Dio che viaggia in incognito
“Adolf Hitler: respinto”
Queste parole che segnarono una profonda delusione nell’animo del giovane Adolf Hitler il quale aveva sognato, se mai fosse stato ammesso ai corsi dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, di diventare un grande artista, costituiscono l’incipit del romanzo di Eric-Emmanuel Schmidt, intitolato La parte dell’altro.
C’è un interrogativo che l’autore si è posto iniziando la narrazione: se Adolf Hitler fosse stato ammesso, non sarebbe possibile ipotizzare una storia diversa per quanto riguarda non solo la sua vicenda personale, ma anche la tragicità dei fatti che siamo stati costretti a registrare dopo l’avvento del Terzo Reich?
Per questo Schmidt, mentre ripercorre gli sviluppi imprevedibili che quella esclusione provocò nella fragile e tormentata psicologia del giovane Adolf Hitler, immagina un altro percorso, parallelo al primo, affidato a una sorta di controfigura: è la storia del pittore Adolf H di cui segue le vicende in un contesto di ambienti e di ambizioni borghesi,:a partire dal giorno della sua ammissione all’Accademia.
Si tratta dunque di un romanzo complesso sia per la struttura sia per le tensioni di ordine morale che innervano la narrazione.
Devo confessare che da tutto questo travaglio creativo e speculativo che ha portato l’autore a interrogarsi sul mistero della libertà interiore dell’uomo, arrivando a formulare questa inquietante verità: “Hitler è una verità nascosta nel profondo di noi stessi che può risorgere in qualsiasi momento”, ho mutuato questa semplice curiosità che non cessa di interpellarmi da quando ho terminato la lettura: “Non potrei trovare anch’io, nel mio passato, qualche fatto imprevisto e tanto meno voluto che sia stato decisivo nel determinare il corso della mia vita?”.
Uno snodo importante mi pare di poterlo rinvenire nelle vacanze di II Media, quando mi trovai a frequentare lezioni private in vista di esami che avrei dovuto sostenere nella sessione autunnale.
Che ragione c’era di sottopormi a questo lavoro supplementare visto che la pagella di fine anno era stata salutata con grande soddisfazione da tutta la famiglia?
La decisione era stata presa da mio papà il quale, per le ristrettezze economiche in cui ci si trovava, aveva pensato di farmi guadagnare un anno presentandomi come privatista alla sessione di esami autunnale.
A salvarmi da questa manovra che m’avrebbe privato delle mie abituali amicizie è stata una provvidenziale circolare del ministero che, annullando le disposizioni precedenti, mi restituiva al mio normale iter scolastico.
Ma ora mi domando: “E se fosse mancata quella circolare?”.
Non mi è difficile immaginare quale sarebbe stato il mio futuro.
Mi vedo iscritto ai corsi di ragioneria presso l’Istituto Schiapparelli di Milano, che mio fratello ha già preso a frequentare; poi, una volta conseguito il diploma?
Non mi pare di poter immaginare una sostanziale differenza di vita rispetto a quella dei miei vecchi compagni di scuola entrati molto presto, alcuni appena dopo le elementari, in qualche bottega artigiana per imparare un mestiere alla scuola del padre, in attesa di formarsi a loro volta una famiglia.
Qualcuno mi potrebbe chiedere: e la vocazione a diventare prete?
Nelle vacanze di II media non avevo ancora maturato alcun desiderio di entrare in seminario.
Per la verità., anche nella vacanza successiva, non ricordo di avere avvertito una particolare chiamata (ciò che comunemente si intendeva per vocazione), eppure mi sono trovato in seminario.
Avevo o no allora la vocazione a farmi prete?
Su questo problema sono stati i superiori stessi del seminario a chiarirmi le idee quando mi è capitato nel corso degli anni di sentirli ragionare (un po’ brutalmente, per la verità) press’a poco così: “La vocazione uno non può dire di averla o di non averla.
Tutto infatti dipende dal giudizio dei superiori. Se essi, a nome del vescovo, ti vogliono prete, puoi dire di avere la vocazione, se non ti vogliono e un giorno ti trovi fuori le mura del seminario, è perché la vocazione non ce l’hai, anche se tu protestassi di sentire dentro di te una voce che ti chiama….”.
Fu così che nel 1955, sopravvissuto alla severa selezione operata dai superiori nel troppo folto numero degli aspiranti al sacerdozio ( si era 160 nella sola IV ginnasio, la classe che mi accolse al mio ingresso in seminario), potei essere ordinato prete.
