tag:blogger.com,1999:blog-9290486816971439892024-02-22T08:24:06.031+01:00semmchiConsiderazioni sparse di don Luigi Pozzolidon Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.comBlogger36125tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-85831282051557257382011-06-30T12:47:00.005+02:002011-12-03T17:10:28.307+01:00Ma mì<i>Ma mì</i>: due monosillabi, due particelle di un discorso che si preannuncia molto teso.<br />
Il ma avversativo suggerisce l’idea di una conflittualità, mentre il mì successivo, che nel dialetto milanese corrisponde al di I persona (mi=io), rappresenta il soggetto a cui è affidata l’azione contestatrice nei confronti di una situazione che altrimenti sarebbe insostenibile.<br />
Un esempio?<br />
Lo trovo in un poemetto di Carlo Porta che mi è capitato di rileggere in questi giorni.<br />
Per illustrare i caratteri diversi della poesia rispetto a quella classica (il poemetto è intitolato Romanticismo), il Porta mette in scena un bon omm che, mentre el fava i fatt soeu dietro il Duomo, viene sorpreso da uno scaccino cattedrale il quale lo redarguisce gridandogli: <br />
“Se pò nò, se pò nò!... Ma mì la foo” è stata la risposta.<br />
La bassezza del paragone, già rilevata del resto dall’autore stesso, non impedisce di cogliere la forza di questo ma mì che pare attinga le sue ragioni non solo da un dato incontrovertibile della natura, ma anche, sia pure velatamente, da una Parola che un giorno si è fatta udire nella storia dell’umanità.<br />
Cercherò ora di chiarire queste osservazioni ripercorrendo il cammino che mi ha portato visione superficiale della realtà, legata cioè all’evidenza dei suoi aspetti esteriori, alla percezione di un senso più profondo, se solo si fosse disposti a convertire i dati oggettivi in elementi metaforici, capaci cioè di alludere a una realtà più nascosta.<br />
Leggendo “se pò nò, se pò nò, ma mì la foo…” ho ritrovato nella memoria immagini di una gita- pellegrinaggio al santuario della Madonna di Einsiedeln nel nord della Svizzera. <br />
Da Porlezza, dove trascorrevo con i miei compagni di II teologia il mese di vacanza estiva (era l’agosto del 1953), diversi pullman ci avrebbero portati alla meta.<br />
Data la lunghezza del percorso, poche erano le soste. Forse una sola.<br />
Fu pertanto una fortuna che viaggiasse con noi un nostro anziano professore il quale, a un certo punto, ancor prima che si arrivasse alla sosta programmata., fece arrestare il nostro pullman ai margini di un vasto prato, delimitato da una fitta siepe di arbusti.<br />
Cosa stava succedendo?<br />
Tutto fu chiaro quando vedemmo il nostro professore lasciare il pullman con un’agilità insospettata e, senza neppure cercare un riparo decoroso, farsi “i fatti suoi,” con estrema naturalezza .<br />
E fu in quella occasione che, risaliti sul pullman (tutti o quasi avevano approfittato di quella sosta), sentimmo la voce citare, quasi a chiedere scusa, le parole del Porta: “Se pò nò nò, se pò nò!...Ma mi la foo”.<br />
E subito dopo ci interpellò con questa domanda: “Non vi pare di avvertire qualche consonanza tra le parole del Porta e quelle del Vangelo? <br />
Per cui a me sembra – aggiunse – che si potrebbe parlare di un “vangelo secondo Carlo Porta”.<br />
E proseguì dicendo:”Pensate alle antitesi che si trovano Discorso della montagna riportato da Matteo.<br />
Sono famose. Dovrebbe essere facile ricordarle.<br />
Eccone alcune.<br />
“Voi sapete che ai vostri antenati fu detto: Non uccidere..<br />
Io però vi dico…<br />
“Voi sapete che fu detto: Occhio per occhio e, dente per dente.<br />
Io però vi dico...” <br />
Notate. In questi diversi esempi c’è un’affermazione il cui senso viene corretto o capovolto <br />
dall’autorità di un io che ha tutta la forza del ma mì usato dal Porta. <br />
Questo ma mi si può intuire anche là dove Gesù, in polemica con i farisei o gli scribi sempre pronti a denunciare i suoi comportamenti, soprattutto in occasione di miracoli compiuti in giorno di sabato, rivendica la sua libertà in nome di un principio che egli ha formulato con queste parole:<br />
“Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.<br />
Ma sapete che cosa vuol dire un’affermazione di questo genere?<br />
Riuscite a capire quale libertà Gesù riconosceva all’uomo?”.<br />
A questo punto la voce dell’oratore, già incrinata dalla fatica e forse anche da qualche emozione troppo forte, ci lasciò a una nostra personale riflessione.<br />
Tutti fummo sorpresi nel costatare che sul nostro pullman si era creata un’atmosfera di silenzio non passivo ma creativo, come se ciascuno si sentisse invitato a portare a termine quella improvvisata e un po’ ruspante lectio magistralis a cui aveva assistito. <br />
E intanto si rendeva palese anche un clima di crescente simpatia verso quel nostro insegnante che, lontano dalle aule scolastiche, per la prima volta ci rivelava qualche tratto della sua calda umanità.<br />
Eravamo in prossimità della meta quando, nell’attraversare , riudimmo ancora la sua voce che ci invitava, questa volta, a prestare attenzione a un cartello stradale che avremmo trovato<br />
sulla nostra destra.<br />
Si procedeva lentamente in quel tratto di strada e quindi tutti ebbero la possibilità di assecondare il desiderio del nostro grande maestro.<br />
Due erano le note informative che venivano trasmesse.<br />
La prima riguardava l’orario festivo delle S. Messe.<br />
L’altra era segnalata da un vistoso WC seguito da un segno che ne indicava la ubicazione nella piazza della chiesa.<br />
Ma perché i due avvisi erano strettamente legati tra loro quando nel riquadro del cartello c’era tanto spazio che avrebbe permesso di tenerli ben distinti?<br />
E soprattutto, perché quel profano WC doveva campeggiare proprio sotto la dicitura S. Messe del primo avviso? <br />
E‘un fatto che tutti vi avevano colto un intento dissacrante(“blasfemo”addirittura, come ebbe a suggerire qualcuno).<br />
Si può capire pertanto quale fu la nostra sorpresa quando, riprendendo la parola, il nostro maestro ci confidò di non potere condividere le nostre impressioni.<br />
Se è vero infatti che due sono le dimensioni costitutive dell’essere umano, quella spirituale e quella materiale, fisica, carnale, non era possibile privilegiare la prima mortificando la seconda, entrambe dovevano essere riconosciute e rispettate.<br />
Era il caso di citare a questo proposito un detto famoso del grande Pascal:”<br />
“Chi vuol fare l’angelo, fa la bestia”.<br />
Perciò, là dove noi avevamo avuto il sospetto di un intento denigratorio, egli vi trovava il segno di un alto grado di civiltà e di una cultura. <br />
Queste cose le andava dicendo con la forza di un suo personale ma mi che, mentre dissipava i nostri pregiudizi, disponeva il nostro cuore ad accogliere con gioioso stupore la parola sempre nuova e sempre umanizzante del vangelo di Cristo.<br />
Era tale il fascino che esercitava su quanti lo stavano ascoltando che, una volta raggiunta la meta, si formò attorno a lui un drappello dei suoi più vivaci estimatori con la speranza di avere in dono qualche altro saggio della sua sapienza evangelica. <br />
Ma intanto urgevano incombenze che sarebbe stato imprudente rimandare.<br />
Un aiuto in tale senso ci venne offerto da una piccola e sottile tavola di legno grezzo, lavorata in forma di freccia per suggerire .<br />
Ma dove ci avrebbe portati quella indicazione, visto che tutte le spiegazioni possibili erano racchiuse in una sola parola e per di più poco incoraggiante?<br />
ABORT infatti era la sola parola incisa nel legno di quella piccola tavola.<br />
A liberarci dalle nostre perplessità fu ancora una volta la presenza del nostro amabilissimo professore il quale, con un’intonazione rassicurante e lasciando un piccolo spazio alla nostra intuizione, ci incoraggiò dicendo:”<i>Fieu, la parola l’è bruta, ma l’è quela che fa per mi</i>”.<br />
E subito lo vedemmo sparire nella direzione indicata.<br />
<br />
<i>Ma mi 2<br />
</i><br />
