mercoledì 9 dicembre 2009

Trenodia

Questa sera vorrei intonare una trenodia.
Trenodia è parola greca che significa lamentazione.
E lamentazione è qualcosa di ben diverso dalle abituali lamentele che siamo soliti registrare nel corso delle nostre giornate.
Quante di queste lamentele abbiamo dovuto raccogliere durante estate, per il gran caldo che nessuna perturbazione riusciva a debellare, lasciando anzi la sensazione di un’afa particolarmente soffocante.
Ma non è di questo che intendo parlare.
È mortificante dover registrare che quella esperienza particolarmente gradevole che stai vivendo non si riproporrà mai più. È l’ultima volta, non ce ne sarà più un’altra.
Dico questo perché da diverse settimane mi sento angustiato dal fatto di dover rinunciare al piacere di guidare la mia auto.
A determinare questa decisione è stata soprattutto l’insistenza di famigliari e amici i quali vorrebbero evitarmi qualche brutta disavventura.
Non che abbia dato motivi di apprensione a quanti siano stati testimoni del mio stile di guida anche in tempi recenti, a quasi cinquant’anni dal rilascio della patente.
C’è chi potrebbe ferire il mio orgoglio richiamando un episodio che io stesso ho raccontato in una delle prime pagine di questo diario con il titolo “Soffro di amnesie senili”.
Quella volta avrei corso il rischio di sbandare con la mia macchina dopo avere urtato contro il cordolo della strada sul Turchino.
Ma si trattava - ora posso ben dirlo- di un’invenzione puramente letteraria che ubbidiva ad una esigenza di tipo narrativo.
E la riprova sta nel fatto che nessuno potrebbe mai trovare sul passo del Turchino neanche un pezzo di cordolo a delimitare il bordo della strada.
“Di che ti lamenti?” potrebbe obiettarmi qualche amico pantofolaio, uno di quelli dall’aria monsignorile (ce ne sono, eccome!), i quali preferiscono farsi portare lasciando ad altri le incombenze della guida.
Per conto mio non li invidio, perché, così facendo, non conosceranno mai il fascino di quella libertà che puoi provare quando, al volante della tua vettura, puoi scegliere un percorso piuttosto che un altro e senti il motore vibrare per qualche brusca frenata o per un’improvvisa accelerazione.
Quanti ricordi si affollano nella mia memoria per avere attraversato tanti paesi europei, macinando chilometri e chilometri, sempre difendendo il mio posto di guida, anche quando qualche compagno di viaggio avrebbe potuto benissimo darmi il cambio.
Da questi ricordi emergono in particolare situazioni, tutte nel segno di una ardente nostalgia, legate alla vettura che di volta in volta avevo la fortuna di guidare.
Le prime forti emozioni le ho provate prendendo lezioni di guida, in vista dell’esame per la patente, da quel grande amico che è stato per me e per molti don Giuliano Riva, lui pure insegnante nello stesso seminario ginnasiale.
Nel suo ruolo di istruttore sembrava severo, ma era anche molto spassoso, come quando, vedendomi procedere con eccessiva prudenza anche su strade semideserte, spazientito mi gridava: “Ma schiscia giò ‘sto ciud!”, alludendo al pedale dell’acceleratore che avrebbe avuto bisogno, a suo giudizio, di più numerose e robuste sollecitazioni.
Ed è da lui che ho imparato una norma di comportamento coniata, credo, dallo spirito misogino di qualche padre spirituale.
Si era fermi a un semaforo sulla Valassina, quando vedemmo avvicinarsi una ragazza a chiedere un passaggio per il paese più vicino. Fu allora che lo sentii sillabare, tra il serio e il faceto, questa massima: “I donn, che voeren fa l’autostop, regordes, l’è mej tiraj sota che tiraj su”.
È un fatto che le prime esperienze alla guida della mia auto sembravano allargare sempre più gli spazi della mia libertà.
Non sono mancati, certo, anche momenti di disaffezione, soprattutto quando si rifiutava di ripartire al mattino, per il freddo patito durante la notte, ma per lo più si stabiliva tra noi un rapporto di reciproca solidarietà tanto che mi capitava di parlare alla mia auto come se fosse una creatura sensibile, incoraggiandola nei momenti difficili ed esaltandone il valore dopo avere superato la prova.
A questo proposito, c’è un episodio che mi è rimasto impresso nella memoria con una nitidezza di particolari, come se appartenesse a una esperienza recente.
In realtà bisogna risalire a quella stagione del nostro mondo occidentale (era il famoso ’68) contrassegnata da continue agitazioni che spesso culminavano in fatti di sangue.
Quel giorno, essendo stato indetto uno sciopero generale, avevo disertato anch’io la scuola dove insegnavo e mi trovavo a conversare con un amico, libero lui pure, per stessa ragione, da ogni impegno di lavoro, quando all’improvviso udimmo dal cortile sottostante un vociare confuso e minaccioso come di gente che si fosse mossa per una spedizione punitiva.
Mi ci volle poco per capire che si trattava di un gruppo di “autonomi” il cui obiettivo doveva essere la sede di CL che si trovava proprio sotto la mia abitazione.
Tutto si svolse rapidamente, ma furono attimi spaventosi.
Si udirono dapprima dei botti assordanti, poi si levò una nuvolaglia nera quasi a nascondere lo scenario investito da tanta violenza, infine, al diradarsi di questa coltre fuligginosa, apparvero tante lingue di fuoco, alcune pronte ad aggredire l‘ascensore di cui già lambivano la struttura lignea,
altre sul punto di appiccare il fuoco ai vecchi armadi della vecchia sacrestia.
Ma la mia attenzione fu subito totalmente assorbita dal pericolo che incombeva sulla mia macchina parcheggiata in un angolo del cortile (era una Fiat 850), si trovava racchiusa entro una cornice di fuoco che ne aveva annerito le fiancate e che stava per intaccare le gomme.
Per me era come se l’avessi oramai perduta.
Mi trovavo paralizzato dalla paura che qualcosa dovesse scoppiare (o una gomma o il serbatoio), quando vidi la sagoma del mio amico raggiungere precipitosamente la mia macchina per poi balzare all’interno, incurante di ogni pericolo, riuscendo così a sottrarla alla morsa dei quel cerchio infernale.
Intanto una piccola folla di giovani, per lo più di CL, si era raccolta nel cortile deplorando ad alta voce la violenza subita dalla loro sede.
Di lì a poco comparve anche l’assistente di CL che ufficialmente sarebbe dovuto essere a Roma per discutere – così si vociferava – di cose estremamente importanti con un’alta carica del Vaticano.
All’arrivo di diversi cronisti attorno quali si formò subito un assembramento di persone pronte a dare la loro versione dei fatti, ci chiedemmo, io e il mio amico, che cosa fosse più conveniente per noi.
Ci guardammo negli occhi e la decisione fu subito presa.
Dopo aver dato uno sguardo compassionevole alla mia macchina che se ne stava ammaccata e negletta in un angolo del cortile, ci trovammo in una piccola trattoria del quartiere a smaltire le nostre emozioni attorno a un tavolo fumante di polenta e spezzatini.
Conclusione: Perché ho raccontato questa storia?
Per far capire come tra me e la mia macchina c’è sempre stato un rapporto non puramente strumentale, ma affettivo.
Ecco perché ogni volta che mi separavo dalla mia auto provavo una grande tristezza.
Avete un bel dirmi, cari amici: “Di che ti lamenti, visto che sei autosufficiente?".
Io avrei voglia di rispondere: che me ne faccio di questa autosufficienza se mi togliete l’auto?
Senza auto che senso ha quella sufficienza residua?
Che me ne faccio di una sufficienza che non abbia alcun riferimento concreto?
Ecco perché la lamentazione di cui parlavo all’inizio mi sembra più che legittima.
Il titolo che ho scelto all’inizio mi sembra più che giustificato.
Si tratta per me di una vera trenodia.

