul Viale delle Rimembranze.
Questa memoria involontaria è dunque molto preziosa, ma non risolve i problemi di chi si trova nella necessità di dover rammentare, per esempio, un nome che sia stato dimenticato.Sarà capitato anche a te - mi riferisco a un ipotetico compagno di viaggio – di accorgerti che, mentre stai parlando, per un improvviso vuoto di memoria ti viene a mancare l’elemento fondamentale della tua narrazione.
Che fare?
In questi casi si cerca di forzare la memoria, con accorgimenti vari, così da riconquistare ciò che è stato perduto.E intanto, nell’attesa che si accenda dentro di te la piccola luce della riscoperta, tenti di allargare il discorso su tanti altri particolari.
E’ quello che è capitato un giorno a mons. Figini, illustre Preside della facoltà teologica di Milano. quando ancora era considerato il più grande teologo in circolazione almeno negli anni di Papa Pacelli (Va detto però che in quel piccolo universo concentrazionario quale era allora il seminario milanese, senza confronti con il mondo esterno, era facile che si creassero figure mitiche come quella di mons. Figini, tanto che sono portato a credere che, se fossi rimasto qualche anno ancora in seminario, avrei potuto anch’io aspirare al titolo di migliore latinista almeno della diocesi di Milano).
Ecco la scena che si svolse su un tram di p.za Cadorna, la sera che il nostro Monsignore vi salì per recarsi in via Calatafimi.
Monsignore, al bigliettaio che gli sta di fronte, seduto al suo panchetto, in coda alla vettura:“Mi perdoni. Questo è il tram che passa da via… da via… ? Ahimè, che la parola non mi viene….”.Bigliettaio, con un fare rispettoso e incoraggiante: “Provi a frugare ancora nella memoria.E se vuole che l’aiuti, mi faccia pure qualche domanda”.
Monsignore: “E’ il nome di una grande battaglia combattuta dai garibaldini in terra siciliana. Mi hanno raccontato di questa battaglia due amici bergamaschi, che avevano partecipato alla spedizione.I bergamaschi pare che fossero più di 200, attirati in quell’avventura soprattutto dal prestigio di Garibaldi”.
Bigliettaio, dando qualche leggero segno di impazienza.: “Sì, d’accordo, ma il problema ora è di trovare il nome della via”.
Monsignore:“Se avessi tra le mani quel magnifico resoconto che sulla spedizione ci ha lasciato Cesare Abba, con il titolo Da Quarto al Volturno, il problema sarebbe già risolto”.
Bigliettaio, dando sfogo a questo punto a tutto il suo buon senso: ”Monsignore, vedo che lei parla come un’enciclopedia, ma, se permette, il mio parere è questo: non sarebbe stato meglio, invece di ricordare tante cose, tenere a mente quell’unico nome che ora ci manca?”.
Appunto.
That is the question..

Queste divagazioni sulla memoria devo confessare che hanno lo scopo di ingannare l’attesa di un referto clinico per un esame a cui sono stato sottoposto qualche giorno fa.Avendo dovuto cambiare il mio medico curante, ho affrontato ben volentieri tutti gli accertamenti che mi sono stati prescritti, tranne quello riguardante la situazione neurologica dell’encefalo. Provo sempre un po’di disagio al pensiero che un occhio indiscreto possa penetrare nel mio mondo segreto e spiare indebitamente i movimenti dei miei pensieri più o meno vagabondi....Se, come spero, non si troverà nessuna particolare anomalia, mi guarderò bene dal confidare la mia soddisfazione a certi amici, perché non si ripeta quello che è capitato a un mio vecchio professore di seminario.Reduce da un delicato intervento alla testa, diede lui stesso pubblicamente notizia del felice superamento di questa sua disavventura dicendo: “Mi hanno guardato dentro e non hanno trovato niente”.Tra gli ascoltatori ci fu allora qualcuno – di uno so con assoluta certezza - che commentò la notizia mormorando segretamente una frase che aveva reso famoso in quei tempi un personaggio di Jacovitti.L’espressione, impietosa, era: “Lo supponevo!”.

giovedì 2 ottobre 2008

Inter-ludio 2


Volendo conservare per questi pensieri vagabondi un’intonazione semiseria o, se si preferisce, agrodolce, ho pensato di riagganciarmi alla serie dei capita, iniziata e subito interrotta il 18 febbraio dello scorso anno.

Capita che uno, dopo avere confidato al suo medico curante un principio di scialorrea, si senta fare da lui questo discorso:”Un rimedio veramente ci sarebbe. Basterebbe un trattamento al botulino che di solito serve alle signore per togliersi qualche ruga di troppo, ma che, la prego di credermi, può essere efficace anche nel caso suo”.
E capita che dopo il trattamento uno si trovi con qualche ruga in meno e con le labbra più umide di prima.

Nb. E’ meglio comunque avere le labbra umide che le labbra rosse di certi monsignori.
La spiegazione di queste labbra rosse?
E’ in una feroce battuta che vi risparmio.

Capita che uno, contemplando un tenero asinello che entra ad arricchire la sua collezione, si abbandoni a questa patetica confidenza: “Sai quanto ero bello anch’io alla tua età?”.

Capita che, vedendo una folla di giovani dalla vitalità prorompente, sia tentato di consolarsi richiamando una sentenza amara: “La giovinezza è una malattia da cui si guarisce in fretta”.

E’ capitato che nei giorni delle olimpiadi, vedendosi sopravanzare con passo troppo spedito da qualcuno incurante del suo badante muto, lo abbia inseguito con questa tacita rivalsa: “Lei non sa che io potrei vincere un oro alla prossima olimpiade dei paraplegici”.

Capita che, quando gli succede di concelebrare, come in questi giorni, con un confratello dalla voce incredibilmente stentorea, si ritrovi con la sua non-voce a formulare questo commento: “Dio li fa, poi li accoppia”.

Capita che, ricevendo dall’amico “vaticano” un biglietto d’augurio con una vistosa croce “arcivescovile” a precedere la firma, si consoli pensando: “Anche a me presto succederà la stessa cosa. Anzi, per firmare mi basterà una croce, senza più neanche il nome”.

Capita che, quando qualcuno si permette di rammentargli i possibili esiti del suo attuale stato di salute, si dica tra sé “D’accordo, tutto è possibile, salvo il caso che io possa essere colpito da quella vagina pectoris (sic) di cui mi parlava con una certa apprensione una gentile signora non molto tempo fa.

Capita che, trovandosi circondato da una folla di Maddalene, di cirenei, di buoni samaritani, si domandi: “Non sarà che presto debba aspettarmi la croce?”.
.
Capita che la serie dei capita si allunghi sempre più tanto da entrare in concorrenza con le litanie della nonna che allora sembravano interminabili.
E capita che, per non procurare ad altri la noia provata in quei momenti, abbia il coraggio di dire: “Per ora può bastare”.

giovedì 28 agosto 2008

Novissimi 4

Spigolature in vista di una riflessione sui novissimi

Elias Canetti

“C’è un muro del pianto dell’umanità, e io gli sto accanto”.

“Amici dovrebbero potersi chiamare soltanto coloro che, essendo riusciti a sapere quanti anni hanno ancora da vivere, se li scambiano l’un l’altro per equipararli”.

”La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”.

”Se potessi davvero credere che Gesù ha vinto la morte, diventerei cristiano domani”.

”Nell’eternità tutto è inizio, mattino profumato”.