Il nesso sintattico ma mi, incontrato in una poesia del Porta, aveva lasciato in me la curiosità di vedere se mai potessi trovare altri esempi, sempre tra gli scritti in dialetto milanese.<br />
Devo ammettere di essere stato particolarmente fortunato, perché, di lì a poco, mi sono ricordato di un detto popolare che recita: “Lu me n’à dà, ma mi ghe nu dì”.<br />
E’una frase il cui senso è affidato a diversi sottintesi.<br />
Tradotta in lingua., essa suona così:”Lui me ne ha date, ma io glie ne ho dette.”<br />
Lu:.chi è mai questo lui che con il suo comportamento violento crea un profondo disagio in chi è costretto a subire le sue sopraffazioni?<br />
Ciascuno di noi, anche la persona più mite, può avere conosciuto situazioni in cui si è trovato esposto a certi gesti di malvagità senza la possibilità di rivalersi in qualche modo delle ingiustizie patite.<br />
Non resta allora che cercare una compensazione attraverso la via dello sberleffo praticato segretamente senza lasciare un benché minimo sospetto.don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-56612707775905107732010-09-19T12:21:00.015+02:002010-09-19T22:13:46.734+02:00AllegatoChi abitualmente mi segue in queste mie peregrinazioni tra i ricordi di un passato sempre più lontano e le impressioni dettate da un <span style="font-style:italic;">hic et nunc</span> sempre più difficile da interpretare, si sarà accorto che questo testo non è mio: non mi appartiene.<br />Come dunque è potuto entrare in questo mio diario?<br />La decisione è stata mia e soltanto mia.<br />Mi spiego.<br />Quando di questo diario vennero pubblicati dall'editrice Ancora i primi due volumi (chissà se mi riuscirà di pubblicarne un terzo) con il titolo di <span style="font-style:italic;"> Pensieri vagabondi I</span> e <span style="font-style:italic;"> Pensieri vagabondi II</span>, rimasi felicemente sorpreso per la simpatia con cui venivano accolti.<br />Sono infatti molte le persone che incontrandomi o scrivendomi mi hanno espresso il loro compiacimento.<br />Numerose sono anche le recensioni che mi sono state segnalate. Bellissima quella di Ugo Basso apparsa sulla rivista<span style="font-style:italic;"> Il gallo </span>di Genova, come pure quella pubblicata dal quotidiano <span style="font-style:italic;">Avvenire</span>, anche se mutilata -così mi è stato detto- della parte finale, là dove ci doveva essere una nota riguardante quella forma di sano anticlericalismo che ogni cristiano dovrebbe esercitare per denunciare e combattere i mali che offuscano l'immagine della propria chiesa.<br />Fortunatamente la censura ha risparmiato il testo che fa da prefazione a questo secondo volume del mio diario. E' di Luca Frigerio il quale, pur non conoscendomi personalmente, ha messo in luce gli aspetti che creano e trasmettono al lettore una nota costante di stupore, tanto che -sono parole sue- "non sapevo decidermi se correre per leggere ancora e di più o se soffermarmi per riflettere e meditare".<br />Queste attestazioni di stima le prendo come incoraggiamento a proseguire con questo tipo di scrittura.<br />E' quello che sto facendo.<br />Mi spiace soltanto di non avere un riscontro immediato ai "pensieri vagabondi" che affido al mio blog<span style="font-style:italic;"> semm chi</span>.<br />Quando infatti mi riesce di pubblicare una pagina di questo mio diario, credo sia legittimo il desiderio -voi mi capite- di trovare qualche breve nota di commento.<br />Basterebbe una semplice boutade come quella di un mio amico il quale, volendo deplorare il progressivo rarefarsi di questi miei interventi, ha chiosato il titolo del mio blog con questa arguta correzione: <span style="font-style:italic;">"Semm chi ma minga semper"</span>.<br />Ciò che importa è vedere scomparire quel mortificante <span style="font-style:italic;">0 (zero) commenti</span>, a piè di pagina, che ti può indurre a queste desolanti considerazioni: "Vuoi vedere che neppure una persona si è degnata di prestare un poco di attenzione a questo tuo scritto?<br />E d'altra parte che cosa potresti aspettarti da questo tuo scribacchiare disarticolato e sciamannato?" (a proposito di questo ultimo termine, mi è facile ricordare come abitualmente se ne servisse il mio vecchio professore di ginnasio, soprattutto nella correzione dei temi, per i quali capitava d trovare giudizi espressi con uno <span style="font-style:italic;">sciamannato- </span>o con uno <span style="font-style:italic;">sciamannato+</span>).<br />Ma può capitare anche che, mentre ti stai ancora rattristando per queste piccole disavventure che possono ferire il tuo orgoglio di autore sottostimato, ti trovi inaspettatamente raggiunto e gratificato non da una semplice annotazione, ma da una recensione motivata e ragionata ai due volumi di <span style="font-style:italic;">Pensieri vagabondi</span> che sono stati pubblicati.<br />E' successo qualche mese fa, quando, avventurandomi una sera in internet, trovai la segnalazione di uno scritto che mi riguardava.<br />Potete immaginare la mia sorpresanon appena mi resi conto che si trattava di una ragazza della mia parrochia che non mi era mai capitato di avvicinare, mentre conoscevo bene la madre.<br />Ed è stata proprio la madre a confermarmi i sentimenti che avevano accompagnato la figlia nella lettura del mio diario.<br />Che cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto esprimere immediatamente la gratitudine con tutta la simpatia che il testo meriterebbe.<br />E invece mi accorgo che sono passati diversi mesi e, forse, un anno intero senza che da parte mia ci fosse un cenno almeno di plauso per la bellezza delle parole che con tanta prodigalità mi erano state dedicate.<br />Ora che sento il peso di questo peccato di omissione che mi fa correre il rischio di passare per un <em>padre omissionario</em>, come è capitato a un mio carissimo amico, ho pensato di rendere pubblico lo scritto di Elena, con questo semplice biglietto di ringraziamento:<br /><em>"Carissima Elena, spero che il mio lungo silenzio non abbia modificato radicalmente il giudizio che avevi formulato su di me nel corso della lettura del mio diario.<br />Ne avresti avuto pienamente il diritto.<br />Ma è tale la generosità del tuo animo che oso sperare anche ciò che normalmente non è dato di riscontrare neppure nelle amicizie più esemplari.<br />Ti auguro di conservare sempre questa dolcezza d'animo che è un dono prezioso per tutti coloro che avranno la fortuna di incontrarti".</em>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-89746566802334276802010-04-11T15:15:00.005+02:002011-12-03T16:29:23.016+01:00Pensieri vagabondi<i>Ogni tanto mi capita di leggere un libro che mi colpisce particolamente per la sua bellezza, per i suoi contenuti, perché si conforma perfettamente allo stato d'animo in cui mi to in cui lo sto leggendo…e allora comprendo di aver trovato un tesoro prezioso, da conservare gelosamente nel mio cuore e nella mia mente, oltre che nella mia libreria, ma, allo stesso tempo, da condividere con gioia e complicità con gli amici. <br />
<br />
Il libro di cui vi parlo "Pensieri vagabondi" per me è stato davvero un tesoro. Sarà un po' difficile da recensire, perché si tratta del diario dell'autore: per me, leggere un diario è come entrare in contatto diretto con chi l'ha scritto e, in un rapportarmi con lui. Mi sarà forse arduo cercare di scavare ancora un po' nei suoi pensieri per rendere l'idea dei contenuti e delle sensazioni che questa lettura mi ha donato.<br />
Eppure, quando questo libro mi è stato regalato ho storto un po' il naso…e molti di voi, dopo aver letto forse questa opinone mi commenteranno "utili info...ma, grazie, non è il mio genere."<br />
<br />
"Pensieri vagabondi" è infatti il diario di Luigi Pozzoli, fino a poco tempo fa parroco di S. Maria al Paradiso di Milano, che, per la cronaca, è stata la mia parrocchia (e l'autore di questo libro mio parroco) nei tempi in cui a Milano ho vissuto. Don Luigi mi è sempre sembrato una persona un po' schiva, molto profonda, molto filosofica, uno dei pochissimi sacerdoti -lo ammetto- di cui riesco ad ascoltare le omelie senza noia o, peggio, irritazione.<br />