giovedì 13 agosto 2009

Inter-ludio 4

Credo sia giunto il momento di spiegare perché ancora una volta mi sia servito della parola interludio per introdurre i miei pensieri vagabondi.
Confesso che fino a pochi mesi fa non mi era mai capitato di incontrare questa parola.
L’ho ascoltata la prima volta un mattino, al risveglio, quando, per uno strano gioco combinatorio dovuto al caso, mi sentii defraudato del mio solito programma radiofonico e prontamente risarcito con un altro programma di cui non conoscevo neppure l’esistenza.
Mi resi subito conto che la sostituzione mi offriva un vantaggio enorme.
Non mi sarebbe più capitato infatti di dovere iniziare una giornata con la tristezza di chi sia stato raggiunto da una serie di messaggi desolanti, come quelli che mi venivano dispensati dagli autori di Prima pagina, attingendo ai fatti più inquietanti e ai relativi commenti segnalati dalle prime pagine dei più autorevoli quotidiani nazionali.
Quella mattina, al mio risveglio, trovai invece un delizioso quartetto di Mozart e una preziosa informazione: la musica che avrei ascoltato era diffusa dal V canale della filodiffusione al quale era stato assegnato il compito di trasmettere solo musica classica, in continuazione, ventiquattro ore su ventiquattro.
E fu in quella occasione che la voce garbata di un’annunciatrice introdusse una parte del
programma usando la parola interludio.
Che cosa avrebbe dovuto significarmi questa parola?
Non mi sono preoccupato di consultare il vocabolario.
Interludio doveva essere per me una sorta di intermezzo musicale, quasi fosse un gioco che si proponesse di stemperare emozioni troppo intense in una trama di note gradevoli e sorridenti.
Ma che senso può avere quel trattino che segna uno stacco tra le due parole che hanno dato vita a questo intrigante inter-ludio?
Immagino il sorriso malizioso di qualcuno che conosce le mie passioni sportive e, in particolare, la mia incrollabile fedeltà nel seguire le vicende dell’Inter, che è sempre stata la squadra del mio cuore.
Proseguendo il mio piccolo voyage autour de ma chambre, potrei mostrarvi tante tracce di questa storia che dura oramai da più di sessant’anni.
Vi sarebbe facile riconoscermi in una gigantografia in cui compaio di spalle, con addosso la maglia dell’Inter contrassegnata dal mio nome e da un vistoso numero 50.
Ma toccherebbe a me spiegare come abbia ottenuto un omaggio tanto singolare.
E’ stato il giorno in cui venivo festeggiato per i miei 50 anni di sacerdozio che Enzo Bearzot, il grande commissario tecnico della nazionale campione del mondo1982, volle rendere manifesta a tutti la mia fede sportiva facendomi indossare, nel corso del pranzo comunitario, la casacca neroazzurra.
Da quel giorno le attestazioni di simpatia nei miei confronti, nel nome dell’Inter, si sono moltiplicate, tanto che ne verrebbe un elenco troppo lungo se pensassi di segnalare anche solo quelle più significative.
Non posso però non fare parola della epigrafe che su carta pergamena mi dedicò un grande amico, Franco Orcese, e che venne poi sottoscritta dagli amici più cari (si trova ora in bella evidenza
in un angolo della mia piccola cucina).
Essa suona così:

“Non è mai stato nero”
(filofascista mai!)