Kurt Marti, figura esemplare della chiesa evangelica svizzera e anche grandissimo poeta:

”Domandate / in che cosa consiste / la risurrezione dei morti? / Non lo so /
Domandate / quando avrà luogo / la risurrezione dei morti / Non lo so /
Domandate / esiste / una risurrezione dei morti?/ Non lo so /
Domandate / Non c’è/ risurrezione dei morti? / Non lo so /
Io so /soltanto / ciò che voi non evocate: / la risurrezione dei vivi. /
Io so / soltanto / ciò a cui egli ci chiama: / a una risurrezione qui e ora.”

domenica 24 agosto 2008

Novissimi 2


Che cosa vuole essere un testamento spirituale?
E quali sono le ragioni che presiedono alla sua stesura?
E’ quello che mi sono chiesto leggendo un breve saggio di Pietro Scoppola intitolato: Un cattolico a modo suo, che nella prefazione viene presentato come “il testamento spirituale di uno storico che ha lasciato il segno nella cultura italiana e di un maestro che ha formato le coscienze di più di una generazione”.
Lo stesso Scoppola precisa che si tratta di una riflessione sul percorso spirituale lungo il quale ha camminato per tutta la vita.
Si preoccupa perciò di raccogliere ricordi, pensieri, emozioni per farne dono alle persone che gli sono care con la speranza di rendere più agevole il loro cammino.
C ’è in queste pagine tutta la trepidazione di chi non vuole cedere nulla alla morte incombente senza aver prima compiuto questo estremo gesto di donazione e di amicizia.
Riprendo la domanda che mi ero posto all’inizio: che cosa è dunque un testamento spirituale?
Ripensando anche ai testamenti spirituali che mi è capitato di leggere in questi ultimi tempi (quello dell’abbè Pierre, di David Maria Turoldo, del carissimo don Giorgio Basadonna nonché lo stupendo messaggio che l’indimenticabile amico Lillo Santucci ha lasciato per i figli registrandolo su nastro poco prima di morire), mi pare di poter cogliere con chiarezza i caratteri fondamentali di ogni vero testamento spirituale.
L’idea nasce normalmente all’interno di una condizione di precarietà, quando il venir meno delle risorse vitali porta a interrogarsi sulla presenza di certi valori che possano in qualche modo restituire senso e consistenza alla propria umana avventura.
E quando si scopre che l’amicizia è l’espressione più alta e più luminosa del vivere,
si sente il bisogno di intrecciare un dialogo con le persone amiche per comunicare loro il frutto della propria esplorazione interiore.
Fatte queste premesse, mi domando se non sia il caso che anch’io provveda a lasciare un sia pur piccolo testamento spirituale.
L’unico dato certo è che, se mai volessi accogliere questa suggestione, dovrei realizzarla senza alcun indugio. I tempi sono stretti e non mi è concesso di aspettare…
Ma al di là di questo dato, le perplessità sono tante.
A chi potrei rivolgermi e che cosa potrei dire di particolarmente significativo tanto da affidare le mie riflessioni alla forma singolare e definitiva di un testamento spirituale?
Di amici me ne sono rimasti molti i quali, dopo avermi ascoltato per molti anni attraverso i vari momenti della predicazione, potrebbero aspettarsi da me una parola ultima di incoraggiamento a sperare.
Ma che cosa posso dire quando io stesso ho bisogno di questa parola perché la fede sento di doverla riconquistare continuamente passando attraverso dubbi e smarrimenti, tanto da condividere pienamente l’espressione di don Michele Do il quale parlava di “irrinunciabili dubitose certezze”?
Se mi si chiedesse una professione di fede in vista del mio testamento spirituale, potrei utilizzare le brevi annotazioni raccolte nel mio Abito rosso e introdotte dall’espressione dialettale Semm chi che rappresenta il mio motto personale.
Oppure potrei ripetere quella piccola professione di fede che ho fatto quando il carissimo amico Lillo Santucci, poco prima di morire , mi pregò dicendomi: “Parlami della tua fede”.
Allora ho preso a dire, forse balbettando: “La mia fede? E’ ben povera cosa la mia fede.
E’ una fede semplice, povera, elementare.
Quello che posso dire è che non potrei mai vivere senza sentirmi legato a Gesù Cristo.
Credo in tutto quello che ha detto, trovo stupendo tutto quello che ha fatto ed è per me motivo di profonda pace quello che ci ha promesso.
Credo che le sue parole sulla croce: “Nelle tue mani consegno la mia vita” siano le parole più belle che uno possa ritrovarsi sulle labbra”.
A questo punto potrei anche suggerire una preghiera che mi è molto cara in questo tempo di transizione che sto vivendo.
Non è mia, ma l’ho trovata nel Mestiere di vivere di Cesare Pavese e da allora (sono passati oramai diversi decenni) non l’ho più dimenticata.
E’ brevissima, formata soltanto da quattro parole: “O Tu, abbi pietà”.
Ma c’è quel Tu (con la maiuscola) che riempie della sua presenza ogni spazio della nostra attesa e della nostra speranza.

martedì 17 giugno 2008

Pentecoste 11 maggio 2008

Ho letto in questi giorni che nell’elenco dei “Top 100”, cioè delle 100 personalità che a giudizio di una autorevole rivista americana, sarebbero attualmente le più influenti sul destino dell’umanità, il nome di Benedetto XVI è stato completamente ignorato.
Pare che la notizia sia stata accolta in Vaticano con malcelato disappunto.
E immagino ora con quanta veemenza le varie “gazzette” diocesane faranno a gara nel deplorare l’affronto recato a quanti riconoscono nel magistero del Papa la guida più autorevole per questi tempi di confusione in cui ciascuno sembra appellarsi a una sua personale verità.
Certamente il rammarico può essere legittimo, ma esasperarlo vuol dire perdere ancora una volta un’ occasione favorevole per riflettere sui veri valori su cui si fonda il prestigio della chiesa.
Sto leggendo la biografia, ampia e molto documentata, di Papa Giovanni XXIII; scritta dal pronipote Marco Roncalli , e mi domando come avrebbe reagito se avesse dovuto subire uno sgarbo di questo genere da parte del mondo della cultura ufficiale.
Visto il profilo spirituale che emerge soprattutto dalle pagine del diario, penso che la faccenda non l’avrebbe turbato più di tanto.
Avrebbe potuto osservare come esista una irriducibile distanza tra i valori celebrati dalla cultura profana e quelli continuamente richiamati, con forza, dal vangelo.
Da una parte c’è il personaggio con il suo io esigente e prorompente, che cerca la propria affermazione attraverso spazi sempre più ampi di visibilità, dall’altra c’è la persona che pratica la via del silenzio e della discrezione riconoscendosi al servizio di qualcuno da cui sente di aver tutto ricevuto e a cui pensa di dover tutto riferire.
Da una parte c’è chi si atteggia a maestro con il prestigio della parola e con la forza delle sue vastissime conoscenze; dall’altra c’è chi ama farsi discepolo di un maestro la cui saggezza non tocca soltanto la mente, ma colma di stupore il cuore dell’uomo.
“Quando sono debole, è allora che sono veramente forte” diceva l’apostolo Paolo.
Giovanni XXIII, in forza di una scelta maturata nell’ascolto assiduo della parola evangelica, non si sarebbe perciò rattristato nel vedere segnalati, per esempio, i limiti del suo bagaglio culturale.
Quante lingue sapeva parlare?
Se fosse messo a confronto con altri Papi venuti prima o dopo di lui, risulterebbe – non c’è alcun dubbio - soccombente.
Certo il francese lo conosceva alla perfezione, anche se avvertiva sempre il pericolo di qualche piccolo infortunio, come quelli patiti da uno stimato rappresentante della diplomazia vaticana sul
conto del quale circolavano in quegli anni due gustose storielle.
“ Mon derrière (sic) est partagé en deux parties et au milieu il y a la Belgique” avrebbe detto parlando del suo passato nel quale il posto centrale era occupato dalla nunziatura in Belgio.
E un’altra volta, volendo confidare che doveva la sua nascita a un voto fatto da sua madre, fu tradito nella pronuncia della parola voeu per cui si può facilmente immaginar con quale spirito i presenti abbiano potuto ascoltare la frase che alle loro orecchie suonava così: “Ma mère a fait un veau (vitellone), et me voilà”.
Queste cose ce le raccontava Mons. Rota nel seminario di Venegono, dove allora io insegnavo e dove questo simpatico monsignore della curia romana era ospite abituale nei mesi estivi .
E poiché si sapeva che Mons. Rota era molto amico di Papa Roncalli tanto da essere spesso invitato a condividere il pranzo della domenica, è facile pensare che storielle di questo genere, prima di uscire dai palazzi vaticani, abbiano rallegrato la tavola del Papa.
Piccole cose, si dirà, ma significative di uno stile di vita che sapeva sorridere delle altrui e delle proprie insufficienze nell’uso dei mezzi della cultura ufficiale, sapendo che ben altre risorse, nascoste, erano a disposizione per i veri servitori del vangelo.