Non mi fu peraltro risparmiata l’esperienza di trovarmi fuori le mura del seminario.
Ma questo avvenne più tardi, quando già insegnavo latino e greco nel liceo di Venegono.
Di questa mia disavventura ho già parlato in una delle pagine più recenti di questo blog (v. Le cinque piaghe della Santa Chiesa) e, prima ancora, nel mio Abito rosso.
Certamente il fatto di vedermi respinto da una cattedra così prestigiosa a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico dovette procurare molta tristezza a quanti si auguravano, viste le premesse, una mia rapida carriera anche nella nomenclatura ufficiale della diocesi.
Anche per me, che pure non avevo mai coltivato sogni di gloria colorati di rosso, quei giorni, è facile capire, furono molto amari.
Finito sul libro nero della curia la cui memoria sapevo quanto fosse tenace, mi vedevo preclusa la possibilità di entrare, di lì a qualche anno, nella vita pastorale come responsabile di una comunità parrocchiale..
E pertanto non avrei potuto godere neppure di quel piccolo trionfo che aveva ottenuto in quegli anni un rettore del seminario, il giorno del suo ingresso in parrocchia.
Essendo piccolo di statura, solo pochi avevano avuto il privilegio di seguire i suoi passi tra due ali di folla festanti, mentre agli altri non restava che condividere il giudizio raccolto dalla voce di una donna devota.: “Ci hanno mandato proprio un santo, visto che s’è fatto tutto il percorso in ginocchio, dall’ingresso in chiesa fino ai piedi dell’altare maggiore”.
Sorrido ancora al pensiero che, essendo piccolo come lui, avrei potuto godere anch’io di tale simpatica accoglienza.
Ma non era più tempo, allora, di indugiare sulla strada della fantasticheria..
Lasciata la pace piuttosto ovattata del seminario, protetta all’intorno da un vasta brughiera, mi sono trovato all’improvviso proiettato nel turbinio della grande città, in mezzo alle tensioni che preannunziavano le grandi lotte del ‘68 soprattutto nel mondo della scuola.
Trovandomi nei pressi della Cattolica, la mia università, potei seguire da vicino le prime rivendicazioni del movimento studentesco guidato da Mario Capanna, come pure i primi sussulti di contestazione ecclesiale promossi da un certo Schianchi, un altro studente della Cattolica che credo provenisse da Parma.
À me pareva di respirare finalmente un’aria di tonificante libertà che mi rendeva ancora più sgradevole e insopportabile il clima che regnava nel collegio arcivescovile a cui ero stato assegnato.
Che cosa avrei dovuto fare per ritagliarmi uno spazio di libertà personale all’interno di una situazione rigidamente governata dalla paura di ogni novità?
La prima mossa è stata quella di affrontare l’esame di abilitazione e di iscrivermi poi nelle graduatorie del provveditorato per ottenere un insegnamento statale.
E qui devo dire che si è verificato un altro snodo importante della mia vita, con il rischio, questa volta, di vedermi non soltanto fuori le mura del collegio, ma di trovarmi anche escluso dall’elenco ufficiale dei presbiteri al servizio della diocesi.
Vale la pena di richiamare in rapida successione i fatti che mi hanno coinvolto in prima persona. Nell’ottobre del 1972 ricevo dal provveditorato l’incarico per l’ insegnamento di italiano nel liceo classico Beccaria.
Trattandosi di uno spezzone di sole quattro ore settimanali che mi è facile sistemare senza nulla togliere al mio normale lavoro in collegio, accetto senza alcuna esitazione.
Il problema mi si pone invece in prossimità dell’anno scolastico successivo, quando dal provveditorato vengo invitato ad assumere l’orario di insegnamento completo.
Conosco il rischio di una decisione presa senza la debita autorizzazione dall’alto.
Che fare?
A togliermi da questa situazione, a dir poco imbarazzante, mi arriva proprio in quei giorni una lettera di mons. Bertoglio il quale, come vicario responsabile dei collegi arcivescovili, mi impone in modo perentorio una scelta: o stare dalla parte del collegio, rinunciando a ogni insegnamento esterno, o dalla parte della scuola pubblica, rinunciando all’ospitalità di cui godevo in collegio.