"Grazie" ho detto dunque, con un sorrisetto, quando mi è stato consegnato il libro, ma intanto pensavo: " E dai, mamma, mi regali il diario del parroco! Lo sai che sono credente, ma con molti (troppi) dubbi e che non mi metto certo a leggere prediche…." . Ma mia mamma che, da madre, sa leggere ogni mio sguardo, non si è scomposta di una virgola "Tu leggilo, poi mi dirai".<br />
<br />
Per qualche giorno io e questo libro ci siamo guardati dubbiosi, ma poi, capita un attimo in cui troppi pensieri affollano la mia mente e ho bisogno di distrarmi…ho un po' di libri in lista d'attesa e incomincio con un paio di gialli di quelli che so che mi prendono dalla prima all'ultima pagina. Niente da fare. Questa volta non funzionano.<br />
"Pensieri vagabondi" è ancora lì, che mi guarda tranquillo. Oh, va bene, proviamo….<br />
<br />
"Perché l'ho dimenticato in questi mesi, come se neppure l'avessi ricevuto? E' triste pensare che si è così poco attchiudono il sapore più bello della vita. Ma le invenzioni dell'amore possono riportare alla luce ciò che era sepolto e suggerire una nuova emozione. Come a farsi beffe del nostro dimenticare".<br />
Non l'ho mollato più fino alla fine.<br />
<br />
Dalle pagine di questo diario emerge una persona, che già sapevo essere notevole, straordinaria nella sua umanità e nella sua sensibilità. Niente di quello che mi sarei aspettata dal diario di un prete, tutto di quello che avrei amato scrivere io stessa in un diario…compreso, perché no, un gioioso abbandono, pieno di stupore, ad una fede profonda:<br />
"Signore, dammi di danzare sempre con grande gioia la mia fede."<br />
<br />
I suoi pensieri vagabondi, spesso fermati sulla carta nelle ore serali, si rincorrono con una leggerezza straordinaria, ma quanta profondità in questa leggerezza! Tuttavia, a ben vedere, riprendendo una riflessione di Paul Valery, i suoi suoi pensieri suggeriscono la leggerezza dell'uccello, non della piuma, "in una dimensione sconfinata di libertà, senza mai perdere l'orientamento".<br />
I temi affrontati, oltre naturalmente alla fede, sono molto umani, don Luigi parla dei suoi viaggi, dei suoi amici, delle sue passeggiate per Milano, della sua insofferenza per certi atteggiamenti della Curia, dei gesti semplici della vita che rendono grandi le persone che li compiono…e a tutti regala un pensiero di una sensibilità profonda. Di fronte ad un "mestiere" che lo porta, per forza di cose, ad affrontare miserie e sofferenze della vita, non cessa di protupore. Ne esce il ritratto di un uomo profondo, e tuttavia ben conscio della realtà in cui vive e non da essa estraniato, ma, anzi, intensamente presente. <br />
<br />
Persino i gesti e le abitudini quotidiani diventano incredibile spunto di riflessione…anche il disordine cronico in cui tiene i suoi libri….<br />
"Aiutami a raccogliere, nella mia vita, qualche foglio sparso, abbandonato, lasciato al bizzarro gioco del caso.<br />
Ma quando vedessi che altri fogli sono troppo sistemati, scompigliali pure in un'allegra confusione che mi faccia un poco ammattire, per darmi il senso dell'incerto, del provvisorio, dell'incosistente, del buffo mistero che a volte è la vita."<br />
<br />
Non manca, infatti, una gran dose di ironia che, se possibile, rende ancora più lieve questa straordinaria lettura. Si legge come un romanzo, questo diario, e già so che d'ora in poi se ne starà come un amico sul mio comodino.<br />
Mi ha lasciato, se possibile, un unico rimpianto: la consapevolezza di trovarmi di fronte ad una persona stupenda, quale io, purtroppo, non sarò mai.<br />
<br />
So da mia mamma che Don Luigi da poco non è più parroco, essendo andato "in pensione" (si dice così anche per i sacerdoti? Non so), ma a lui va il mio saluto e il mio più sincero "grazie".<br />
E se per caso vi capita di imbattervi in questo libro...lasciatevi tentare.<br />
<br />
***************<br />
Vi saluto con un ultima citazione dal diario, ripresa da un dialogo del decalogo 1 di Kieslowski:<br />
<br />
"Che cosa è Dio? domanda il bambino.<br />
La madre lo stringe tra le braccia e gli chiede: "Che cosa provi?"<br />
"Ti voglio bene" risponde il bambino.<br />
"Ecco, Dio è questo."<br />
<br />
(cfr. http://www.ciao.it/Pensieri_Vagabondi_L_Pozzoli__Opinione_764831)</i>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-69934018760231290702010-03-31T14:52:00.004+02:002011-10-10T11:59:16.290+02:00Ma mì<i>Ma mì</i>: due monosillabi, due particelle di un discorso che si preannuncia molto teso.<br />
Il ma avversativo suggerisce l’idea di una conflittualità, mentre il mì successivo, che nel dialetto milanese corrisponde al pronome di I persona (mi=io), rappresenta il soggetto a cui è affidata l’azione contestatrice nei confronti di una situazione che altrimenti sarebbe insostenibile.<br />
Un esempio?<br />
Lo trovo in un poemetto di Carlo Porta che mi è capitato di rileggere in questi giorni.<br />
Per illustrare i caratteri diversi della poesia romantica rispetto a quella classica (il poemetto è intitolato Romanticismo), il Porta mette in scena un bon omm che, mentre el fava i fatt soeu dietro il Duomo, viene sorpreso da uno scaccino della cattedrale il quale lo redarguisce gridandogli: <br />
“Se pò nò, se pò nò!... Ma mì la foo” è stata la risposta.<br />
La bassezza del paragone, già rilevata del resto dall’autore stesso, non impedisce di cogliere la forza di questo ma mì che pare attinga le sue ragioni non solo da un dato incontrovertibile della natura, ma anche, sia pure velatamente, da una Parola che un giorno si è fatta udire nella storia dell’umanità.<br />
Cercherò ora di chiarire queste osservazioni ripercorrendo il cammino che mi ha portato da una visione superficiale della realtà, legata cioè all’evidenza dei suoi aspetti esteriori, alla percezione di un senso più profondo, se solo si fosse disposti a convertire i dati oggettivi in elementi metaforici, capaci cioè di alludere a una realtà più nascosta.<br />
Leggendo “se pò nò, se pò nò, ma mì la foo…” ho ritrovato nella memoria immagini di una gita- pellegrinaggio al santuario della Madonna Nera di Einsiedeln nel nord della Svizzera. <br />
Da Porlezza, dove trascorrevo con i miei compagni di II teologia il mese di vacanza estiva (era l’agosto del 1953), diversi pullman ci avrebbero portati alla meta.<br />
Data la lunghezza del percorso, poche erano le soste previste. Forse una sola.<br />
Fu pertanto una fortuna che viaggiasse con noi un nostro anziano professore il quale, a un certo punto, ancor prima che si arrivasse alla sosta programmata., fece arrestare il nostro pullman ai margini di un vasto prato, delimitato da una fitta siepe di arbusti.<br />
Cosa stava succedendo?<br />
Tutto fu chiaro quando vedemmo il nostro vecchio professore lasciare il pullman con un’agilità insospettata e, senza neppure cercare un riparo decoroso, farsi “i fatti suoi,” con estrema naturalezza .<br />
E fu in quella occasione che, risaliti sul pullman (tutti o quasi avevano approfittato di quella sosta), sentimmo la voce del nostro professore citare, quasi a chiedere scusa, le parole del Porta: “Se pò nò nò, se pò nò!...Ma mi la foo”.<br />
E subito dopo ci interpellò con questa domanda: “Non vi pare di avvertire qualche consonanza tra le parole del Porta e quelle del Vangelo? <br />
Per cui a me sembra – aggiunse – che si potrebbe parlare di un “vangelo secondo Carlo Porta”.<br />
E proseguì dicendo:”Pensate alle antitesi che si trovano nel Discorso della montagna riportato da Matteo.<br />
Sono famose. Dovrebbe essere facile ricordarle.<br />
Eccone alcune.<br />
“Voi sapete che ai vostri antenati fu detto: Non uccidere..<br />
Io però vi dico…<br />
“Voi sapete che fu detto: Occhio per occhio e, dente per dente.<br />
Io però vi dico...” <br />
Notate. In questi diversi esempi c’è un’affermazione il cui senso viene corretto o capovolto <br />