A Elena e Filippo (nel giorno del loro matrimonio, il 13/6/ 2008)



Vorrei trasmettervi anch’io un augurio.
E siete voi a suggerirmelo, con il pieghevole che mi avete mandato per rendermi partecipe di ciò che si sarebbe realizzato in questo giorno.
Su un lato di questo cartoncino, preparato con molta cura, trovo una vignetta senza parole che vi ritrae nell’atto di scambiarvi un bacio.
Il bacio è il segno di una raggiunta armonia, è l’immagine più trasparente del volersi bene e del sentirsi amati, è la parola più espressiva per confidare l’ineffabilità del proprio amore.
Ricordo che la tenerezza di un bacio scambiato da due giovani in piazza S. Pietro commosse anche quel grande patriarca di tutta la cristianità che è stato Papa Giovanni XXIII il quale, dalla finestra del suo studio, silenziosamente ma con un sorriso di compiacimento, tracciò su quei due giovani un segno di benedizione.
Anch’io in questo momento mi sento di benedirvi, di dire bene di voi.
Ma perché il bacio possa esprimere la poesia dell’amore, richiede il coinvolgimento di tutto il proprio essere.
E la vignetta del vostro pieghevole lo dimostra con chiarezza.
Vedo Elena che si protende, sollevandosi perfino sulla punta dei piedi, per offrirsi al bacio di Filippo.
Ma a me piace immaginare anche le parti rovesciate.
Perché tra i due che pure si vogliono bene c’è sempre una distanza da superare, un décalage, direbbero i francesi, da colmare.
C’è di mezzo, infatti, il mistero profondo, irriducibile di una persona.
Una coppia è sempre un incontro di due mondi ciascuno dei quali è mistero per l’altro.
Il matrimonio è perciò una interminabile educazione alla diversità.
E’ quello che ci ricorda anche Gibran quando scrive: “Ciascuno nella coppia sia il custode della solitudine dell’altro”, cioè della sua alterità, del suo mistero.
Come è possibile sostenere questa situazione esposta sempre a tante tensioni e possibili conflitti?
Guardo ancora la vignetta che vi ritrae e trovo che a sostenere Elena nel suo protendersi verso Filippo c’è una pila di libri.
Saranno - ho pensato – libri su cui si sta ancora affaticando Elena.
Ma a me piace interpretare diversamente questo dettaglio.
I libri che sostengono Elena (ma in questo caso dovrebbero sostenere anche Filippo) sono libri che racchiudono la saggezza a cui attingere perché la vostra vita di coppia possa svolgersi in modo armonico.
Tento di dare un nome a qualcuno dei libri motivandone le ragioni.
Enzo Bianchi dice che amare consiste in due cose: ascoltare e cucinare cose buone per la persona che si ama.
Sul fatto dl saper cucinare non ho suggerimenti da dare: so infatti che “giocate in casa”.
Ritengo invece che nella vostra biblioteca ideale non dovrebbe mancare mai un volume con le immagini del vostro viaggio di nozze o di un viaggio che vorreste fare.
E questo per ricordare che il matrimonio non deve essere visto come una meta raggiunta, ma come l’inizio di un viaggio atteso da tanto tempo.
Il matrimonio è sempre stato pensato come viaggio.
Il viaggio di nozze infatti, caratteristico della nostra come di altre culture, è inteso come un cammino verso un paese ignoto, in cui non sia possibile prevedere tutto.
Il paese ignoto verso cui andate è l’incontro con colui o colei che vi sta al fianco.
Non c’è infatti lontananza più grande di quella che separa l’uomo dalla donna.
A questo punto consiglierei un libro di spiritualità.
Ce ne sono tanti, e tutti molto belli, ma vorrei proporvi un piccolo saggio di un autore, Luigi Pozzoli, che conosco molto bene.
D questo breve scritto, che si trova in Caro amico, lasciate che vi citi almeno un passaggio dedicato alla tenerezza:
“La tenerezza è soprattutto indulgenza e misericordia.
E’ difficile amare senza concedere all’altro la libertà di sbagliare.
Ci fosse la capacità di ridere e di sorridere della nostra vulnerabilità e fragilità, sarebbe tutto più semplice e più leggero.
Un po’di quell’umorismo che nasce dall’amore può sdrammatizzare tante situazioni che altrimenti si farebbero pericolose”.
Ho detto tutto?
So che vi ho già rubato molto tempo.
.Ma non posso chiudere senza ricordare il volume più grosso, quello che sta sopra gli altri nella vignetta a cui ci siamo riferiti.
E’ da questo volume che voi avete ricavato i passi della meravigliosa liturgia di questa mattina,
Ma della bellezza del matrimonio così come è stato sognato da Dio, si parla già nelle prime pagine.
Dio aveva davanti a sé le meraviglie scaturite dalla sua azione creativa tra cui spiccava l’immagine incantevole della prima coppia, quando pare (è Moni Ovadia che racconta prendendo da una tradizione ebraica) che si sia lasciato sfuggire questa battuta: “Speriamo che tenga”.
Eh no, noi siamo certi che la vostra coppia è destinata a tenere.
Ve lo dice la cospirazione festosa dei vostri amici che in coro gridano: “Evviva per Elena e Filippo oggi sposi!”.
E ad avvalorare questa certezza c’è lo Spirito di Dio., il soffio, il respiro di Dio che non è altro se non amore.
E’ un dono che oggi voi ricevete in modo privilegiato e che da voi trabocca su tutti gli amici che vi vogliono bene.