“Non è mai stato azzurro”
(berlusconiano mai!)
Ma sempre
“nero-azzurro”
(se anche l’Inter perdesse,
ma vincerà
“settanta” volte sette)

Accanto a questo scritto mi accorgo solo ora che ne esiste un altro, meritevole esso pure di essere fedelmente riprodotto.
Il testo è dovuto alla vena scherzosa di Lillo Santucci, impareggiabile nel commentare poeticamente, con il dono di un sorriso, le occasioni anche minime che sapeva riscontrare nella vita degli amici.
Le gustose quartine, che intendo citare, sono state scritte per una Liturgia di Capodanno 1997 e dedicate a me che già in occasione del Natale avevo avuto in dono un prezioso tampone con impugnatura d’argento:

1) Quel tampone per gl’inchiostri
che t’offriron Lillo e Bice
reca a te gli auguri nostri
per un anno più felice.

2) Asciugar ei si propone
nostre lagrime più afflitte
quando l’Inter fa il bidone
e racimola sconfitte.

3) Serva dunque da amuleto
alla squadra tua magnifica
e il tuo cuore faccia lieto
risalendo la classifica.

4) Ma se pur qualche domenica
farà mai l’Inter cilecca
e di reti sarà anemica,
c’è qualcuno che ci azzecca.

5) Ci sei tu, nostro Luigi,
………………
dall’altar, che fai prodigi
per noi vecchi tuoi tifosi.

6) Il tampon nostro pertanto
valga a te come SCUDETTTO,
simbol sia del nostro vanto
e del pallonesco affetto

7) che a te sempre ci affratella
nella FEDE che ci unisce
nella maglia ognor più bella:
quella a nero-azzurre strisce!

Mi chiedo se non sia eccessivo lo spazio che sto dedicando ad una “fede” tanto labile e inconsistente qual è quella riservata a una squadra di calcio.
Non sarebbe meglio se mi preoccupassi di problemi più seri?
Perché non denunciare, per esempio, sempre rimanendo nel mondo del calcio, il contrasto stridente tra il guadagno di un operaio specializzato o di un onesto professionista e le cifre folli che in questi giorni di calciomercato accompagnano la cessione o l’acquisto di qualche giocatore?
Confesso che c’è qualcosa di irrazionale nel prendere a cuore le sorti di una squadra di calcio, ma c’è pure una trama di amicizie che viene intessuta (un “affratellarsi” direbbe l’amico Santucci)
attraverso le tante occasioni di incontro offerte dalle vicende sportive della propria squadra.
Mi permetto perciò di citare per intero un mio scritto dedicato all’Inter (mi era stato chiesto da un simpatico gruppo di filointeristi in vista di una possibile pubblicazione di una antologia di memorie sportive).
Di questo scritto ho ritrovato recentemente, incisa su un cd, la magnifica interpretazione che ne aveva dato quel grande attore che fu Carlo Rivolta.
La sua voce calda, appassionata, vibrante di tenerezza o di sdegno l’avevamo conosciuta e apprezzata altre volte, tanto che si era creato fra noi un legame profondo e si può capire come la notizia della sua morte improvvisa abbia potuto suscitare vasto compianto nella nostra comunità..
Quella sera, nel cortile del chiostro della parrocchia aveva interpretato alcuni dei miei Pensieri Vagabondi (alla scelta aveva collaborato anche la moglie Nuvola con la sua straordinaria sensibilità umana) quando, salutato con un forte applauso, vedemmo Carlo accostarsi nuovamente al microfono e intonare con voce gagliarda: Monsignore tifa Inter!!
Ecco il testo di quell’inatteso fuoriprogramma:

Monsignore tifa Inter

Monsignore non ha mai indossato abiti rossi.
Il guardaroba personale non lascia alcun dubbio: le sue preferenze sono decisamente orientate verso altri colori.
Basti vedere la sciarpa che abitualmente porta nei mesi invernali o anche il pigiama e le babbucce che preferisce da quando gli sono stati regalati da un amico, dotato -è proprio il caso di dirlo- di particolare sensibilità intuitiva.
Perché non è facile sorprenderlo in pigiama e babbucce, qualcuno vorrà sapere (la curiosità sui monsignori pare non abbia limiti) quali siano gli accostamenti cromatici e le tonalità che egli predilige.
Come parlare di un argomento tanto delicato?
Se è vero che il tutto sta nei dettagli, qui c’è di mezzo la profondità insondabile di una persona che -non si dimentichi- è anche Monsignore.
Se ne può parlare solo prendendo le mosse da molto lontano, precisamente dal momento in cui fece il suo ingresso nel seminario minore per frequentare la IV ginnasio.
I principali capi d’abbigliamento erano due: la veste nera da “pretino” (oggi si direbbe la talare) e un paio di pantaloni “alla zuava” (con il gambale floscio che si allacciava sotto le ginocchia).
Per la veste, niente da dire, ma i pantaloni (se li ricorda, eccome!) risultarono particolarmente degni di attenzione il giorno in cui, giocando al pallone, per la prima volta dovette mostrarli in pubblico.
Che cosa avevano di così strano o di così eccentrico da attirare lo sguardo di tutti?
Era il colore, era quell’azzurro da divisa dell’aeronautica che il nero della veste allacciata in vita (era d’obbligo portarla anche in ricreazione) rendeva ancora più vistoso.
Avrebbe voluto parare l’indiscrezione di certi sguardi confessando in tono patetico: “Sì, è vero: me li ha confezionati mia mamma rimediando non so come un pezzo di stoffa dell’esercito”, ma subentrò subito dentro di lui uno scatto di fierezza tanto che avrebbe voluto gridare a tutti: “Che ne sapete voi dei colori di una squadra di calcio? Devo proprio spiegarvi che il nero della veste e l’azzurro dei miei pantaloni sono i colori della squadra del mio cuore?
Avete mai sentito parlare di Franzosi, Marchi e Passalacqua, Cominelli, Milani e Campatelli, Penzo, Achilli, Candiani…?”.
Come gli era facile snocciolare quei nomi, quasi accarezzandoli, ad uno ad uno, nell’ordine che occupavano sul campo!
Questione solo di buona memoria?
Era piuttosto il segno di un attaccamento che l’aveva portato, tutte le volte che recitava le preghiere della sera (e c’era pure un rapido ripasso del catechismo), a infilare tra i dieci comandamenti e i sette sacramenti gli undici eroi che formavano, ai suoi occhi, la squadra più bella che mai fosse apparsa sui campi di calcio.
A questi si sarebbero aggiunti negli anni successivi altri nomi, divisi per stagioni o per ruoli, tutti comunque iscritti in una memoria affettuosamente tenace.
Come non ricordare il mitico “Veleno” o il grande trio Mazzola-Suarez-Corso o anche le leggendarie figure di Jair, Nyers, Skoglund?
Ma se l’immaginazione di Monsignore si accende nel richiamare gli scatti e le serpentine di Mazzola o i pallonetti “a foglia morta” di Corso, il suo cuore si intenerisce evocando certi onesti e generosi lavoratori del pallone come Domenghini, capace di farsi tutto il campo dopo aver saltato il proprio uomo e di avere ancora la forza di segnare.
Tempi gloriosi quelli, legati al magistrale lavoro di Helenio Herrera, tempi esaltanti per Monsignore che, insegnando in quegli anni latino e greco nel liceo del seminario, si vedeva gratificato (un po’ ruffianescamente, bisogna pur dirlo) dai suoi alunni ogni lunedì mattina con un numero di caramelle pari ai goals segnati dalla Beneamata.
Qualcuno si domanderà: “Li ha mai visti da vicino i suoi eroi in casacca neroazzurra?
Gli è capitato, qualche volta almeno, di seguire le loro prodezze nel clima acceso di uno stadio?”.
Certamente il desiderio era grande, ma doveva misurarsi con le norme disciplinari della curia che gli proibivano di mettere piede in uno stadio.
E quella volta che l’incontenibile amore per la sua squadra lo rese trasgressivo, venne giustamente punito: non dai superiori, come era lecito attendersi, ma da un rotolo di carta igienica che dai piani superiori dello stadio gli arrivò in testa, lasciandolo (altro che “dieci piani di morbidezza” come recitava la pubblicità!) mezzo intontito.
Ora che, cadute le proibizioni e le sanzioni di un tempo, Monsignore può frequentare liberamente lo stadio godendo pure dei biglietti che un’anima buona puntualmente gli fa avere, deve ammettere che la passione è rimasta intatta, anche se è costretto a scontarla con un altro tipo di passione: la sofferenza.
Possibile che per l’Inter debba andar tutto storto e che gli anni delle vacche grasse non debbano mai più ritornare?
Monsignore prova a consolarsi con qualche scampolo di bel gioco, ma è troppo poco per chi soffre di un digiuno che si fa sempre più tormentoso. Soprattutto se a soffrire si trova solo, senza la solidarietà neppure degli amici più cari.
È quello che gli è successo qualche anno fa a S. Siro, quando ci andò per vedere l’Inter che giocava un partita di Coppa Italia contro la Sampdoria.
Serata ideale di primavera, con una temperatura mite e un’aria limpidissima, campo in splendide condizioni, gente felice sulle gradinate, pronostico pressochè scontato: c’erano tutte le premesse per avere di quella sera un ottimo ricordo tanto che si era fatto accompagnare dall’amico scrittore Lillo Santucci, assente dagli stadi dai tempi di Meazza, per farlo partecipe della festa che senza dubbio non sarebbe mancata.
Che Lillo fosse felice, ci voleva poco a capirlo.
Monsignore quella sera aveva alla sua destra un bambino in compagnia del papà, alla sua sinistra un altro bambino -questo di 78 anni- che si entusiasmava più del primo seguendo lo spettacolo che si svolgeva sulle tribune e sul campo da gioco.
“Vedi come sono belli quegli omini che si muovono sul tappeto verde” gli diceva Lillo ogni tanto a partita iniziata.
E glielo diceva anche quando Monsignore soffriva visibilmente perché la squadra del cuore stava perdendo.
Avrebbe voluto interromperlo: “Lillo, per favore, un po’ di comprensione….”.
Ma lui si godeva beatamente il suo spettacolo, al di là dell’evento sportivo, immergendosi nella smemorante festevolezza delle voci, delle luci, dei colori, dei movimenti che i suoi “omini” disegnavano sul prato verde.
È un fatto che Monsignore le sue delusioni sportive se le deve smaltire per lo più da solo, ricorrendo ora alla funzione catartica dell’indignazione, ora ai riti propiziatori o scaramantici della superstizione.
Che sia superstizioso non lo si può certo affermare (del resto, come potrebbe?), ma lui stesso ammette che, quando si tratta della sua squadra, qualche debolezza se la concede.
Pur di spuntare un risultato importante, le ha tentate tutte: si è imposto di non vedere la partita allo stadio, ha depistato prontamente amici maldestri che ancora non sanno quanta jella può procurarti un incauto augurio per la tua squadra e, da quando ha scoperto in Matteo, un piccolo pronipote di neanche due anni, una straordinaria forza benefica a favore dell’Inter, è su di lui che punta tutte le sue speranze.
Si può capire l’ardire che ebbe Monsignore la sera in cui l’Inter era sotto di due goals con la Sampdoria (in una partita, questa volta, di campionato).
Ecco la sintesi delle parole concitate che Monsignore scambiò per telefono con il papà del piccolo Matteo:
“Che cosa sta facendo Matteo? Non dirmi che sta dormendo”
“Ma cosa vuoi che faccia a quest’ora? Certo che sta dormendo”
“Lo supponevo. E allora, senti bene quello che ti dico: fammi il santo piacere di svegliarlo e di tenerlo sveglio almeno per mezz’ora. Intesi?”
Fu così che quella volta l’Inter compì l’impresa memorabile di segnare tre goals negli ultimi sei minuti.
Ma, se è vero che questi colpi di magia infantile possono cambiare il risultato di una partita, non hanno ancora la forza sufficiente per rimediare a una situazione generale che rimane sempre deprimente: sarà perché Matteo talvolta dorme, sarà perché a dormire sono più spesso i giocatori in campo.
Dovreste sentire allora con quale veemenza Monsignore, così mite quando è all’altare, esprime il suo disappunto e la sua indignazione.
Si mette a inveire contro i giocatori (ah, quel Ronaldo: traditore ingrato!), contro gli arbitri, contro l’ambiente, anche contro il cappellano dell’Inter, suo amico, che non saprebbe trasfondere nella squadra quella spes contra spem, quella speranza contro ogni speranza che sarebbe necessaria per sollevare il morale della squadra e dei tifosi.
La sua indignazione investe pure la curia, colpevole, a suo giudizio, di una grave indelicatezza nei suoi confronti.
Il problema è questo: in vent’anni e più di parrocchia, mai una volta che gli sia stato messo accanto un vicario che condividesse la sua fede sportiva.
E allora giustamente si chiede: “Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo trattamento?
Se è un modo per farmi espiare le mie colpe, mi si dica almeno dove ho sbagliato”.
È difficile dargli torto.
Pensate che sia bello per un superiore raccogliere dal suo giovane collaboratore sorrisi ironici o battute di dubbio gusto?
L’ultima è stata questa: “L’Inter vince qualcosa solo ad ogni morte di papa”.
Monsignore a queste parole si è chiuso in se stesso, in silenzio.
In quel momento è stato sfiorato da un pensiero…
Ma poi si è subito ripreso, quando sentì salire dal profondo una voce che lo ammoniva: “No, questo non lo puoi fare. Non sta bene. Ricordati che tu sei Monsignore”.