A me non pare vero di poter fare la scelta desiderata anche se di ritorno dal provveditorato trovo ad attendermi il rettore del collegio il quale mi accoglie con queste fredde parole: “Da domani puoi lasciare il collegio”.
Come a dire: “Da domani non c’è più posto per te in collegio”.
Non mi resta che chiedere udienza al cardinale, anche se, per l’aria sessantottina che mi ritrovo addosso, non posso aspettarmi da lui una grande comprensione.
Ma qui devo riconoscere che il mio cardinale, una volta ascoltate le mie ragioni, ha abbandonato il tono severo iniziale permettendosi perfino un bonario commento alla lettera di mons. Bertoglio:
“Mons. Bertoglio? E’una gran brava persona, ma farebbe bene a dire qualche rosario in meno e a riflettere di più quando deve scrivere una lettera”.
E tutto si chiude nel modo più conciliante: “Vedi, io non ti avrei mandato nella scuola pubblica, ma, dato che già ci sei, ti mando con la mia benedizione”.
Ho seguito finora certe svolte critiche del mio percorso esistenziale in cui il caso ha giocato un ruolo importante, a volte decisivo.
Che cosa rappresenta per me il caso?
Confesso che anche per me, quando ne parlo in modo superficiale, esso non è altro che qualcosa di bizzarro e di irrazionale in grado di sommuovere progetti e previsioni anche se elaborati secondo criteri di provata affidabilità.
Per gli episodi che ho narrato della mia vita e per altri che mi sono capitati in tempi successivi, il mio commento immediato potrebbe essere questo: “Il caso ha voluto che…”.
Se non che ho trovato recentemente una definizione del caso che mi ha fatto riflettere molto.
È custodita in un piccolo aforisma che ho visto citato in un’opera di Michel Tournier:
“Il caso è Dio quando viaggia in incognito”.
“Un Dio in cammino, un Dio che passa”:. Il rapporto non è con un Dio lontano, chiuso nella sua inarrivabile perfezione, ma con un Dio che sempre ci sorprende con innumerevoli passaggi sui sentieri della nostra esistenza.
E sono passaggi, quelli di Dio, che non amano la piena visibilità, ma piuttosto l’arte della dissimulazione e della discrezione.
Questo non significa che ci manchino i segni per riconoscere la sua presenza.
Solo che si tratta di segni leggeri, affidati all’intuizione del cuore.
Vien fatto di pensare al modo con cui Cristo, il risorto, si fece riconoscere dai due discepoli sulla strada che da Gerusalemme portava verso Emmaus.
“Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?”: ecco il segno rivelatore di una presenza misteriosa che Cleopa e il suo compagno all’inizio non avevano potuto percepire.
Anche a me - è una testimonianza che a questo punto sento di dover dare – è capitato di avvertire all’interno di situazioni confuse che immediatamente mi sembravano determinate dal caso, il battito di una presenza nascosta riconducibile a quel Dio che ama passare in incognito.
E se mi soffermo ad auscultare meglio queste sensazioni, mi pare di poter dire che Dio abbia voluto significarmi la sua presenza attraverso il gusto della libertà e il dono dell’amicizia.
La libertà l’ho cercata assiduamente e l’ho custodita gelosamente tutte le volte che mi è stato concesso di gustarne il sapore.
Devo riconoscere di avere sempre avuto un temperamento un po’ ribelle nei confronti dell’autorità, soprattutto se questa mi si presentava con un prestigio indebito, viziato cioè da tante forme di arrivismo e di vanità.
Si possono perciò capire certe mie impuntature nei confronti della figura del monsignore (v. Abito rosso), assunta come emblema di una ambizione che porta a ottenere qualche riconoscimento esteriore, rinunciando però al pieno esercizio della propria libertà.
Si sa infatti quello che succede anche nella chiesa: se uno vuole emergere, sopravvanzare, occupare un posto di responsabilità, deve sempre controllare ogni sua parola e ogni suo gesto; in particolare non deve mai essere motivo di scandalo per nessuno, anche se Gesù ci ha insegnato a scandalizzare i potenti di questo mondo.
A questo punto vorrei che fosse chiara la ragione che mi ha tenuto lontano dal mondo della competizione in vista di una possibile carriera: non si tratta di una spiccata comprensione del valore dell’umiltà che gli amici vorrebbero riconoscermi, ma di una raffinata forma di egoismo: ho voluto a tutti i costi salvare la mia libertà.