Ma so che una ragione ci deve pure essere


C’è un modo maldestro di consolare gli afflitti.
E’ quello di chi, accanto alla situazione che ti fa soffrire, te ne prospetta un’altra ben più grave per cui sei come costretto ad ammettere: “Posso dirmi davvero fortunato, visto che mi poteva andare
molto peggio”.
Accenni a qualche tuo limite nei movimenti?
E subito trovi chi ti aggiorna sulle condizioni di un comune amico (“Te lo ricordi, vero, com’era?”) il quale, colpito da sclerosi multipla, è ridotto ora in uno stato penoso e pietoso.
Ti capita di accusare qualche piccolo vuoto di memoria?
Ma che cosa è mai se messo a confronto con quanto è successo a quel signore (“Dovresti conoscerlo anche tu o, comunque, ne avrai certo sentito parlare”) il quale, dopo essere passato quel mattino in posta a sbrigare una piccola pratica, non ha saputo più trovare la via del ritorno: un caso di alzheimer fulminante da cui non si sarebbe più ripreso.
Capisco che è difficile consolare chi ogni giorno si trova a dover lottare contro i guasti provocati dalla malattia o dall’età avanzata,
In questi casi bisognerebbe avere almeno il buon senso di non aggravare la situazione con parole o gesti impropri, anche se dettati dal desiderio di recare qualche sollievo.
Pensavo, mentre stendevo questa nota, alla storiella di quel tale che in piazza Duomo si trovò indecorosamente schizzato sul suo sparato bianco da un piccione, vai a sapere se perchè incontinente o dispettoso.
Che fare? Come prendersela con quell’impunito che ora forse volteggiava, beato, pin in alto, tra le guglie della cattedrale?
Non gli restò che rifugiarsi in questo lapidario commento:“Vivaddio che non volano le mucche”.
Non so perché ho citato questa storiella.
Ma sono certo che una ragione ci deve pure essere.
Lascio a voi, se mai vi riesce, di scoprirla.