La situazione in casa Inter da allora è sensibilmente mutata.
Ne fanno fede i quattro scudetti conquistati negli ultimi quattro anni.
E poi, ad assicurare risultati positivi, c’è sempre la presenza del piccolo Matteo.
Per Natale gli avevo regalato una bella sciarpa con i colori dell’Inter.
Quando qualche giorno dopo lo raggiunsi per telefono sui monti del Trentino dove stava
trascorrendo una breve vacanza e gli chiesi quale sciarpa portasse per difendersi dal freddo.
la risposta fu pronta e per me di buon auspicio: “Quella azzurra che tu mi hai regalato”
Io so che soltanto la fretta nel dare la risposta l’aveva portato a tralasciare il primo colore fondamentale per la storia dell’Inter, ma a me è parso di trovarvi comunque un segnale promettente per il futuro della mia squadra.
Non potrebbe essere infatti che il nero di tante umiliazioni subite debba essere completamente cancellato e che si possa contemplare un orizzonte limpido, senza ombre, di un azzurro terso e radioso?
Se così fosse, mi sia concesso di immaginare con i caratteri della più ampia libertà tutte le parole che iniziano con inter.
A cominciare dalla parola interludio che mi sentirei di trattare in questo modo:
INTERludio

venerdì 26 giugno 2009

Spigolature (giugno 2009)

Il predicatore

Il migliore

Il migliore predicatore è il cuore.

Ecumenico

e quando dico uomini, intendo abbracciare anche tutte le donne

Visionario

il sacerdote è uno che ha un piede sulla terra, mentre con l’altro guarda verso il cielo

Solidale

era talmente noioso e pedante che un torpore contagioso si diffuse in tutta la sala e lui stesso fu sul punto di arrendersi a questa strana situazione.

Panegirista

Anche quella volta, per la festa patronale, venne invitato un oratore brillante.
A lui il compito di tenere viva l’attenzione del vasto pubblico narrando l’orrenda fine subita da
S. Gemolo, il santo protettore di quella comunità.
Sul martirio subìto dal santo non esistevano fonti sicure per cui ogni oratore si permetteva di offrire particolari inediti con il risultato di accumulare su quel povero corpo una tale violenza che sarebbe bastata a procurare la morte di diverse persone.
Il brillante oratore se la cavò benissimo, con una dovizia di particolari, nel descrivere i momenti più drammatici del martirio.
E tutti ebbero l’impressione di assistere alla scena e di vedere il giovane Gemolo dapprima immobilizzato con una grossa fune e poi decapitato.
A questo punto l’oratore si avventurò nel descrivere il miracolo più grande attribuito al santo: mentre la testa gli rotolava davanti, egli la raccolse prontamente e la riportò là donde gli era stata violentemente strappata. Ed ecco una voce maschile che dal fondo dell’assemblea si permette di obiettare:”Ma come ha fatto se aveva le mani legate?”.
Al che l’oratore, per nulla impressionato, rispose:”Addentandola”