Nel mio diario di qualche anno fa, a proposito di ciò che mi sarei augurato all’inizio di un nuovo anno pastorale, esprimevo il desiderio di sentirmi sempre libero, libero di pensare, di giudicare, di entrare in rapporto con tutti, anche con chi non condivide la mia fede, con quello spirito di simpatia che dovrebbe unire tutti quelli che, pur muovendosi su strade diverse, cercano qualcosa che trascenda la dimensione opaca dell’esistenza.
Devo dire che non è facile vivere da liberi pensatori all’interno di una comunità cristiana, ma posso aggiungere che mi basta a volte aprire il vangelo per sentirmi incoraggiato a superare i sensi di colpa e di solitudine: non è forse vero infatti che il vangelo è un continuo appello alla libertà di cui il Signore non si è stancato di trasmetterci la bella notizia?
Un’altra traccia del passaggio di Dio nella mia vita è – come già ho avuto modo di segnalare – il profumo dell’amicizia.
Nel Diario di Julien Green ho ritrovato questo pensiero meraviglioso:
“Se dovessi partire questa sera e mi si domandasse che cosa mi ha maggiormente commosso in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini.
Tutto si perde nell’amore”.
Perciò il segno più trasparente di questa presenza segreta di Dio nella nostra vita è il dono dell’amicizia.
Vorrei celebrare anch’io l’amicizia, come hanno fatto in tempi recenti padre David Maria Turoldo, padre Nazareno Fabretti, don Michele Do i quali ne hanno parlato come se fosse il primo sacramento oppure l’ottavo sacramento, una realtà cioè che dischiude e conferma il mistero di un Dio che si è fatto prossimo a ciascuno di noi.
Vorrei celebrare anch’io l’amicizia soprattutto ora che, lasciato il ministero attivo, vedo moltiplicarsi gli amici attorno a me.
Amici vecchi e nuovi, amici conosciuti per caso: non c’è mattina che non sia rallegrata dalla visita di qualche persona amica.
A che debbo il profumo dell’amicizia che mi pare di avvertire nel corso di questi incontri?
E’proprio vero: “il caso è Dio quando viaggia in incognito”; il quale Dio, essendo amore, non può che privilegiare, come segni rivelatori della sua presenza, le stupende liturgie dell’amore.
“Adolf Hitler: respinto”
Queste parole che segnarono una profonda delusione nell’animo del giovane Adolf Hitler il quale aveva sognato, se mai fosse stato ammesso ai corsi dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, di diventare un grande artista, costituiscono l’incipit del romanzo di Eric-Emmanuel Schmidt, intitolato La parte dell’altro.
C’è un interrogativo che l’autore si è posto iniziando la narrazione: se Adolf Hitler fosse stato ammesso, non sarebbe possibile ipotizzare una storia diversa per quanto riguarda non solo la sua vicenda personale, ma anche la tragicità dei fatti che siamo stati costretti a registrare dopo l’avvento del Terzo Reich?
Per questo Schmidt, mentre ripercorre gli sviluppi imprevedibili che quella esclusione provocò nella fragile e tormentata psicologia del giovane Adolf Hitler, immagina un altro percorso, parallelo al primo, affidato a una sorta di controfigura: è la storia del pittore Adolf H di cui segue le vicende in un contesto di ambienti e di ambizioni borghesi,:a partire dal giorno della sua ammissione all’Accademia.
Si tratta dunque di un romanzo complesso sia per la struttura sia per le tensioni di ordine morale che innervano la narrazione.
Devo confessare che da tutto questo travaglio creativo e speculativo che ha portato l’autore a interrogarsi sul mistero della libertà interiore dell’uomo, arrivando a formulare questa inquietante verità: “Hitler è una verità nascosta nel profondo di noi stessi che può risorgere in qualsiasi momento”, ho mutuato questa semplice curiosità che non cessa di interpellarmi da quando ho terminato la lettura: “Non potrei trovare anch’io, nel mio passato, qualche fatto imprevisto e tanto meno voluto che sia stato decisivo nel determinare il corso della mia vita?”.
Uno snodo importante mi pare di poterlo rinvenire nelle vacanze di II Media, quando mi trovai a frequentare lezioni private in vista di esami che avrei dovuto sostenere nella sessione autunnale.
Che ragione c’era di sottopormi a questo lavoro supplementare visto che la pagella di fine anno era stata salutata con grande soddisfazione da tutta la famiglia?