dall’autorità di un io che ha tutta la forza del ma mì usato dal Porta. <br />
Questo ma mi si può intuire anche là dove Gesù, in polemica con i farisei o gli scribi sempre pronti a denunciare i suoi comportamenti, soprattutto in occasione di miracoli compiuti in giorno di sabato, rivendica la sua libertà in nome di un principio che egli ha formulato con queste parole:<br />
“Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.<br />
Ma sapete che cosa vuol dire un’affermazione di questo genere?<br />
Riuscite a capire quale libertà Gesù riconosceva all’uomo?”.<br />
A questo punto la voce dell’oratore, già incrinata dalla fatica e forse anche da qualche emozione troppo forte, ci lasciò a una nostra personale riflessione.<br />
Tutti fummo sorpresi nel costatare che sul nostro pullman si era creata un’atmosfera di silenzio non passivo ma creativo, come se ciascuno si sentisse invitato a portare a termine quella improvvisata e un po’ ruspante lectio magistralis a cui aveva assistito. <br />
E intanto si rendeva palese anche un clima di crescente simpatia verso quel nostro insegnante che, lontano dalle aule scolastiche, per la prima volta ci rivelava qualche tratto della sua calda umanità.<br />
Eravamo in prossimità della meta quando, nell’attraversare un villaggio, riudimmo ancora la sua voce che ci invitava, questa volta, a prestare attenzione a un cartello stradale che avremmo trovato<br />
sulla nostra destra.<br />
Si procedeva lentamente in quel tratto di strada e quindi tutti ebbero la possibilità di assecondare il desiderio del nostro grande maestro.<br />
Due erano le note informative che venivano trasmesse.<br />
La prima riguardava l’orario festivo delle S. Messe.<br />
L’altra era segnalata da un vistoso WC seguito da un segno grafico che ne indicava la ubicazione nella piazza della chiesa.<br />
Ma perché i due avvisi erano strettamente legati tra loro quando nel riquadro del cartello c’era tanto spazio che avrebbe permesso di tenerli ben distinti?<br />
E soprattutto, perché quel profano WC doveva campeggiare proprio sotto la dicitura S. Messe del primo avviso? <br />
E‘un fatto che tutti vi avevano colto un intento dissacrante(“blasfemo”addirittura, come ebbe a suggerire qualcuno).<br />
Si può capire pertanto quale fu la nostra sorpresa quando, riprendendo la parola, il nostro maestro ci confidò di non potere condividere le nostre impressioni.<br />
Se è vero infatti che due sono le dimensioni costitutive dell’essere umano, quella spirituale e quella materiale, fisica, carnale, non era possibile privilegiare la prima mortificando la seconda, mentre entrambe dovevano essere riconosciute e rispettate.<br />
Era il caso di citare a questo proposito un detto famoso del grande Pascal:”<br />
“Chi vuol fare l’angelo, fa la bestia”.<br />
Perciò, là dove noi avevamo avuto il sospetto di un intento denigratorio, egli vi trovava il segno di un alto grado di civiltà e di una vera cultura. <br />
Queste cose le andava dicendo con la forza di un suo personale ma mi che, mentre dissipava i nostri pregiudizi, disponeva il nostro cuore ad accogliere con gioioso stupore la parola sempre nuova e sempre umanizzante del vangelo di Cristo.<br />
Era tale il fascino che esercitava su quanti lo stavano ascoltando che, una volta raggiunta la meta, si formò attorno a lui un drappello dei suoi più vivaci estimatori con la speranza di avere in dono qualche altro saggio della sua sapienza evangelica. <br />
Ma intanto urgevano incombenze che sarebbe stato imprudente rimandare.<br />
Un aiuto in tale senso ci venne offerto da una piccola e sottile tavola di legno grezzo, lavorata in forma di freccia per suggerire un percorso.<br />
Ma dove ci avrebbe portati quella indicazione, visto che tutte le spiegazioni possibili erano racchiuse in una sola parola e per di più poco incoraggiante?<br />
ABORT infatti era la sola parola incisa nel legno di quella piccola tavola.<br />
A liberarci dalle nostre perplessità fu ancora una volta la presenza del nostro amabilissimo professore il quale, con un’intonazione rassicurante e lasciando un piccolo spazio alla nostra intuizione, ci incoraggiò dicendo:”<i>Fieu, la parola l’è bruta, ma l’è quela che fa per mi</i>”.<br />
E subito lo vedemmo sparire nella direzione indicata.don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-9248725967472883352009-12-09T15:14:00.001+01:002009-12-13T19:05:41.754+01:00Trenodia<div style="text-align: justify;"><span style="font-size:85%;">Questa sera vorrei intonare una trenodia.<br />Trenodia è parola greca che significa lamentazione.<br />E lamentazione è qualcosa di ben diverso dalle abituali lamentele che siamo soliti registrare nel corso delle nostre giornate.<br />Quante di queste lamentele abbiamo dovuto raccogliere durante estate, per il gran caldo che nessuna perturbazione riusciva a debellare, lasciando anzi la sensazione di un’afa particolarmente soffocante.<br />Ma non è di questo che intendo parlare.<br />È mortificante dover registrare che quella esperienza particolarmente gradevole che stai vivendo non si riproporrà mai più. È l’ultima volta, non ce ne sarà più un’altra.<br />Dico questo perché da diverse settimane mi sento angustiato dal fatto di dover rinunciare al piacere di guidare la mia auto.<br />A determinare questa decisione è stata soprattutto l’insistenza di famigliari e amici i quali vorrebbero evitarmi qualche brutta disavventura.<br />Non che abbia dato motivi di apprensione a quanti siano stati testimoni del mio stile di guida anche in tempi recenti, a quasi cinquant’anni dal rilascio della patente.<br />C’è chi potrebbe ferire il mio orgoglio richiamando un episodio che io stesso ho raccontato in una delle prime pagine di questo diario con il titolo “Soffro di amnesie senili”.<br />Quella volta avrei corso il rischio di sbandare con la mia macchina dopo avere urtato contro il cordolo della strada sul Turchino.<br />Ma si trattava - ora posso ben dirlo- di un’invenzione puramente letteraria che ubbidiva ad una esigenza di tipo narrativo.<br />E la riprova sta nel fatto che nessuno potrebbe mai trovare sul passo del Turchino neanche un pezzo di cordolo a delimitare il bordo della strada.<br />“Di che ti lamenti?” potrebbe obiettarmi qualche amico pantofolaio, uno di quelli dall’aria monsignorile (ce ne sono, eccome!), i quali preferiscono farsi portare lasciando ad altri le incombenze della guida.<br />Per conto mio non li invidio, perché, così facendo, non conosceranno mai il fascino di quella libertà che puoi provare quando, al volante della tua vettura, puoi scegliere un percorso piuttosto che un altro e senti il motore vibrare per qualche brusca frenata o per un’improvvisa accelerazione.<br />Quanti ricordi si affollano nella mia memoria per avere attraversato tanti paesi europei, macinando chilometri e chilometri, sempre difendendo il mio posto di guida, anche quando qualche compagno di viaggio avrebbe potuto benissimo darmi il cambio.<br />Da questi ricordi emergono in particolare situazioni, tutte nel segno di una ardente nostalgia, legate alla vettura che di volta in volta avevo la fortuna di guidare.<br />Le prime forti emozioni le ho provate prendendo lezioni di guida, in vista dell’esame per la patente, da quel grande amico che è stato per me e per molti don Giuliano Riva, lui pure insegnante nello stesso seminario ginnasiale.<br />Nel suo ruolo di istruttore sembrava severo, ma era anche molto spassoso, come quando, vedendomi procedere con eccessiva prudenza anche su strade semideserte, spazientito mi gridava: “Ma schiscia giò ‘sto ciud!”, alludendo al pedale dell’acceleratore che avrebbe avuto bisogno, a suo giudizio, di più numerose e robuste sollecitazioni.<br />Ed è da lui che ho imparato una norma di comportamento coniata, credo, dallo spirito misogino di qualche padre spirituale.<br />Si era fermi a un semaforo sulla Valassina, quando vedemmo avvicinarsi una ragazza a chiedere un passaggio per il paese più vicino. Fu allora che lo sentii sillabare, tra il serio e il faceto, questa massima: “I donn, che voeren fa l’autostop, regordes, l’è mej tiraj sota che tiraj su”.