venerdì 22 maggio 2009

Pensando al Concilio


Me l’aspettavo.
Che qualcuno si facesse vivo per ricordarmi che, se mai avessi voluto procedere in parallelo con la serie dei Capita…già registrata nel mese di febbraio del 2007, avrei dovuto occuparmi anche dei problemi della chiesa nel mondo d’oggi.
Effettivamente c’è stato chi mi ha interpellato su questo argomento.
Che giudizio mi sono fatto della chiesa nella società attuale? Mi è parso di capire che si vorrebbero da me giudizi precisi che tocchino anche le persone, soprattutto quelle che hanno maggiori responsabilità nella vita ecclesiale.
Ma io, anche a costo di deludere qualche amico, posso soltanto parlare di una profonda tristezza e di una irriducibile speranza di fronte alla chiesa di cui tutti portiamo la responsabilità.
La tristezza è palese in me. Non la nascondo.
E si manifesta soprattutto quando mi pare di avvertire l’enorme distanza che ci separa dalla grande stagione conciliare.
Erano anni, quelli, pieni di fervore pentecostale.
Era appassionante seguire i lavori che si svolgevano nella grande aula conciliare (la basilica vaticana) e vedere delinearsi, giorno dopo giorno, l‘immagine di una chiesa più libera, più dialogante, più aperta ad accogliere le istanze che erano custodite nel cuore non solo dei credenti, ma di tutta la grande famiglia umana.
Si aveva l’impressione allora che un sogno a lungo inseguito potesse diventare realtà.
Questa esperienza che ho avuto la fortuna di seguire attentamente trovandomi in quegli anni a insegnare in seminario, l’ho rivissuta proprio in questi giorni attraverso la testimonianza che ci hanno lasciato due grandi protagonisti del concilio.
La prima è quella che ci viene offerta da un grosso volume di memorie intitolato La mia battaglia per la libertà che Hans Kung ha dedicato particolarmente al grande evento del concilio.
Su questo famoso teologo, che ho potuto avvicinare quando nel 1967 passò da Milano per la presentazione di un suo coraggioso saggio sulla chiesa (fu in quella occasione che subì un violento attacco da parte di un giornalista-teologo che già godeva di una forte protezione vaticana), si potrebbero esprimere diverse valutazioni che certamente non valgono a procurargli un consenso immediato e unanime.
È vero: anche in questo ultimo suo lavoro non ha saputo controllare sempre la sua istintiva vis polemica e frenare la presenza debordante del suo io.
Ciò non toglie che questa opera abbia il merito grandissimo di farci rivivere, attraverso una narrazione sempre tesa e appassionata, i travagli a volte drammatici da cui sono usciti i testi più innovativi del concilio.
Di diverso spessore emotivo e altrettanto preziosa sul piano documentario è la testimonianza che sul concilio ci ha lasciato il grande vescovo brasiliano Dom Helder Camara.
Sto leggendo in questi giorni Roma, due del mattino: è un’antologia delle lettere che, a commento di ogni seduta dei padri conciliari, Dom Helder trasmetteva (alle due di notte!) alla sua lontana comunità informandola sui temi che venivano trattati, sul favore e sulle resistenze che incontravano in aula, sulle proposte che maggiormente gli stavano a cuore.
Con tono pacato, ma vibrante di segreta passione per le sorti della chiesa, vedeva con favore il fatto che il concilio non intendesse prendere posizione contro qualcosa o qualcuno, mentre non nascondeva la sua profonda delusione nel vedere quanta resistenza incontrassero i “suoi” temi, quelli in particolare della pace e del sottosviluppo sui quali aveva sperato un voto pressoché unanime.
E chi si rende conto della grande novità rappresentata dal concilio per il futuro della chiesa, non può che patire una profonda delusione nel costatare come da più parti si tenta di privare il concilio di ogni alone di straordinarietà così da poter ripristinare più facilmente le consuetudini del passato.
Che cosa abbiamo fatto del concilio?
La domanda l’ho posta a qualche amico e proprio da uno di essi mi è stata data una risposta scritta che già nel titolo (Il concilio dimenticato) interpreta pienamente il mio attuale stato d’animo.
Ci eravamo rallegrati per la riscoperta di una chiesa come luogo di libertà, di coraggio, di gioia, di speranza e ci ritroviamo con una chiesa intristita da troppe paure e preoccupata prevalentemente della propria sopravvivenza in un mondo considerato come luogo di disgregazione di tutti i valori morali.
Che tristezza nel dover prendere atto che, invece di apparire come presenza profetica in grado di portare al mondo un annuncio gioioso (non è forse vero che essa è chiamata a rivelare al mondo che Dio si è fatto vicino per offrire a tutti gesti di perdono e di misericordia?), si accontenta di esercitare un ruolo di tipo burocratico-disciplinare.
Il vangelo della misericordia e della riconciliazione sembra infatti lasciare spazio, ogni giorno più, alla preoccupazione per l’ortodossia e la dottrina.
Mi permetto un’autocitazione.
Nella lettera aperta che scrissi ”al mio nuovo vescovo” in occasione del suo ingresso in diocesi, osavo ricordargli come fosse “importante oggi presentare l’immagine di una chiesa che sia finalmente sciolta da tanti fardelli del passato (ritualismi, formalismi, paure, diplomazie eccessive…) e diventi sempre più lo spazio dove si possa stare in comunione amorosa con l’universo, con l’esistenza, con il mistero di Dio”.