venerdì 25 aprile 2008

Dio che viaggia in incognito

“Adolf Hitler: respinto”
Queste parole che segnarono una profonda delusione nell’animo del giovane Adolf Hitler il quale aveva sognato, se mai fosse stato ammesso ai corsi dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, di diventare un grande artista, costituiscono l’incipit del romanzo di Eric-Emmanuel Schmidt, intitolato La parte dell’altro.
C’è un interrogativo che l’autore si è posto iniziando la narrazione: se Adolf Hitler fosse stato ammesso, non sarebbe possibile ipotizzare una storia diversa per quanto riguarda non solo la sua vicenda personale, ma anche la tragicità dei fatti che siamo stati costretti a registrare dopo l’avvento del Terzo Reich?
Per questo Schmidt, mentre ripercorre gli sviluppi imprevedibili che quella esclusione provocò nella fragile e tormentata psicologia del giovane Adolf Hitler, immagina un altro percorso, parallelo al primo, affidato a una sorta di controfigura: è la storia del pittore Adolf H di cui segue le vicende in un contesto di ambienti e di ambizioni borghesi,:a partire dal giorno della sua ammissione all’Accademia.
Si tratta dunque di un romanzo complesso sia per la struttura sia per le tensioni di ordine morale che innervano la narrazione.
Devo confessare che da tutto questo travaglio creativo e speculativo che ha portato l’autore a interrogarsi sul mistero della libertà interiore dell’uomo, arrivando a formulare questa inquietante verità: “Hitler è una verità nascosta nel profondo di noi stessi che può risorgere in qualsiasi momento”, ho mutuato questa semplice curiosità che non cessa di interpellarmi da quando ho terminato la lettura: “Non potrei trovare anch’io, nel mio passato, qualche fatto imprevisto e tanto meno voluto che sia stato decisivo nel determinare il corso della mia vita?”.
Uno snodo importante mi pare di poterlo rinvenire nelle vacanze di II Media, quando mi trovai a frequentare lezioni private in vista di esami che avrei dovuto sostenere nella sessione autunnale.
Che ragione c’era di sottopormi a questo lavoro supplementare visto che la pagella di fine anno era stata salutata con grande soddisfazione da tutta la famiglia?
La decisione era stata presa da mio papà il quale, per le ristrettezze economiche in cui ci si trovava, aveva pensato di farmi guadagnare un anno presentandomi come privatista alla sessione di esami autunnale.
A salvarmi da questa manovra che m’avrebbe privato delle mie abituali amicizie è stata una provvidenziale circolare del ministero che, annullando le disposizioni precedenti, mi restituiva al mio normale iter scolastico.
Ma ora mi domando: “E se fosse mancata quella circolare?”.
Non mi è difficile immaginare quale sarebbe stato il mio futuro.
Mi vedo iscritto ai corsi di ragioneria presso l’Istituto Schiapparelli di Milano, che mio fratello ha già preso a frequentare; poi, una volta conseguito il diploma?
Non mi pare di poter immaginare una sostanziale differenza di vita rispetto a quella dei miei vecchi compagni di scuola entrati molto presto, alcuni appena dopo le elementari, in qualche bottega artigiana per imparare un mestiere alla scuola del padre, in attesa di formarsi a loro volta una famiglia.
Qualcuno mi potrebbe chiedere: e la vocazione a diventare prete?
Nelle vacanze di II media non avevo ancora maturato alcun desiderio di entrare in seminario.
Per la verità., anche nella vacanza successiva, non ricordo di avere avvertito una particolare chiamata (ciò che comunemente si intendeva per vocazione), eppure mi sono trovato in seminario.
Avevo o no allora la vocazione a farmi prete?
Su questo problema sono stati i superiori stessi del seminario a chiarirmi le idee quando mi è capitato nel corso degli anni di sentirli ragionare (un po’ brutalmente, per la verità) press’a poco così: “La vocazione uno non può dire di averla o di non averla.
Tutto infatti dipende dal giudizio dei superiori. Se essi, a nome del vescovo, ti vogliono prete, puoi dire di avere la vocazione, se non ti vogliono e un giorno ti trovi fuori le mura del seminario, è perché la vocazione non ce l’hai, anche se tu protestassi di sentire dentro di te una voce che ti chiama….”.
Fu così che nel 1955, sopravvissuto alla severa selezione operata dai superiori nel troppo folto numero degli aspiranti al sacerdozio ( si era 160 nella sola IV ginnasio, la classe che mi accolse al mio ingresso in seminario), potei essere ordinato prete.
Non mi fu peraltro risparmiata l’esperienza di trovarmi fuori le mura del seminario.
Ma questo avvenne più tardi, quando già insegnavo latino e greco nel liceo di Venegono.
Di questa mia disavventura ho già parlato in una delle pagine più recenti di questo blog (v. Le cinque piaghe della Santa Chiesa) e, prima ancora, nel mio Abito rosso.
Certamente il fatto di vedermi respinto da una cattedra così prestigiosa a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico dovette procurare molta tristezza a quanti si auguravano, viste le premesse, una mia rapida carriera anche nella nomenclatura ufficiale della diocesi.
Anche per me, che pure non avevo mai coltivato sogni di gloria colorati di rosso, quei giorni, è facile capire, furono molto amari.
Finito sul libro nero della curia la cui memoria sapevo quanto fosse tenace, mi vedevo preclusa la possibilità di entrare, di lì a qualche anno, nella vita pastorale come responsabile di una comunità parrocchiale..
E pertanto non avrei potuto godere neppure di quel piccolo trionfo che aveva ottenuto in quegli anni un rettore del seminario, il giorno del suo ingresso in parrocchia.
Essendo piccolo di statura, solo pochi avevano avuto il privilegio di seguire i suoi passi tra due ali di folla festanti, mentre agli altri non restava che condividere il giudizio raccolto dalla voce di una donna devota.: “Ci hanno mandato proprio un santo, visto che s’è fatto tutto il percorso in ginocchio, dall’ingresso in chiesa fino ai piedi dell’altare maggiore”.
Sorrido ancora al pensiero che, essendo piccolo come lui, avrei potuto godere anch’io di tale simpatica accoglienza.
Ma non era più tempo, allora, di indugiare sulla strada della fantasticheria..
Lasciata la pace piuttosto ovattata del seminario, protetta all’intorno da un vasta brughiera, mi sono trovato all’improvviso proiettato nel turbinio della grande città, in mezzo alle tensioni che preannunziavano le grandi lotte del ‘68 soprattutto nel mondo della scuola.
Trovandomi nei pressi della Cattolica, la mia università, potei seguire da vicino le prime rivendicazioni del movimento studentesco guidato da Mario Capanna, come pure i primi sussulti di contestazione ecclesiale promossi da un certo Schianchi, un altro studente della Cattolica che credo provenisse da Parma.
À me pareva di respirare finalmente un’aria di tonificante libertà che mi rendeva ancora più sgradevole e insopportabile il clima che regnava nel collegio arcivescovile a cui ero stato assegnato.
Che cosa avrei dovuto fare per ritagliarmi uno spazio di libertà personale all’interno di una situazione rigidamente governata dalla paura di ogni novità?
La prima mossa è stata quella di affrontare l’esame di abilitazione e di iscrivermi poi nelle graduatorie del provveditorato per ottenere un insegnamento statale.
E qui devo dire che si è verificato un altro snodo importante della mia vita, con il rischio, questa volta, di vedermi non soltanto fuori le mura del collegio, ma di trovarmi anche escluso dall’elenco ufficiale dei presbiteri al servizio della diocesi.
Vale la pena di richiamare in rapida successione i fatti che mi hanno coinvolto in prima persona. Nell’ottobre del 1972 ricevo dal provveditorato l’incarico per l’ insegnamento di italiano nel liceo classico Beccaria.
Trattandosi di uno spezzone di sole quattro ore settimanali che mi è facile sistemare senza nulla togliere al mio normale lavoro in collegio, accetto senza alcuna esitazione.
Il problema mi si pone invece in prossimità dell’anno scolastico successivo, quando dal provveditorato vengo invitato ad assumere l’orario di insegnamento completo.
Conosco il rischio di una decisione presa senza la debita autorizzazione dall’alto.
Che fare?
A togliermi da questa situazione, a dir poco imbarazzante, mi arriva proprio in quei giorni una lettera di mons. Bertoglio il quale, come vicario responsabile dei collegi arcivescovili, mi impone in modo perentorio una scelta: o stare dalla parte del collegio, rinunciando a ogni insegnamento esterno, o dalla parte della scuola pubblica, rinunciando all’ospitalità di cui godevo in collegio.
A me non pare vero di poter fare la scelta desiderata anche se di ritorno dal provveditorato trovo ad attendermi il rettore del collegio il quale mi accoglie con queste fredde parole: “Da domani puoi lasciare il collegio”.
Come a dire: “Da domani non c’è più posto per te in collegio”.
Non mi resta che chiedere udienza al cardinale, anche se, per l’aria sessantottina che mi ritrovo addosso, non posso aspettarmi da lui una grande comprensione.
Ma qui devo riconoscere che il mio cardinale, una volta ascoltate le mie ragioni, ha abbandonato il tono severo iniziale permettendosi perfino un bonario commento alla lettera di mons. Bertoglio:
“Mons. Bertoglio? E’una gran brava persona, ma farebbe bene a dire qualche rosario in meno e a riflettere di più quando deve scrivere una lettera”.
E tutto si chiude nel modo più conciliante: “Vedi, io non ti avrei mandato nella scuola pubblica, ma, dato che già ci sei, ti mando con la mia benedizione”.
Ho seguito finora certe svolte critiche del mio percorso esistenziale in cui il caso ha giocato un ruolo importante, a volte decisivo.
Che cosa rappresenta per me il caso?
Confesso che anche per me, quando ne parlo in modo superficiale, esso non è altro che qualcosa di bizzarro e di irrazionale in grado di sommuovere progetti e previsioni anche se elaborati secondo criteri di provata affidabilità.
Per gli episodi che ho narrato della mia vita e per altri che mi sono capitati in tempi successivi, il mio commento immediato potrebbe essere questo: “Il caso ha voluto che…”.
Se non che ho trovato recentemente una definizione del caso che mi ha fatto riflettere molto.
È custodita in un piccolo aforisma che ho visto citato in un’opera di Michel Tournier:
“Il caso è Dio quando viaggia in incognito”.
“Un Dio in cammino, un Dio che passa”:. Il rapporto non è con un Dio lontano, chiuso nella sua inarrivabile perfezione, ma con un Dio che sempre ci sorprende con innumerevoli passaggi sui sentieri della nostra esistenza.
E sono passaggi, quelli di Dio, che non amano la piena visibilità, ma piuttosto l’arte della dissimulazione e della discrezione.
Questo non significa che ci manchino i segni per riconoscere la sua presenza.
Solo che si tratta di segni leggeri, affidati all’intuizione del cuore.
Vien fatto di pensare al modo con cui Cristo, il risorto, si fece riconoscere dai due discepoli sulla strada che da Gerusalemme portava verso Emmaus.
“Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?”: ecco il segno rivelatore di una presenza misteriosa che Cleopa e il suo compagno all’inizio non avevano potuto percepire.
Anche a me - è una testimonianza che a questo punto sento di dover dare – è capitato di avvertire all’interno di situazioni confuse che immediatamente mi sembravano determinate dal caso, il battito di una presenza nascosta riconducibile a quel Dio che ama passare in incognito.
E se mi soffermo ad auscultare meglio queste sensazioni, mi pare di poter dire che Dio abbia voluto significarmi la sua presenza attraverso il gusto della libertà e il dono dell’amicizia.
La libertà l’ho cercata assiduamente e l’ho custodita gelosamente tutte le volte che mi è stato concesso di gustarne il sapore.
Devo riconoscere di avere sempre avuto un temperamento un po’ ribelle nei confronti dell’autorità, soprattutto se questa mi si presentava con un prestigio indebito, viziato cioè da tante forme di arrivismo e di vanità.
Si possono perciò capire certe mie impuntature nei confronti della figura del monsignore (v. Abito rosso), assunta come emblema di una ambizione che porta a ottenere qualche riconoscimento esteriore, rinunciando però al pieno esercizio della propria libertà.
Si sa infatti quello che succede anche nella chiesa: se uno vuole emergere, sopravvanzare, occupare un posto di responsabilità, deve sempre controllare ogni sua parola e ogni suo gesto; in particolare non deve mai essere motivo di scandalo per nessuno, anche se Gesù ci ha insegnato a scandalizzare i potenti di questo mondo.
A questo punto vorrei che fosse chiara la ragione che mi ha tenuto lontano dal mondo della competizione in vista di una possibile carriera: non si tratta di una spiccata comprensione del valore dell’umiltà che gli amici vorrebbero riconoscermi, ma di una raffinata forma di egoismo: ho voluto a tutti i costi salvare la mia libertà.
Nel mio diario di qualche anno fa, a proposito di ciò che mi sarei augurato all’inizio di un nuovo anno pastorale, esprimevo il desiderio di sentirmi sempre libero, libero di pensare, di giudicare, di entrare in rapporto con tutti, anche con chi non condivide la mia fede, con quello spirito di simpatia che dovrebbe unire tutti quelli che, pur muovendosi su strade diverse, cercano qualcosa che trascenda la dimensione opaca dell’esistenza.
Devo dire che non è facile vivere da liberi pensatori all’interno di una comunità cristiana, ma posso aggiungere che mi basta a volte aprire il vangelo per sentirmi incoraggiato a superare i sensi di colpa e di solitudine: non è forse vero infatti che il vangelo è un continuo appello alla libertà di cui il Signore non si è stancato di trasmetterci la bella notizia?
Un’altra traccia del passaggio di Dio nella mia vita è – come già ho avuto modo di segnalare – il profumo dell’amicizia.
Nel Diario di Julien Green ho ritrovato questo pensiero meraviglioso:
“Se dovessi partire questa sera e mi si domandasse che cosa mi ha maggiormente commosso in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini.
Tutto si perde nell’amore”.
Perciò il segno più trasparente di questa presenza segreta di Dio nella nostra vita è il dono dell’amicizia.
Vorrei celebrare anch’io l’amicizia, come hanno fatto in tempi recenti padre David Maria Turoldo, padre Nazareno Fabretti, don Michele Do i quali ne hanno parlato come se fosse il primo sacramento oppure l’ottavo sacramento, una realtà cioè che dischiude e conferma il mistero di un Dio che si è fatto prossimo a ciascuno di noi.
Vorrei celebrare anch’io l’amicizia soprattutto ora che, lasciato il ministero attivo, vedo moltiplicarsi gli amici attorno a me.
Amici vecchi e nuovi, amici conosciuti per caso: non c’è mattina che non sia rallegrata dalla visita di qualche persona amica.
A che debbo il profumo dell’amicizia che mi pare di avvertire nel corso di questi incontri?
E’proprio vero: “il caso è Dio quando viaggia in incognito”; il quale Dio, essendo amore, non può che privilegiare, come segni rivelatori della sua presenza, le stupende liturgie dell’amore.