<br />È un fatto che le prime esperienze alla guida della mia auto sembravano allargare sempre più gli spazi della mia libertà.<br />Non sono mancati, certo, anche momenti di disaffezione, soprattutto quando si rifiutava di ripartire al mattino, per il freddo patito durante la notte, ma per lo più si stabiliva tra noi un rapporto di reciproca solidarietà tanto che mi capitava di parlare alla mia auto come se fosse una creatura sensibile, incoraggiandola nei momenti difficili ed esaltandone il valore dopo avere superato la prova.<br />A questo proposito, c’è un episodio che mi è rimasto impresso nella memoria con una nitidezza di particolari, come se appartenesse a una esperienza recente.<br />In realtà bisogna risalire a quella stagione del nostro mondo occidentale (era il famoso ’68) contrassegnata da continue agitazioni che spesso culminavano in fatti di sangue.<br />Quel giorno, essendo stato indetto uno sciopero generale, avevo disertato anch’io la scuola dove insegnavo e mi trovavo a conversare con un amico, libero lui pure, per stessa ragione, da ogni impegno di lavoro, quando all’improvviso udimmo dal cortile sottostante un vociare confuso e minaccioso come di gente che si fosse mossa per una spedizione punitiva.<br />Mi ci volle poco per capire che si trattava di un gruppo di “autonomi” il cui obiettivo doveva essere la sede di CL che si trovava proprio sotto la mia abitazione.<br />Tutto si svolse rapidamente, ma furono attimi spaventosi.<br />Si udirono dapprima dei botti assordanti, poi si levò una nuvolaglia nera quasi a nascondere lo scenario investito da tanta violenza, infine, al diradarsi di questa coltre fuligginosa, apparvero tante lingue di fuoco, alcune pronte ad aggredire l‘ascensore di cui già lambivano la struttura lignea,<br />altre sul punto di appiccare il fuoco ai vecchi armadi della vecchia sacrestia.<br />Ma la mia attenzione fu subito totalmente assorbita dal pericolo che incombeva sulla mia macchina parcheggiata in un angolo del cortile (era una Fiat 850), si trovava racchiusa entro una cornice di fuoco che ne aveva annerito le fiancate e che stava per intaccare le gomme.<br />Per me era come se l’avessi oramai perduta.<br />Mi trovavo paralizzato dalla paura che qualcosa dovesse scoppiare (o una gomma o il serbatoio), quando vidi la sagoma del mio amico raggiungere precipitosamente la mia macchina per poi balzare all’interno, incurante di ogni pericolo, riuscendo così a sottrarla alla morsa dei quel cerchio infernale.<br />Intanto una piccola folla di giovani, per lo più di CL, si era raccolta nel cortile deplorando ad alta voce la violenza subita dalla loro sede.<br />Di lì a poco comparve anche l’assistente di CL che ufficialmente sarebbe dovuto essere a Roma per discutere – così si vociferava – di cose estremamente importanti con un’alta carica del Vaticano.<br />All’arrivo di diversi cronisti attorno quali si formò subito un assembramento di persone pronte a dare la loro versione dei fatti, ci chiedemmo, io e il mio amico, che cosa fosse più conveniente per noi.<br />Ci guardammo negli occhi e la decisione fu subito presa.<br />Dopo aver dato uno sguardo compassionevole alla mia macchina che se ne stava ammaccata e negletta in un angolo del cortile, ci trovammo in una piccola trattoria del quartiere a smaltire le nostre emozioni attorno a un tavolo fumante di polenta e spezzatini.<br />Conclusione: Perché ho raccontato questa storia?<br />Per far capire come tra me e la mia macchina c’è sempre stato un rapporto non puramente strumentale, ma affettivo.<br />Ecco perché ogni volta che mi separavo dalla mia auto provavo una grande tristezza.<br />Avete un bel dirmi, cari amici: “Di che ti lamenti, visto che sei autosufficiente?".<br />Io avrei voglia di rispondere: che me ne faccio di questa autosufficienza se mi togliete l’auto?<br />Senza auto che senso ha quella sufficienza residua?<br />Che me ne faccio di una sufficienza che non abbia alcun riferimento concreto?<br />Ecco perché la lamentazione di cui parlavo all’inizio mi sembra più che legittima.<br />Il titolo che ho scelto all’inizio mi sembra più che giustificato.<br />Si tratta per me di una vera trenodia.</span><br /></div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-48875343270616458242009-08-13T16:15:00.002+02:002009-08-14T16:48:37.691+02:00<div align="justify">Inter-ludio 4<br /><br />Credo sia giunto il momento di spiegare perché ancora una volta mi sia servito della parola <em>interludio</em> per introdurre i miei pensieri vagabondi.<br />Confesso che fino a pochi mesi fa non mi era mai capitato di incontrare questa parola.<br />L’ho ascoltata la prima volta un mattino, al risveglio, quando, per uno strano gioco combinatorio dovuto al caso, mi sentii defraudato del mio solito programma radiofonico e prontamente risarcito con un altro programma di cui non conoscevo neppure l’esistenza.<br />Mi resi subito conto che la sostituzione mi offriva un vantaggio enorme.<br />Non mi sarebbe più capitato infatti di dovere iniziare una giornata con la tristezza di chi sia stato raggiunto da una serie di messaggi desolanti, come quelli che mi venivano dispensati dagli autori di <em>Prima pagina</em>, attingendo ai fatti più inquietanti e ai relativi commenti segnalati dalle prime pagine dei più autorevoli quotidiani nazionali.<br />Quella mattina, al mio risveglio, trovai invece un delizioso quartetto di Mozart e una preziosa informazione: la musica che avrei ascoltato era diffusa dal V canale della filodiffusione al quale era stato assegnato il compito di trasmettere solo musica classica, in continuazione, ventiquattro ore su ventiquattro.<br />E fu in quella occasione che la voce garbata di un’annunciatrice introdusse una parte del<br />programma usando la parola <em>interludio.</em><br />Che cosa avrebbe dovuto significarmi questa parola?<br />Non mi sono preoccupato di consultare il vocabolario.<br /><em>Interludio </em>doveva essere per me una sorta di intermezzo musicale, quasi fosse un gioco che si proponesse di stemperare emozioni troppo intense in una trama di note gradevoli e sorridenti.<br />Ma che senso può avere quel trattino che segna uno stacco tra le due parole che hanno dato vita a questo intrigante <em>inter-ludio?</em><br />Immagino il sorriso malizioso di qualcuno che conosce le mie passioni sportive e, in particolare, la mia incrollabile fedeltà nel seguire le vicende dell’Inter, che è sempre stata la squadra del mio cuore.<br />Proseguendo il mio piccolo <em>voyage autour de ma chambre</em>, potrei mostrarvi tante tracce di questa storia che dura oramai da più di sessant’anni.<br />Vi sarebbe facile riconoscermi in una gigantografia in cui compaio di spalle, con addosso la maglia dell’Inter contrassegnata dal mio nome e da un vistoso numero 50.<br />Ma toccherebbe a me spiegare come abbia ottenuto un omaggio tanto singolare.<br />E’ stato il giorno in cui venivo festeggiato per i miei 50 anni di sacerdozio che Enzo Bearzot, il grande commissario tecnico della nazionale campione del mondo1982, volle rendere manifesta a tutti la mia fede sportiva facendomi indossare, nel corso del pranzo comunitario, la casacca neroazzurra.<br />Da quel giorno le attestazioni di simpatia nei miei confronti, nel nome dell’Inter, si sono moltiplicate, tanto che ne verrebbe un elenco troppo lungo se pensassi di segnalare anche solo quelle più significative.<br />Non posso però non fare parola della epigrafe che su carta pergamena mi dedicò un grande amico, Franco Orcese, e che venne poi sottoscritta dagli amici più cari (si trova ora in bella evidenza<br />in un angolo della mia piccola cucina).<br />Essa suona così:<br /><br /><em>“Non è mai stato nero”<br />(filofascista mai!)<br /><br />“Non è mai stato azzurro”<br />(berlusconiano mai!)