Per questo lo invitavo a non preoccuparsi di cercare una risposta a ogni problema di ordine morale, ma di essere testimone di una fede che avesse una connotazione mistica, cioè dell’indicibile stupore che si prova nel sentirsi amati da Dio, per pura grazia, senza alcun calcolo di ogni possibile nostro merito.
È proprio su questo punto che la chiesa appare oggi mancante.
Perché molti giovani si sentono estranei alla vita della chiesa?
Perché, mentre la sentono quasi ossessivamente presente nel definire le proprie posizioni riguardanti i temi della sessualità, della contraccezione, dell’aborto, della fecondazione artificiale e su quelli relativi all’accanimento terapeutico o al testamento biologico, non la trovano altrettanto preoccupata di trasmettere messaggi che tocchino il cuore delle persone, che si aspettano parole liberanti che facciano sognare un mondo più umano, dove a ciascuno, anche se occupa l’ultimo posto nella scala sociale, sia riconosciuta una dignità inalienabile e dove tutti insieme si concorra a creare relazioni ispirate ai valori del rispetto reciproco, della condivisione, della fraternità.
“Dov’è la Chiesa che scalda i cuori?” si chiedeva Beppe Severgnini sul Corriere del 5 febbraio.
Una chiesa capace di scaldare cuori l’abbiamo conosciuta ai tempi del concilio.
Ricordo ancora l’emozione che provai nel settembre del 1967, partecipando ad alcune liturgie domenicali presso la parrocchia degli studenti ad Amsterdam, dove mi aveva spinto il desiderio di conoscere meglio il famoso catechismo olandese, non ancora tradotto in Italia.
Rivedo ancora la folla di giovani che occupavano ogni angolo di quella vastissima sala.
La luce che splendeva nei loro occhi, la felicità che esprimevano con i loro canti, la spontaneità con cui interpretavano i momenti più significativi della celebrazione trasmettevano il senso gioioso di un’esperienza vissuta nel segno di una grande libertà.
Questa immagine esaltante di chiesa oggi è fortemente impallidita se non addirittura cancellata.
“Che insicurezza nei continui richiami a essere fedeli alla propria identità, che incertezza nei richiami ossessivi a non lasciarsi fuorviare dal relativismo, che paura nei confronti di un mondo che chiede solo di essere compreso e salvato, questo sì, ma non “protetto” e “preservato” o peggio accusato di malafede” fa osservare il mio amico.
Se la chiesa dà l’impressione di non sapere più trasmettere messaggi di speranza, di coraggio, di fiducia, che cosa conviene fare?
C’è chi, come il teologo Vito Mancuso, invoca un nuovo concilio.
Il clima generale della società e della chiesa oggi, è piuttosto depresso. Scoraggiato.
Un concilio, se preparato attraverso la preghiera di tutta la comunità cristiana, per l’azione dello Spirito potrebbe riscaldare il cuore di ciascuno, così che si possa insieme affrontare il futuro con gioia e coraggio, senza più le paure che abbiamo dovuto registrare sul nostro cammino.
Ci sono però altri che nulla sperano da un eventuale nuovo concilio: visto l’arroccamento attuale della gerarchia sui temi della bioetica, i risultati sarebbero scontati.
D’altra parte molti di questi non sono più disposti a dare fiducia ancora una volta a una chiesa che li ha profondamente delusi. Per questo sono tentati di abbandonare la chiesa, come ha fatto recentemente la filosofa Roberta de Monticelli, la quale ha pubblicamente professato il suo distacco dalla chiesa cattolica.
Tentazione tremenda, questa, che ha sfiorato anche la coscienza di molti credenti, in particolare di alcuni che erano considerati come guide autorevoli sulla via del rinnovamento voluto dal concilio.
Ma essi (penso in particolare a padre Giovanni Vannucci, a padre David Maria Turoldo, a padre Nazareno Fabbretti, a Don Michele Do ...) hanno scelto di rimanere fedeli alla loro chiesa, che avevano amato e servito con tanta passione, intimamente persuasi che essa non è mai abbandonata dallo Spirito, il quale ci aiuta ad affinare il nostro sguardo così da trovare motivi di speranza anche nei momenti più oscuri della sua storia.
Su questo tema non posso dimenticare la risposta che don Michele Do diede ad alcuni amici valdesi che l’avevano invitato a passare dalla loro parte: “Sono certo che anche tra voi troverei un’istituzione che, come ogni istituzione umana, ha le sue pesantezze e le sue ottusità.
Tanto vale che rimanga nella mia chiesa e cerchi, per poco che mi riesca, di renderla come da sempre la vado sognando”.
Anche il card. Martini, nel suo libro di confidenze e confessioni Colloqui notturni a Gerusalemme, parla di una Chiesa a lungo sognata “una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo (….) Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto, una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli e peccatori.
Sognavo una chiesa giovane”.
Ma poi conclude con una frase che sembra negare la possibilità di coltivare questo sogno: “Oggi non ho più di questi sogni”.
Che si fosse arreso lui pure, in un momento di sconforto, al pessimismo che serpeggia nella chiesa, in ordine alla sua capacità di dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo?
In realtà il cardinale non intendeva esprimere soltanto il suo disagio nei confronti della chiesa attuale, ma preparare il lettore a capire meglio il senso della sua ultima affermazione.
Dopo i settantacinque anni - così ci ha confidato - ha compreso che i sogni non contano nulla se non sono affidati alla preghiera. Solo la preghiera può vincere lo sconforto e il pessimismo tenendo accesa la fiamma della speranza.