martedì 4 marzo 2008

A padre Camillo

24 febbraio

"Eheu fugaces (…) labuntur anni”
Il lamento oraziano sugli anni che fuggono via veloci vale – sia chiaro - per noi, poveri ”tristanzuoli e lanternuti”, che ci sentiamo “come d’autunno sugli alberi le foglie”, mentre tu te ne stai “come torre ferma che non crolla giammai la cima per soffiar de’venti”.
Attraverso queste poche reminiscenze letterarie vorrei dirti quanto grande sia la mia ammirazione nel giorno in cui gli amici si stringono attorno a te per festeggiare la freschezza dei tuoi novant’anni.
Mi piace ricordare i tuoi silenzi eloquenti, il tuo sguardo vivo e penetrante, le tue apparenti assenze nel corso di una conversazione, presto contraddette da qualche intervento particolarmente puntuale e folgorante: immagini queste e impressioni che, raccolte negli incontri iniziati tanti anni fa nella casa ospitale di Lillo Santucci a Guello, avvalorano sempre più in me il privilegio di poter godere della tua amicizia.
Ma proprio per la confidenza che si è creata tra noi, vorrei segnalarti – me lo permetti?- una tua indelicatezza, sia pure involontaria, nei confronti di una gentile ammiratrice la quale, tanto tempo fa, rimase talmente conquistata da una tua omelia che, appena terminata la celebrazione, si precipitò in sacrestia con la speranza di averne il testo.
“Non posso: le mie omelie saranno pubblicate postume” fu la tua risposta, data, pare con un tono alquanto asciutto.
Al che la signora candidamente replicò: “Speriamo che sia presto”.
Penso a quella signora e alla sua lunga attesa che da quel giorno (saranno passati oramai più di trent’anni) pazientemente si protrae nel tempo.
Che avessero ragione gli amici, quando amabilmente ti diedero il soprannome di padre "omissionario"?
Ma sono io il primo a mandarti assolto da questa inadempienza.
Non si può essere perfetti in tutto.
Soprattutto quando, per non voler deludere una persona, si corre il rischio di doverne deludere mille altre.

mercoledì 20 febbraio 2008

Una grandezza nascosta (29 gennaio)


Leggendo oggi il Corriere ho trovato un paginone dedicato ai malati di parkinson
Mi ha colpito in particolare un servizio che portava questo titolo: “Da Wojtyla a Dalì, il male dei grandi”
Mi ha colpito, ma sarebbe bene precisare: mi ha contrariato, urtato, indispettito.
Mi sono detto:“Se è vero che il parkinson è il male dei grandi, che c’entro io con questa malattia?”.
Posso capire che nell’elenco delle persone citate figurino i nomi di Papa Wojtyla, del mio carissimo card. Martini come pure quello di mons. Maggiolini, vescovo di Como, che tante volte ha avuto l’onore di comparire in televisione nel prestigioso servizio di Bruno Vespa, Porta a porta, ma uno come me che neppure può fregiarsi impunemente del titolo di monsignore, avrebbe dovuto sentirsi al riparo da questa malattia.
Che sia sbagliata la tesi sostenuta nel Corriere?
Un giornalista, per di più del Corriere, non può dire cose che non siano fondate.
E allora non mi resta che denunciare la grave ingiustizia che mi è stata fatta.
“No, non è giusto!”mi dico. "Io mi ribello. Qui c’è un abbaglio colossale. A meno che…”.
Mi sorge un dubbio.
E se godessi di una grandezza nascosta, per nulla appariscente, così ben dissimulata da non averne la benché minima consapevolezza?
Devo perciò impegnarmi a scoprire quest’altra identità, per spiegarmi come possa essere stato cooptato nella famiglia eletta dei parkinsoniani.
Ho scritto un Elogio della piccolezza.
E gli amici sanno della mia predilezione per la semplicità dell’asinello, assunto da me come emblema di una vita evangelicamente realizzata.
Non potrebbe essere stato (cerco di indovinare) proprio l’amore per le cose che non contano a segnalare il mio caso a chi dall’alto dispensa i percorsi da seguire secondo una logica non sempre facilmente accertabile?
Mi rimane da scoprire se e in che misura il “male dei grandi” possa essere inteso come un privilegio oppure come una prova particolarmente severa.
E qui mi si affaccia un’interpretazione che può sciogliere qualche nodo di troppo e consentirmi una comprensione più pacata e pacificante della mia condizione.
ll parkinson è il “male dei grandi” perché permette di seguire un cammino che può portare alla vera grandezza dell’uomo.
E’ vero: quel “lui” (mister Parkinson) di cui ho già parlato lo sento spesso come un essere ingombrante, dispettoso, impiccione.
Ma il fatto di rallentare i miei movimenti e di isolarmi nel corso di una conversazione mi offre l’opportunità di approfondire certe riflessioni che hanno bisogno di grandi silenzi per diventare motivi di immensa consolazione.
Ricordo, a questo proposito, con quale passione il carissimo amico don Michele Do richiamasse le parole del vangelo, di Agostino, di Gandhi sulla necessità di abitare dentro gli spazi della propria interiorità per ascoltare dalla voce del cuore verità che contano veramente.
In interiore homine habitat veritas”diceva con il grande Agostino.
Perciò sentiva di dover condividere anche il suo invito a rientrare in se stesso: In te ipsum redi.
Liberato dalle urgenze del fare mi trovo particolarmente favorito in questa discesa nel profondo della interiorità dove mi è dato di sognare e di contemplare, di apprezzare le piccole .gioie che la vita dispensa ogni giorno, senza essere distratto da tante futilità, di sentirmi in pace con gli altri, ma anche con il mio passato, riscoprendo e conservando della vita soprattutto il profumo di bontà di qualche volto che ho incontrato.Se poi mi fosse concesso di contemplare “quel” volto, potrei dire anch’io, come il vecchio Simeone: “Ora lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola”.