<br />Ma sempre<br />“nero-azzurro”<br />(se anche l’Inter perdesse,<br />ma vincerà<br />“settanta” volte sette)<br /></em><br />Accanto a questo scritto mi accorgo solo ora che ne esiste un altro, meritevole esso pure di essere fedelmente riprodotto.<br />Il testo è dovuto alla vena scherzosa di Lillo Santucci, impareggiabile nel commentare poeticamente, con il dono di un sorriso, le occasioni anche minime che sapeva riscontrare nella vita degli amici.<br />Le gustose quartine, che intendo citare, sono state scritte per una <em>Liturgia di Capodanno 1997</em> e dedicate a me che già in occasione del Natale avevo avuto in dono un prezioso tampone con impugnatura d’argento:<br /><br /><em>1) Quel tampone per gl’inchiostri<br />che t’offriron Lillo e Bice<br />reca a te gli auguri nostri<br />per un anno più felice.<br /><br />2) Asciugar ei si propone<br />nostre lagrime più afflitte<br />quando l’Inter fa il bidone<br />e racimola sconfitte.<br /><br />3) Serva dunque da amuleto<br />alla squadra tua magnifica<br />e il tuo cuore faccia lieto<br />risalendo la classifica.<br /><br />4) Ma se pur qualche domenica<br />farà mai l’Inter cilecca<br />e di reti sarà anemica,<br />c’è qualcuno che ci azzecca.<br /><br />5) Ci sei tu, nostro Luigi,<br />………………<br />dall’altar, che fai prodigi<br />per noi vecchi tuoi tifosi.<br /><br />6) Il tampon nostro pertanto<br />valga a te come SCUDETTTO,<br />simbol sia del nostro vanto<br />e del pallonesco affetto<br /><br />7) che a te sempre ci affratella<br />nella FEDE che ci unisce<br />nella maglia ognor più bella:<br />quella a nero-azzurre strisce!<br /></em><br />Mi chiedo se non sia eccessivo lo spazio che sto dedicando ad una “fede” tanto labile e inconsistente qual è quella riservata a una squadra di calcio.<br />Non sarebbe meglio se mi preoccupassi di problemi più seri?<br />Perché non denunciare, per esempio, sempre rimanendo nel mondo del calcio, il contrasto stridente tra il guadagno di un operaio specializzato o di un onesto professionista e le cifre folli che in questi giorni di calciomercato accompagnano la cessione o l’acquisto di qualche giocatore?<br />Confesso che c’è qualcosa di irrazionale nel prendere a cuore le sorti di una squadra di calcio, ma c’è pure una trama di amicizie che viene intessuta (un “affratellarsi” direbbe l’amico Santucci)<br />attraverso le tante occasioni di incontro offerte dalle vicende sportive della propria squadra.<br />Mi permetto perciò di citare per intero un mio scritto dedicato all’Inter (mi era stato chiesto da un simpatico gruppo di filointeristi in vista di una possibile pubblicazione di una antologia di memorie sportive).<br />Di questo scritto ho ritrovato recentemente, incisa su un cd, la magnifica interpretazione che ne aveva dato quel grande attore che fu Carlo Rivolta.<br />La sua voce calda, appassionata, vibrante di tenerezza o di sdegno l’avevamo conosciuta e apprezzata altre volte, tanto che si era creato fra noi un legame profondo e si può capire come la notizia della sua morte improvvisa abbia potuto suscitare vasto compianto nella nostra comunità..<br />Quella sera, nel cortile del chiostro della parrocchia aveva interpretato alcuni dei miei <em>Pensieri Vagabondi</em> (alla scelta aveva collaborato anche la moglie Nuvola con la sua straordinaria sensibilità umana) quando, salutato con un forte applauso, vedemmo Carlo accostarsi nuovamente al microfono e intonare con voce gagliarda: <em>Monsignore tifa Inter!!<br /></em>Ecco il testo di quell’inatteso fuoriprogramma:<br /><br /><em>Monsignore tifa Inter<br /><br />Monsignore non ha mai indossato abiti rossi.<br />Il guardaroba personale non lascia alcun dubbio: le sue preferenze sono decisamente orientate verso altri colori.<br />Basti vedere la sciarpa che abitualmente porta nei mesi invernali o anche il pigiama e le babbucce che preferisce da quando gli sono stati regalati da un amico, dotato -è proprio il caso di dirlo- di particolare sensibilità intuitiva.<br />Perché non è facile sorprenderlo in pigiama e babbucce, qualcuno vorrà sapere (la curiosità sui monsignori pare non abbia limiti) quali siano gli accostamenti cromatici e le tonalità che egli predilige.<br />Come parlare di un argomento tanto delicato?<br />Se è vero che il tutto sta nei dettagli, qui c’è di mezzo la profondità insondabile di una persona che -non si dimentichi- è anche Monsignore.<br />Se ne può parlare solo prendendo le mosse da molto lontano, precisamente dal momento in cui fece il suo ingresso nel seminario minore per frequentare la IV ginnasio.<br />I principali capi d’abbigliamento erano due: la veste nera da “pretino” (oggi si direbbe la talare) e un paio di pantaloni “alla zuava” (con il gambale floscio che si allacciava sotto le ginocchia).<br />Per la veste, niente da dire, ma i pantaloni (se li ricorda, eccome!) risultarono particolarmente degni di attenzione il giorno in cui, giocando al pallone, per la prima volta dovette mostrarli in pubblico.<br />Che cosa avevano di così strano o di così eccentrico da attirare lo sguardo di tutti?<br />Era il colore, era quell’azzurro da divisa dell’aeronautica che il nero della veste allacciata in vita (era d’obbligo portarla anche in ricreazione) rendeva ancora più vistoso.<br />Avrebbe voluto parare l’indiscrezione di certi sguardi confessando in tono patetico: “Sì, è vero: me li ha confezionati mia mamma rimediando non so come un pezzo di stoffa dell’esercito”, ma subentrò subito dentro di lui uno scatto di fierezza tanto che avrebbe voluto gridare a tutti: “Che ne sapete voi dei colori di una squadra di calcio? Devo proprio spiegarvi che il nero della veste e l’azzurro dei miei pantaloni sono i colori della squadra del mio cuore?<br />Avete mai sentito parlare di Franzosi, Marchi e Passalacqua, Cominelli, Milani e Campatelli, Penzo, Achilli, Candiani…?”.<br />Come gli era facile snocciolare quei nomi, quasi accarezzandoli, ad uno ad uno, nell’ordine che occupavano sul campo!<br />Questione solo di buona memoria?<br />Era piuttosto il segno di un attaccamento che l’aveva portato, tutte le volte che recitava le preghiere della sera (e c’era pure un rapido ripasso del catechismo), a infilare tra i dieci comandamenti e i sette sacramenti gli undici eroi che formavano, ai suoi occhi, la squadra più bella che mai fosse apparsa sui campi di calcio.<br />A questi si sarebbero aggiunti negli anni successivi altri nomi, divisi per stagioni o per ruoli, tutti comunque iscritti in una memoria affettuosamente tenace.<br />Come non ricordare il mitico “Veleno” o il grande trio Mazzola-Suarez-Corso o anche le leggendarie figure di Jair, Nyers, Skoglund?<br />Ma se l’immaginazione di Monsignore si accende nel richiamare gli scatti e le serpentine di Mazzola o i pallonetti “a foglia morta” di Corso, il suo cuore si intenerisce evocando certi onesti e generosi lavoratori del pallone come Domenghini, capace di farsi tutto il campo dopo aver saltato il proprio uomo e di avere ancora la forza di segnare.<br />Tempi gloriosi quelli, legati al magistrale lavoro di Helenio Herrera, tempi esaltanti per Monsignore che, insegnando in quegli anni latino e greco nel liceo del seminario, si vedeva gratificato (un po’ ruffianescamente, bisogna pur dirlo) dai suoi alunni ogni lunedì mattina con un numero di caramelle pari ai goals segnati dalla Beneamata.<br />Qualcuno si domanderà: “Li ha mai visti da vicino i suoi eroi in casacca neroazzurra?<br />Gli è capitato, qualche volta almeno, di seguire le loro prodezze nel clima acceso di uno stadio?”.<br />Certamente il desiderio era grande, ma doveva misurarsi con le norme disciplinari della curia che gli proibivano di mettere piede in uno stadio.<br />E quella volta che l’incontenibile amore per la sua squadra lo rese trasgressivo, venne giustamente punito: non dai superiori, come era lecito attendersi, ma da un rotolo di carta igienica che dai piani superiori dello stadio gli arrivò in testa, lasciandolo (altro che “dieci piani di morbidezza” come recitava la pubblicità!) mezzo intontito.