La decisione era stata presa da mio papà il quale, per le ristrettezze economiche in cui ci si trovava, aveva pensato di farmi guadagnare un anno presentandomi come privatista alla sessione di esami autunnale.
A salvarmi da questa manovra che m’avrebbe privato delle mie abituali amicizie è stata una provvidenziale circolare del ministero che, annullando le disposizioni precedenti, mi restituiva al mio normale iter scolastico.
Ma ora mi domando: “E se fosse mancata quella circolare?”.
Non mi è difficile immaginare quale sarebbe stato il mio futuro.
Mi vedo iscritto ai corsi di ragioneria presso l’Istituto Schiapparelli di Milano, che mio fratello ha già preso a frequentare; poi, una volta conseguito il diploma?
Non mi pare di poter immaginare una sostanziale differenza di vita rispetto a quella dei miei vecchi compagni di scuola entrati molto presto, alcuni appena dopo le elementari, in qualche bottega artigiana per imparare un mestiere alla scuola del padre, in attesa di formarsi a loro volta una famiglia.
Qualcuno mi potrebbe chiedere: e la vocazione a diventare prete?
Nelle vacanze di II media non avevo ancora maturato alcun desiderio di entrare in seminario.
Per la verità., anche nella vacanza successiva, non ricordo di avere avvertito una particolare chiamata (ciò che comunemente si intendeva per vocazione), eppure mi sono trovato in seminario.
Avevo o no allora la vocazione a farmi prete?
Su questo problema sono stati i superiori stessi del seminario a chiarirmi le idee quando mi è capitato nel corso degli anni di sentirli ragionare (un po’ brutalmente, per la verità) press’a poco così: “La vocazione uno non può dire di averla o di non averla.
Tutto infatti dipende dal giudizio dei superiori. Se essi, a nome del vescovo, ti vogliono prete, puoi dire di avere la vocazione, se non ti vogliono e un giorno ti trovi fuori le mura del seminario, è perché la vocazione non ce l’hai, anche se tu protestassi di sentire dentro di te una voce che ti chiama….”.
Fu così che nel 1955, sopravvissuto alla severa selezione operata dai superiori nel troppo folto numero degli aspiranti al sacerdozio ( si era 160 nella sola IV ginnasio, la classe che mi accolse al mio ingresso in seminario), potei essere ordinato prete.
Non mi fu peraltro risparmiata l’esperienza di trovarmi fuori le mura del seminario.
Ma questo avvenne più tardi, quando già insegnavo latino e greco nel liceo di Venegono.
Di questa mia disavventura ho già parlato in una delle pagine più recenti di questo blog (v. Le cinque piaghe della Santa Chiesa) e, prima ancora, nel mio Abito rosso.
Certamente il fatto di vedermi respinto da una cattedra così prestigiosa a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico dovette procurare molta tristezza a quanti si auguravano, viste le premesse, una mia rapida carriera anche nella nomenclatura ufficiale della diocesi.
Anche per me, che pure non avevo mai coltivato sogni di gloria colorati di rosso, quei giorni, è facile capire, furono molto amari.
Finito sul libro nero della curia la cui memoria sapevo quanto fosse tenace, mi vedevo preclusa la possibilità di entrare, di lì a qualche anno, nella vita pastorale come responsabile di una comunità parrocchiale..
E pertanto non avrei potuto godere neppure di quel piccolo trionfo che aveva ottenuto in quegli anni un rettore del seminario, il giorno del suo ingresso in parrocchia.
Essendo piccolo di statura, solo pochi avevano avuto il privilegio di seguire i suoi passi tra due ali di folla festanti, mentre agli altri non restava che condividere il giudizio raccolto dalla voce di una donna devota.: “Ci hanno mandato proprio un santo, visto che s’è fatto tutto il percorso in ginocchio, dall’ingresso in chiesa fino ai piedi dell’altare maggiore”.
Sorrido ancora al pensiero che, essendo piccolo come lui, avrei potuto godere anch’io di tale simpatica accoglienza.
Ma non era più tempo, allora, di indugiare sulla strada della fantasticheria..
Lasciata la pace piuttosto ovattata del seminario, protetta all’intorno da un vasta brughiera, mi sono trovato all’improvviso proiettato nel turbinio della grande città, in mezzo alle tensioni che preannunziavano le grandi lotte del ‘68 soprattutto nel mondo della scuola.