sabato 16 febbraio 2008

Per dire grazie


Ovada, Masone sono nomi che mi resteranno nella memoria come i nomi di Jena, Lipsia, Austerlitz dove Napoleone vinse le sue gloriose battaglie.
Perché Ovada e Masone godono ai miei occhi dello stesso prestigio delle grandi imprese napoleoniche?
Perchè è lì che mi sono misurato con le forze scatenate della natura riportandone una vittoria che in certi momenti mi era sembrata impossibile.
Ecco in rapida sintesi ciò che meriterebbe di essere trattato con i toni della più alta poesia epica.
Ore 13 di martedì 4 febbraio: caricati i bagagli, si parte per Ospedaletti dove, come ogni anno, a carnevale, spero di trovare il clima mite di una incipiente primavera.
Il viaggio sull’autostrada per Genova non presenta particolari problemi.
La leggera pioggia che m’accompagna mi sottrae al rischio, ben più preoccupante, della nebbia.
Se non che, una volta imboccata la deviazione per Ventimiglia, lo scenario volge decisamente al peggio.
Vedo. in lontananza, nuvolaglie enormi e compatte sostare immobili sulle pendici del Turchino, mostruosamente nere e oscenamente gravide di chissà quali minacce.
E’ questione di pochi minuti e tutto si oscura davanti a me: che sia già entrato nel ventre della bufera come Giona nel ventre della balena?
Riesco solo a leggere su un pannello luminoso questa scritta: PIOGGE INTENSE FINO A OVADA.
Hanno ragione di usare il plurale:si tratta infatti di scrosci a ripetizione, improvvisi e violenti, separati l’uno dall’altro da una piccola frazione di tempo.
Avranno ragione anche nell’indicare Ovada come termine estremo di questo furioso accanimento contro la mia povera vettura che già arranca faticosamente sulle prime salite che portano al Turchino?
Intanto sale la tensione anche all’interno della vettura, visto che il passeggero che mi sta al fianco non smette di trasmettermi sempre più nervosamente segnali che dovrebbero facilitarmi la guida in quella critica congiuntura (vedo le sue mani agitarsi in continuazione come quelle di un grande direttore d’orchestra) fino al momento in cui, non potendo più comprimere l’ansia, cerca di sdrammatizzare la situazione con questa battuta: “Finalmente qualcuno ha pensato di lavarti la macchina”.
Ero tentato di chiedergli: “Perché non mi canti il famoso motivetto di Rascel: ‘E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale?’ Credo che farebbe bene sia a me che a te”.
Devo riconoscere a questo punto il perfetto funzionamento della segnaletica autostradale.
Le intense piogge in prossimità di Ovada erano infatti cessate, come da copione, ma c’era ben poco da rallegrarsi dal momento che un nuovo pannello luminoso mi annunciava la presenza di nevischio fino a Masone.
“Nevischio?” mi dicevo – “Ma dove è mai?”
Guai a provocare il nemico che ti aspetta al varco.
Il nevischio non si è fatto attendere segnalato da un brusio che si infittiva sempre di più fino a rendersi visibile attraverso un sottile velo bianco che intanto si andava formando sulla strada.
Mi ci volle poco a capire che dal nevischio si era passati alla neve e che per me la situazione si faceva ancora più delicata.
Senza gomme da neve e senza catene, che cosa avrei potuto opporre alla nuova e più grave minaccia?
Ho sempre odiato la neve, più che la nebbia, da quando una sera - ero ancora fresco di patente - sulla strada che m’avrebbe riportato in seminario mi ritrovai con la macchina rigirata in senso contrario, per l’impossibilità di governare i suoi movimenti su quel manto nevoso.
Ora non mi restava che procedere con grande prudenza cercando di mettere le mie ruote nei solchi lasciati dalla macchina che mi precedeva, augurandomi che non le succedesse di arrestarsi per non essere coinvolto in qualche spiacevole disavventura.
Si ostinasse pure il mio compagno di viaggio a gridarmi: “Metti la terza….Non vedi che i vetri si appannano ...Non potresti sostare un poco nella prossima galleria?...”.
Per conto mio ero talmente concentrato nella guida che ascoltavo solo il mio istinto, accarezzando peraltro l’idea di fermarmi non in galleria (già, come se fosse possibile senza intralciare pericolosamente il traffico), ma presso il più vicino posto di ristoro.
Se non che, come saggiamente ammonisce un detto popolare, l’uomo propone, ma è il cielo che dispone.
E il cielo dimostrò di non avere ancora esaurito tutte le sue potenzialità aggressive.
Fu proprio all’uscita di una galleria che mi si accesero davanti agli occhi due lampi, seguiti da un cupo brontolio.
“Sta’a vedere che ora si mette pure a grandinare”.
E questa volta, senza alcun preavviso, sopraggiunse una tempesta di grandine così violenta (pareva che le nuvole fossero venute tutte a sgravarsi completamente sul mio percorso) che, arrivato in prossimità del posto di ristoro dopo Masone, decisi di proseguire.
Sostare infatti voleva dire aggravare una situazione già estremamente rischiosa. Dove avrei potuto mettere i piedi per terra senza correre il pericolo di scivolare?
E come mi sarebbe stato possibile difendermi dalle sferzanti carezze della grandine?
“Ero tra due fuochi”avrei potuto dire anch’io con le parole che un mio lontano alunno aveva usato (oh beata ingenua incoscienza!) per descrivere in un tema una situazione analoga alla mia.
Questo ricordo mi addolcì, sia pure di poco, la tristezza del momento.
Sentivo comunque che il peggio stava passando e che pertanto potevo salutare la mancata sosta con questo breve, patetico discorso: “Addio a voi, toilettes accoglienti e ospitali, che al viandante provato da una troppo lunga attesa sapete offrire la vostra discreta e dolce complicità: addio!
E addio anche a te, fumante tazza di cioccolata calda a lungo vagheggiata ed ora cancellata da un destino veramente avverso: addio!”.
Per il resto del viaggio, nulla di rilevante da segnalare. Oramai ad accompagnarmi era una pioggia continua fino a Sanremo, dove, lasciando l’autostrada, mi apparve all’improvviso il cielo in direzione di Bordighera tutto macchiato di un rosso vivo: era il sole che al tramonto cercava di farsi largo tra le nuvole ancora dense, promettendo un tempo splendido per i giorni a venire.