<br />Ora che, cadute le proibizioni e le sanzioni di un tempo, Monsignore può frequentare liberamente lo stadio godendo pure dei biglietti che un’anima buona puntualmente gli fa avere, deve ammettere che la passione è rimasta intatta, anche se è costretto a scontarla con un altro tipo di passione: la sofferenza.<br />Possibile che per l’Inter debba andar tutto storto e che gli anni delle vacche grasse non debbano mai più ritornare?<br />Monsignore prova a consolarsi con qualche scampolo di bel gioco, ma è troppo poco per chi soffre di un digiuno che si fa sempre più tormentoso. Soprattutto se a soffrire si trova solo, senza la solidarietà neppure degli amici più cari.<br />È quello che gli è successo qualche anno fa a S. Siro, quando ci andò per vedere l’Inter che giocava un partita di Coppa Italia contro la Sampdoria.<br />Serata ideale di primavera, con una temperatura mite e un’aria limpidissima, campo in splendide condizioni, gente felice sulle gradinate, pronostico pressochè scontato: c’erano tutte le premesse per avere di quella sera un ottimo ricordo tanto che si era fatto accompagnare dall’amico scrittore Lillo Santucci, assente dagli stadi dai tempi di Meazza, per farlo partecipe della festa che senza dubbio non sarebbe mancata.<br />Che Lillo fosse felice, ci voleva poco a capirlo.<br />Monsignore quella sera aveva alla sua destra un bambino in compagnia del papà, alla sua sinistra un altro bambino -questo di 78 anni- che si entusiasmava più del primo seguendo lo spettacolo che si svolgeva sulle tribune e sul campo da gioco.<br />“Vedi come sono belli quegli omini che si muovono sul tappeto verde” gli diceva Lillo ogni tanto a partita iniziata.<br />E glielo diceva anche quando Monsignore soffriva visibilmente perché la squadra del cuore stava perdendo.<br />Avrebbe voluto interromperlo: “Lillo, per favore, un po’ di comprensione….”.<br />Ma lui si godeva beatamente il suo spettacolo, al di là dell’evento sportivo, immergendosi nella smemorante festevolezza delle voci, delle luci, dei colori, dei movimenti che i suoi “omini” disegnavano sul prato verde.<br />È un fatto che Monsignore le sue delusioni sportive se le deve smaltire per lo più da solo, ricorrendo ora alla funzione catartica dell’indignazione, ora ai riti propiziatori o scaramantici della superstizione.<br />Che sia superstizioso non lo si può certo affermare (del resto, come potrebbe?), ma lui stesso ammette che, quando si tratta della sua squadra, qualche debolezza se la concede.<br />Pur di spuntare un risultato importante, le ha tentate tutte: si è imposto di non vedere la partita allo stadio, ha depistato prontamente amici maldestri che ancora non sanno quanta jella può procurarti un incauto augurio per la tua squadra e, da quando ha scoperto in Matteo, un piccolo pronipote di neanche due anni, una straordinaria forza benefica a favore dell’Inter, è su di lui che punta tutte le sue speranze.<br />Si può capire l’ardire che ebbe Monsignore la sera in cui l’Inter era sotto di due goals con la Sampdoria (in una partita, questa volta, di campionato).<br />Ecco la sintesi delle parole concitate che Monsignore scambiò per telefono con il papà del piccolo Matteo:<br />“Che cosa sta facendo Matteo? Non dirmi che sta dormendo”<br />“Ma cosa vuoi che faccia a quest’ora? Certo che sta dormendo”<br />“Lo supponevo. E allora, senti bene quello che ti dico: fammi il santo piacere di svegliarlo e di tenerlo sveglio almeno per mezz’ora. Intesi?”<br />Fu così che quella volta l’Inter compì l’impresa memorabile di segnare tre goals negli ultimi sei minuti.<br />Ma, se è vero che questi colpi di magia infantile possono cambiare il risultato di una partita, non hanno ancora la forza sufficiente per rimediare a una situazione generale che rimane sempre deprimente: sarà perché Matteo talvolta dorme, sarà perché a dormire sono più spesso i giocatori in campo.<br />Dovreste sentire allora con quale veemenza Monsignore, così mite quando è all’altare, esprime il suo disappunto e la sua indignazione.<br />Si mette a inveire contro i giocatori (ah, quel Ronaldo: traditore ingrato!), contro gli arbitri, contro l’ambiente, anche contro il cappellano dell’Inter, suo amico, che non saprebbe trasfondere nella squadra quella spes contra spem, quella speranza contro ogni speranza che sarebbe necessaria per sollevare il morale della squadra e dei tifosi.<br />La sua indignazione investe pure la curia, colpevole, a suo giudizio, di una grave indelicatezza nei suoi confronti.<br />Il problema è questo: in vent’anni e più di parrocchia, mai una volta che gli sia stato messo accanto un vicario che condividesse la sua fede sportiva.<br />E allora giustamente si chiede: “Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo trattamento?<br />Se è un modo per farmi espiare le mie colpe, mi si dica almeno dove ho sbagliato”.<br />È difficile dargli torto.<br />Pensate che sia bello per un superiore raccogliere dal suo giovane collaboratore sorrisi ironici o battute di dubbio gusto?<br />L’ultima è stata questa: “L’Inter vince qualcosa solo ad ogni morte di papa”.<br />Monsignore a queste parole si è chiuso in se stesso, in silenzio.<br />In quel momento è stato sfiorato da un pensiero…<br />Ma poi si è subito ripreso, quando sentì salire dal profondo una voce che lo ammoniva: “No, questo non lo puoi fare. Non sta bene. Ricordati che tu sei Monsignore”.<br /><br /></em>La situazione in casa Inter da allora è sensibilmente mutata.<br />Ne fanno fede i quattro scudetti conquistati negli ultimi quattro anni.<br />E poi, ad assicurare risultati positivi, c’è sempre la presenza del piccolo Matteo.<br />Per Natale gli avevo regalato una bella sciarpa con i colori dell’Inter.<br />Quando qualche giorno dopo lo raggiunsi per telefono sui monti del Trentino dove stava<br />trascorrendo una breve vacanza e gli chiesi quale sciarpa portasse per difendersi dal freddo.<br />la risposta fu pronta e per me di buon auspicio: “Quella azzurra che tu mi hai regalato”<br />Io so che soltanto la fretta nel dare la risposta l’aveva portato a tralasciare il primo colore fondamentale per la storia dell’Inter, ma a me è parso di trovarvi comunque un segnale promettente per il futuro della mia squadra.<br />Non potrebbe essere infatti che il nero di tante umiliazioni subite debba essere completamente cancellato e che si possa contemplare un orizzonte limpido, senza ombre, di un azzurro terso e radioso?<br />Se così fosse, mi sia concesso di immaginare con i caratteri della più ampia libertà tutte le parole che iniziano con <em>inter.</em><br />A cominciare dalla parola interludio che mi sentirei di trattare in questo modo: </div><div align="justify"> </div><div align="justify"><em><strong><span style="font-size:180%;">INTER</span>ludio</strong></em></div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-71721102716773554152009-06-26T12:37:00.001+02:002009-06-28T09:47:25.156+02:00<div align="justify"><strong><em>Spigolature </em></strong>(giugno 2009)<br /><br /><strong>Il predicatore</strong><br /><br />Il migliore<br /><br /><em>Il migliore predicatore è il cuore</em>.<br /><br />Ecumenico<br /><br />…<em>e quando dico uomini, intendo abbracciare anche tutte le donne<br /></em><br />Visionario<br /><br />…<em>il sacerdote è uno che ha un piede sulla terra, mentre con l’altro guarda verso il cielo</em><br /><br />Solidale<br /><br /><em>era talmente noioso e pedante che un torpore contagioso si diffuse in tutta la sala e lui stesso fu sul punto di arrendersi a questa strana situazione.<br /></em><br />Panegirista<br /><br />Anche quella volta, per la festa patronale, venne invitato un oratore brillante.<br />A lui il compito di tenere viva l’attenzione del vasto pubblico narrando l’orrenda fine subita da<br />S. Gemolo, il santo protettore di quella comunità.<br />Sul martirio subìto dal santo non esistevano fonti sicure per cui ogni oratore si permetteva di offrire particolari inediti con il risultato di accumulare su quel povero corpo una tale violenza che sarebbe bastata a procurare la morte di diverse persone.