E a quanti si chiedono se lo Spirito Santo sia ancora presente nella chiesa, il cardinale Martini, già nella Lettera sullo Spirito Santo del 1997, così rispondeva: “Lo Spirito c’è anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è, e sta operando; arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è, e non si é mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva là dove mai avremmo immaginato”.
Che sia questa la via da seguire, per poco che si conosca il vangelo, è facile esserne convinti.
Chi si lascia condurre dallo Spirito, acquista uno sguardo più limpido in grado di vedere l’invisibile.
E si scoprono tanti semi nascosti, tante esperienze nuove che si sono sviluppate sotto l’azione incessante e creativa dello Spirito.
Per parte mia, ne ho avuto conferma quando ho potuto scoprire la grandezza umana e spirituale di certe presenze nascoste che, lontane dagli ambienti ufficiali, hanno tenuta viva l’urgenza di un rinnovamento della chiesa attraverso una radicale fedeltà al vangelo.
Quanti cristiani conoscono oggi la luminosa figura di sorella Maria di Campello?
Il suo nome l’ho raccolto la prima volta dalle labbra di don Michele Do che l’aveva conosciuta personalmente e ne conservava una memoria intrisa di affettuoso stupore.
Quando ho potuto leggere il saggio biografico che le è stato dedicato da Roberto Morozzo della Rocca, mi sono reso conto della straordinaria avventura spirituale di questa donna.
Fondatrice dell’eremo di Campello, aveva elaborato una spiritualità che valorizzava molto il decoro, l’armonia, il garbo, la finezza dei comportamenti e soprattutto la bellezza nella semplicità. Aveva in particolare il culto dell’amicizia e una grande capacità di relazione anche con persone lontane dal suo orizzonte culturale.
È sorprendente vederla dialogare con Gandhi, con Albert Schweitzer oltre che con Bonaiuti e Ambrogio Donini.
Recentemente le “Edizioni Qiqajon" di Bose hanno pubblicato due preziosi epistolari che ci consentono di avvicinare il mondo segreto di sorella Maria e di conoscere meglio la sapienza evangelica da lei appresa alla scuola della Parola e dispensata con la libertà e la semplicità di chi ha posto tutta la sua fiducia in Dio.
Il primo epistolario raccoglie le lettere scambiate con padre Giovanni Vannucci, il grande religioso Servita che ha fondato l’eremo delle Stinche.
Il secondo riproduce la corrispondenza intercorsa tra sorella Maria e don Primo Mazzolari che Giovanni XXIII, all’inizio del suo pontificato, avrebbe salutato come “la tromba dello Spirito Santo“ in Val padana, ma che intanto aveva problemi con la gerarchia per la libertà con cui, nel difendere la causa dei poveri, osava denunciare i compromessi della chiesa con il potere.
Ed è con immensa gioia che ho visto affiorare dalle fitte pagine di questo epistolario un nome a me particolarmente caro, quello di don Michele il quale, quando ancora era un giovane prete, aveva scelto come suo eremo il piccolo villaggio valdostano di Saint Jacques meritandosi questo affettuoso elogio da parte di sorella Maria: ”una perla di giovane prete….quanto è aperto, studioso, evangelico questo fragile uomo! Ha un fervido spirito religioso”.
E proprio a conferma di queste parole è uscito recentemente un volume che raccoglie in forma antologica alcune riflessioni di don Michele su temi che a suo giudizio dovrebbero appassionare la coscienza di ogni credente.
Per un’immagine creativa del cristianesimo è il titolo del volume che già con la presentazione del profilo biografico di don Michele, redatto da Clara Gennaro nel segno di una profonda amicizia, permette di seguire le tracce del suo cammino spirituale e di rimanerne conquistati tanto che un amico mi ha confidato di essersi trovato, nel corso della lettura, con gli occhi umidi di pianto.
Qualcuno si domanderà perché abbia voluto evocare la memoria di questi quattro testimoni del vangelo.
La ragione è semplice.
A parte la suggestione esercitata dal fatto di vederli così fraternamente uniti, pur provenendo da orizzonti culturali diversi, e di sapere che con le loro riflessioni hanno anticipato i temi che sarebbero stati al centro del dibattito conciliare, la loro testimonianza risulta particolarmente luminosa se si pensa che erano tempi, quelli, in cui la gerarchia esercitava ancora un severo controllo sulle coscienze.
Essere sospettati di filomodernismo o di filomarxismo voleva dire incorrere in censure molto pesanti da parte dell’autorità ecclesiastica.
Che essi abbiano avuto il coraggio di affrontare questi sospetti lasciandosi guidare dall’azione dello Spirito, porta a sperare che anche nei tempi oscuri per la chiesa che stiamo attraversando non debbano mancare mai certe presenze profetiche nascoste, capaci di tenere accesa la lampada della fede.
Sulla fede mi è capitato di leggere recentemente questa definizione attribuita a George Bernanos:
“La fede è: ventiquattro ore di dubbi meno un minuto di speranza”.
Quando, recitando il credo, diciamo: “Credo la chiesa una, santa, cattolica e apostolica”, siamo presi da tanti dubbi mai completamente debellati, ma a sostenere il nostro cammino di fede c’è la speranza rappresentata da questi testimoni che hanno scelto la dimensione della piccolezza evangelica.
Perciò dovremmo fare nostro il saluto che padre David Maria Turoldo usava nel prendere congedo da qualche amico.
Il saluto consisteva in questa bellissima esortazione: “ Aiutiamoci a sperare!”.