Trovandomi nei pressi della Cattolica, la mia università, potei seguire da vicino le prime rivendicazioni del movimento studentesco guidato da Mario Capanna, come pure i primi sussulti di contestazione ecclesiale promossi da un certo Schianchi, un altro studente della Cattolica che credo provenisse da Parma.
À me pareva di respirare finalmente un’aria di tonificante libertà che mi rendeva ancora più sgradevole e insopportabile il clima che regnava nel collegio arcivescovile a cui ero stato assegnato.
Che cosa avrei dovuto fare per ritagliarmi uno spazio di libertà personale all’interno di una situazione rigidamente governata dalla paura di ogni novità?
La prima mossa è stata quella di affrontare l’esame di abilitazione e di iscrivermi poi nelle graduatorie del provveditorato per ottenere un insegnamento statale.
E qui devo dire che si è verificato un altro snodo importante della mia vita, con il rischio, questa volta, di vedermi non soltanto fuori le mura del collegio, ma di trovarmi anche escluso dall’elenco ufficiale dei presbiteri al servizio della diocesi.
Vale la pena di richiamare in rapida successione i fatti che mi hanno coinvolto in prima persona. Nell’ottobre del 1972 ricevo dal provveditorato l’incarico per l’ insegnamento di italiano nel liceo classico Beccaria.
Trattandosi di uno spezzone di sole quattro ore settimanali che mi è facile sistemare senza nulla togliere al mio normale lavoro in collegio, accetto senza alcuna esitazione.
Il problema mi si pone invece in prossimità dell’anno scolastico successivo, quando dal provveditorato vengo invitato ad assumere l’orario di insegnamento completo.
Conosco il rischio di una decisione presa senza la debita autorizzazione dall’alto.
Che fare?
A togliermi da questa situazione, a dir poco imbarazzante, mi arriva proprio in quei giorni una lettera di mons. Bertoglio il quale, come vicario responsabile dei collegi arcivescovili, mi impone in modo perentorio una scelta: o stare dalla parte del collegio, rinunciando a ogni insegnamento esterno, o dalla parte della scuola pubblica, rinunciando all’ospitalità di cui godevo in collegio.
A me non pare vero di poter fare la scelta desiderata anche se di ritorno dal provveditorato trovo ad attendermi il rettore del collegio il quale mi accoglie con queste fredde parole: “Da domani puoi lasciare il collegio”.
Come a dire: “Da domani non c’è più posto per te in collegio”.
Non mi resta che chiedere udienza al cardinale, anche se, per l’aria sessantottina che mi ritrovo addosso, non posso aspettarmi da lui una grande comprensione.
Ma qui devo riconoscere che il mio cardinale, una volta ascoltate le mie ragioni, ha abbandonato il tono severo iniziale permettendosi perfino un bonario commento alla lettera di mons. Bertoglio:
“Mons. Bertoglio? E’una gran brava persona, ma farebbe bene a dire qualche rosario in meno e a riflettere di più quando deve scrivere una lettera”.
E tutto si chiude nel modo più conciliante: “Vedi, io non ti avrei mandato nella scuola pubblica, ma, dato che già ci sei, ti mando con la mia benedizione”.
Ho seguito finora certe svolte critiche del mio percorso esistenziale in cui il caso ha giocato un ruolo importante, a volte decisivo.
Che cosa rappresenta per me il caso?
Confesso che anche per me, quando ne parlo in modo superficiale, esso non è altro che qualcosa di bizzarro e di irrazionale in grado di sommuovere progetti e previsioni anche se elaborati secondo criteri di provata affidabilità.
Per gli episodi che ho narrato della mia vita e per altri che mi sono capitati in tempi successivi, il mio commento immediato potrebbe essere questo: “Il caso ha voluto che…”.
Se non che ho trovato recentemente una definizione del caso che mi ha fatto riflettere molto.
È custodita in un piccolo aforisma che ho visto citato in un’opera di Michel Tournier:
“Il caso è Dio quando viaggia in incognito”.
“Un Dio in cammino, un Dio che passa”:. Il rapporto non è con un Dio lontano, chiuso nella sua inarrivabile perfezione, ma con un Dio che sempre ci sorprende con innumerevoli passaggi sui sentieri della nostra esistenza.
E sono passaggi, quelli di Dio, che non amano la piena visibilità, ma piuttosto l’arte della dissimulazione e della discrezione.
Questo non significa che ci manchino i segni per riconoscere la sua presenza.