P.S.
Perché questa lunga pagina dedicata a un fatto pressoché inconsistente?
Lascio al lettore di scorgere le motivazioni nascoste, frugando anche nel mio inconscio.
Per parte mia l’ho intesa come un’occasione per dire grazie.
La preghiera di ringraziamento non ha bisogno di occasioni particolarmente solenni, se è vero che, come ebbe a osservare Bernanos sulla scorta della piccola Teresa di Lisieux, “tutto è grazia”.

giovedì 17 gennaio 2008

Delle cinque piaghe della Santa Chiesa

C’è un libro che, a distanza di più di 150 anni dalla sua prima apparizione, non ha cessato di inquietare e di confortare la coscienza di molti credenti.
Delle cinque piaghe della Santa Chiesa di Antonio Rosmini è veramente un libro profetico e perciò non meraviglia che abbia incontrato, insieme ad ampi consensi, anche molte resistenze e perfino aperte ostilità.
Ora che il suo autore è stato proclamato beato (con una solenne celebrazione che si è svolta a Novara domenica 18 novembre), ci si domanda: come mai l’autorità ecclesiastica è stata tanto severa da inserire questa opera nell’Indice dei libri proibiti? dove starebbe la sua presunta pericolosità?
Non ci sono infatti né errori dottrinali né posizioni aspramente critiche nei confronti dell’autorità, ma accorati appelli alla conversione in nome di un’immagine di chiesa che Rosmini contemplava nella purezza delle sue origini e che vedeva poi tradita e crocifissa (da qui le cinque piaghe corrispondenti a quelle del Maestro sulla croce) nel corso della sua storia.
La ragione della condanna perciò, se da una parte è difficile da spiegare, dall’altra, alla luce degli sviluppi sul cammino della conversione che la chiesa ha maturato nella sua storia più recente, è molto semplice.
Si trattava di un’opera fortemente in anticipo sui tempi. Appunto: di un’opera profetica.
Basterebbe richiamare i principali temi presi in esame per capire come, pur con riferimenti a situazioni storiche ben diverse dalle nostre, i problemi affrontati rivelino un carattere di scottante attualità.
C’è, ad esempio, la delicata questione della nomina dei vescovi (è la quarta piaga) che Rosmini vorrebbe sottratta alle interferenze del potere statale e restituita al clero e al popolo secondo la più sana tradizione della chiesa.
Oggi tale diritto è pienamente rivendicato ed esercitato dalla chiesa, ma con quale partecipazione del popolo di Dio?
Ricordo che in uno dei diversi colloqui che ebbi la fortuna di avere con don Michele Do, mi colpì una sua pungente osservazione a proposito delle nomine dei vescovi in Italia .
“Sai .– mi disse - Ad ogni vescovo bisognerebbe chiedere: Che cosa hai sulla coscienza per essere diventato vescovo? Qualcosa devi avere: confessalo!”.
Un altro problema trattato da Rosmini è quello della educazione del popolo cristiano alla comprensione della parola di Dio, soprattutto nell’ambito delle celebrazioni liturgiche, perché queste non si riducessero a puro spettacolo intessuto di gesti vuoti e di parole mute.
Per questo auspicava una maggiore preparazione culturale del clero, e, senza mettere in discussione l’uso del latino, voleva che la comunicazione fosse resa più efficace mediante opportune versioni dei testi in lingua volgare.
Ricordo l’emozione che provai la prima volta che ebbi questo testo tra le mani (dovevo essere in III teologia), anche perché, per ottenerlo in prestito dalla biblioteca del seminario, avevo dovuto sottoscrivere una domanda indirizzata niente meno che al Papa, della quale non avrei più dimenticato la curiosa formula conclusiva: “Prostrandomi al bacio della sacra pantofola ...”
Questo bacio non venne più richiesto di lì a qualche anno, quando, nel fervore delle novità conciliari, fu soppresso l’indice dei libri proibiti e pertanto il testo di Rosmini, finalmente liberato dalle strette della censura ecclesiastica, potè essere accolto e riconosciuto come una delle voci che più autorevolmente avevano saputo ispirare e anticipare i lavori del concilio.
Unanimemente, salvo che nel seminario di Venegono, dove insegnavo.
Mai avrei potuto immaginare che il mio rapporto con l’opera di Rosmini avrebbe avuto per me sviluppi strani e, in larga misura, imprevedibili.
Ricordo che durante l’estate del 1967 venni invitato dal Rettore Maggiore a tenere alcune lezioni di letteratura contemporanea agli studenti di teologia.
Trattandosi di un lavoro straordinario che esulava dal mio normale impegno didattico, al termine del breve corso mi fu chiesto quale compenso, simbolico naturalmente, avrei desiderato.
Quale compenso più bello avrei potuto desiderare delle Cinque piaghe della Santa Chiesa di cui, dopo gli anni della condanna, era uscita da poco una edizione critica splendidamente curata da Clemente Riva?
La mia proposta venne accolta seppure, cosi m’è parso, con una malcelata contrarietà oppure, per dirla alla latina,: obtorto collo.
Di questa mia impressione ebbi conferma qualche giorno dopo quando (stava già per iniziare l’anno scolastico) venni convocato nello studio del Rettore Maggiore il quale mi comunicò che non avrei più insegnato nei seminari.
Era, in pratica, una formale estromissione dall’insegnamento.
Nonostante la strettissima connessione tra i due fatti, non credo che si potesse applicare, se non nel suo originale senso ironico, il detto latino: post hoc, ergo propter hoc. (dopo di ciò, quindi a causa di ciò).
C’erano altre e più articolate ragioni per motivare una decisione così severa.
Dovrei a questo punto accennare alla situazione di grave disagio che si era creata in quei tempi nei seminari milanesi, dove le novità conciliari avevano fatto circolare un’aria di libertà che metteva in crisi le vecchie strutture disciplinari.
E sul modo di affrontare la crisi si era delineata tra i superori una spaccatura con due fronti contrapposti: il primo formato dai difensori ad oltranza dell’ancien régime, l’altro per lo più da professori (pochi) che, sfidando il sospetto di voler allentare la disciplina dei seminari, privilegiavano la via del dialogo con gli alunni cercando di capire meglio le ragioni di certe loro insofferenze.
Del resto i seminaristi non chiedevano se non un linguaggio più aperto e trasparente, non più viziato da reticenze o da ambiguità, tanto che in quel tempo prese a circolare, inventata non si sa da chi, questa caustica osservazione: “Diceva la verità solo quando era a corto di bugie.
E quando era a corto di bugie, le inventava”.
Devo riconoscere peraltro che la persona presa di mira da questo irridente sberleffo era dotata di particolari capacità intuitive se è vero che riusciva a capire il tuo pensiero prima ancora che tu lo manifestassi.
Ecco perché non posso assegnare al libro di Rosmini un ruolo determinante nel mio allontanamento dal seminario.
Qualcuno a questo punto potrebbe chiedermi come abbia vissuto questa improvvisa disavventura.
Dato che non avevo le stesse qualità che avrebbero reso beato Rosmini, lì per lì ho adottato quella linea di difesa che è indicata da un famoso detto popolare lombardo:”Lu me n’à dà, ma mi ghe nu dì” (Lui me ne ha date, ma io gliene ho dette).
Con lo stesso spirito, ma in modo più sorridente, ho ascoltato le parole che il mio vecchio Rettore Maggiore mi rivolse (erano passati più di trent’anni dal nostro ultimo tempestoso incontro). Il giorno che venne nella mia parrocchia a celebrare il funerale di un sacerdote mio collaboratore e suo conterraneo: “E’ una provvidenza, mi disse, che sia morto il nostro caro don Egidio (sic), perché ci dà l’occasione di ritrovarci dopo tanto tempo”.
Ora che anche lui è passato a “miglior vita” e io mi appresto a raggiungerlo, che cosa dovrei aspettarmi da questo nuovo incontro?
Per il fatto di non essere beato come Rosmini, mi auguro una sola cosa: semplicemente di non essere accolto con le stesse parole usate al funerale di don Egidio. “E’ una provvidenza che tu sia…”.