Solo che si tratta di segni leggeri, affidati all’intuizione del cuore.
Vien fatto di pensare al modo con cui Cristo, il risorto, si fece riconoscere dai due discepoli sulla strada che da Gerusalemme portava verso Emmaus.
“Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?”: ecco il segno rivelatore di una presenza misteriosa che Cleopa e il suo compagno all’inizio non avevano potuto percepire.
Anche a me - è una testimonianza che a questo punto sento di dover dare – è capitato di avvertire all’interno di situazioni confuse che immediatamente mi sembravano determinate dal caso, il battito di una presenza nascosta riconducibile a quel Dio che ama passare in incognito.
E se mi soffermo ad auscultare meglio queste sensazioni, mi pare di poter dire che Dio abbia voluto significarmi la sua presenza attraverso il gusto della libertà e il dono dell’amicizia.
La libertà l’ho cercata assiduamente e l’ho custodita gelosamente tutte le volte che mi è stato concesso di gustarne il sapore.
Devo riconoscere di avere sempre avuto un temperamento un po’ ribelle nei confronti dell’autorità, soprattutto se questa mi si presentava con un prestigio indebito, viziato cioè da tante forme di arrivismo e di vanità.
Si possono perciò capire certe mie impuntature nei confronti della figura del monsignore (v. Abito rosso), assunta come emblema di una ambizione che porta a ottenere qualche riconoscimento esteriore, rinunciando però al pieno esercizio della propria libertà.
Si sa infatti quello che succede anche nella chiesa: se uno vuole emergere, sopravvanzare, occupare un posto di responsabilità, deve sempre controllare ogni sua parola e ogni suo gesto; in particolare non deve mai essere motivo di scandalo per nessuno, anche se Gesù ci ha insegnato a scandalizzare i potenti di questo mondo.
A questo punto vorrei che fosse chiara la ragione che mi ha tenuto lontano dal mondo della competizione in vista di una possibile carriera: non si tratta di una spiccata comprensione del valore dell’umiltà che gli amici vorrebbero riconoscermi, ma di una raffinata forma di egoismo: ho voluto a tutti i costi salvare la mia libertà.
Nel mio diario di qualche anno fa, a proposito di ciò che mi sarei augurato all’inizio di un nuovo anno pastorale, esprimevo il desiderio di sentirmi sempre libero, libero di pensare, di giudicare, di entrare in rapporto con tutti, anche con chi non condivide la mia fede, con quello spirito di simpatia che dovrebbe unire tutti quelli che, pur muovendosi su strade diverse, cercano qualcosa che trascenda la dimensione opaca dell’esistenza.
Devo dire che non è facile vivere da liberi pensatori all’interno di una comunità cristiana, ma posso aggiungere che mi basta a volte aprire il vangelo per sentirmi incoraggiato a superare i sensi di colpa e di solitudine: non è forse vero infatti che il vangelo è un continuo appello alla libertà di cui il Signore non si è stancato di trasmetterci la bella notizia?
Un’altra traccia del passaggio di Dio nella mia vita è – come già ho avuto modo di segnalare – il profumo dell’amicizia.
Nel Diario di Julien Green ho ritrovato questo pensiero meraviglioso:
“Se dovessi partire questa sera e mi si domandasse che cosa mi ha maggiormente commosso in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini.
Tutto si perde nell’amore”.
Perciò il segno più trasparente di questa presenza segreta di Dio nella nostra vita è il dono dell’amicizia.
Vorrei celebrare anch’io l’amicizia, come hanno fatto in tempi recenti padre David Maria Turoldo, padre Nazareno Fabretti, don Michele Do i quali ne hanno parlato come se fosse il primo sacramento oppure l’ottavo sacramento, una realtà cioè che dischiude e conferma il mistero di un Dio che si è fatto prossimo a ciascuno di noi.
Vorrei celebrare anch’io l’amicizia soprattutto ora che, lasciato il ministero attivo, vedo moltiplicarsi gli amici attorno a me.
Amici vecchi e nuovi, amici conosciuti per caso: non c’è mattina che non sia rallegrata dalla visita di qualche persona amica.
A che debbo il profumo dell’amicizia che mi pare di avvertire nel corso di questi incontri?
E’proprio vero: “il caso è Dio quando viaggia in incognito”; il quale Dio, essendo amore, non può che privilegiare, come segni rivelatori della sua presenza, le stupende liturgie dell’amore.
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