<br />Il brillante oratore se la cavò benissimo, con una dovizia di particolari, nel descrivere i momenti più drammatici del martirio.<br />E tutti ebbero l’impressione di assistere alla scena e di vedere il giovane Gemolo dapprima immobilizzato con una grossa fune e poi decapitato.<br />A questo punto l’oratore si avventurò nel descrivere il miracolo più grande attribuito al santo: mentre la testa gli rotolava davanti, egli la raccolse prontamente e la riportò là donde gli era stata violentemente strappata. Ed ecco una voce maschile che dal fondo dell’assemblea si permette di obiettare:”<em>Ma come ha fatto se aveva le mani legate?”.<br /></em>Al che l’oratore, per nulla impressionato, rispose:”<em>Addentandola”</em></div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-88778671623201822802009-05-22T17:36:00.001+02:002009-05-23T10:39:46.198+02:00Pensando al Concilio<div align="justify"><br />Me l’aspettavo.<br />Che qualcuno si facesse vivo per ricordarmi che, se mai avessi voluto procedere in parallelo con la serie dei <em>Capita</em>…già registrata nel mese di febbraio del 2007, avrei dovuto occuparmi anche dei problemi della chiesa nel mondo d’oggi.<br />Effettivamente c’è stato chi mi ha interpellato su questo argomento.<br />Che giudizio mi sono fatto della chiesa nella società attuale? Mi è parso di capire che si vorrebbero da me giudizi precisi che tocchino anche le persone, soprattutto quelle che hanno maggiori responsabilità nella vita ecclesiale.<br />Ma io, anche a costo di deludere qualche amico, posso soltanto parlare di una profonda tristezza e di una irriducibile speranza di fronte alla chiesa di cui tutti portiamo la responsabilità.<br />La tristezza è palese in me. Non la nascondo.<br />E si manifesta soprattutto quando mi pare di avvertire l’enorme distanza che ci separa dalla grande stagione conciliare.<br />Erano anni, quelli, pieni di fervore pentecostale.<br />Era appassionante seguire i lavori che si svolgevano nella grande aula conciliare (la basilica vaticana) e vedere delinearsi, giorno dopo giorno, l‘immagine di una chiesa più libera, più dialogante, più aperta ad accogliere le istanze che erano custodite nel cuore non solo dei credenti, ma di tutta la grande famiglia umana.<br />Si aveva l’impressione allora che un sogno a lungo inseguito potesse diventare realtà.<br />Questa esperienza che ho avuto la fortuna di seguire attentamente trovandomi in quegli anni a insegnare in seminario, l’ho rivissuta proprio in questi giorni attraverso la testimonianza che ci hanno lasciato due grandi protagonisti del concilio.<br />La prima è quella che ci viene offerta da un grosso volume di memorie intitolato <em>La mia battaglia per la libertà</em> che Hans Kung ha dedicato particolarmente al grande evento del concilio.<br />Su questo famoso teologo, che ho potuto avvicinare quando nel 1967 passò da Milano per la presentazione di un suo coraggioso saggio sulla chiesa (fu in quella occasione che subì un violento attacco da parte di un giornalista-teologo che già godeva di una forte protezione vaticana), si potrebbero esprimere diverse valutazioni che certamente non valgono a procurargli un consenso immediato e unanime.<br />È vero: anche in questo ultimo suo lavoro non ha saputo controllare sempre la sua <em>istintiva vis</em> polemica e frenare la presenza debordante del suo io.<br />Ciò non toglie che questa opera abbia il merito grandissimo di farci rivivere, attraverso una narrazione sempre tesa e appassionata, i travagli a volte drammatici da cui sono usciti i testi più innovativi del concilio.<br />Di diverso spessore emotivo e altrettanto preziosa sul piano documentario è la testimonianza che sul concilio ci ha lasciato il grande vescovo brasiliano Dom Helder Camara.<br />Sto leggendo in questi giorni <em>Roma, due del mattino</em>: è un’antologia delle lettere che, a commento di ogni seduta dei padri conciliari, Dom Helder trasmetteva (alle due di notte!) alla sua lontana comunità informandola sui temi che venivano trattati, sul favore e sulle resistenze che incontravano in aula, sulle proposte che maggiormente gli stavano a cuore.<br />Con tono pacato, ma vibrante di segreta passione per le sorti della chiesa, vedeva con favore il fatto che il concilio non intendesse prendere posizione contro qualcosa o qualcuno, mentre non nascondeva la sua profonda delusione nel vedere quanta resistenza incontrassero i “suoi” temi, quelli in particolare della pace e del sottosviluppo sui quali aveva sperato un voto pressoché unanime.<br />E chi si rende conto della grande novità rappresentata dal concilio per il futuro della chiesa, non può che patire una profonda delusione nel costatare come da più parti si tenta di privare il concilio di ogni alone di straordinarietà così da poter ripristinare più facilmente le consuetudini del passato.<br />Che cosa abbiamo fatto del concilio?<br />La domanda l’ho posta a qualche amico e proprio da uno di essi mi è stata data una risposta scritta che già nel titolo (<em>Il concilio dimenticato</em>) interpreta pienamente il mio attuale stato d’animo.<br />Ci eravamo rallegrati per la riscoperta di una chiesa come luogo di libertà, di coraggio, di gioia, di speranza e ci ritroviamo con una chiesa intristita da troppe paure e preoccupata prevalentemente della propria sopravvivenza in un mondo considerato come luogo di disgregazione di tutti i valori morali.<br />Che tristezza nel dover prendere atto che, invece di apparire come presenza profetica in grado di portare al mondo un annuncio gioioso (non è forse vero che essa è chiamata a rivelare al mondo che Dio si è fatto vicino per offrire a tutti gesti di perdono e di misericordia?), si accontenta di esercitare un ruolo di tipo burocratico-disciplinare.<br />Il vangelo della misericordia e della riconciliazione sembra infatti lasciare spazio, ogni giorno più, alla preoccupazione per l’ortodossia e la dottrina.<br />Mi permetto un’autocitazione.<br />Nella lettera aperta che scrissi <em>”al mio nuovo vescovo”</em> in occasione del suo ingresso in diocesi, osavo ricordargli come fosse “importante oggi presentare l’immagine di una chiesa che sia finalmente sciolta da tanti fardelli del passato (ritualismi, formalismi, paure, diplomazie eccessive…) e diventi sempre più lo spazio dove si possa stare in comunione amorosa con l’universo, con l’esistenza, con il mistero di Dio”.<br />Per questo lo invitavo a non preoccuparsi di cercare una risposta a ogni problema di ordine morale, ma di essere testimone di una fede che avesse una connotazione mistica, cioè dell’indicibile stupore che si prova nel sentirsi amati da Dio, per pura grazia, senza alcun calcolo di ogni possibile nostro merito.<br />È proprio su questo punto che la chiesa appare oggi mancante.<br />Perché molti giovani si sentono estranei alla vita della chiesa?<br />Perché, mentre la sentono quasi ossessivamente presente nel definire le proprie posizioni riguardanti i temi della sessualità, della contraccezione, dell’aborto, della fecondazione artificiale e su quelli relativi all’accanimento terapeutico o al testamento biologico, non la trovano altrettanto preoccupata di trasmettere messaggi che tocchino il cuore delle persone, che si aspettano parole liberanti che facciano sognare un mondo più umano, dove a ciascuno, anche se occupa l’ultimo posto nella scala sociale, sia riconosciuta una dignità inalienabile e dove tutti insieme si concorra a creare relazioni ispirate ai valori del rispetto reciproco, della condivisione, della fraternità.<br />“Dov’è la Chiesa che scalda i cuori?” si chiedeva Beppe Severgnini sul Corriere del 5 febbraio.<br />Una chiesa capace di scaldare cuori l’abbiamo conosciuta ai tempi del concilio.<br />Ricordo ancora l’emozione che provai nel settembre del 1967, partecipando ad alcune liturgie domenicali presso la parrocchia degli studenti ad Amsterdam, dove mi aveva spinto il desiderio di conoscere meglio il famoso catechismo olandese, non ancora tradotto in Italia.<br />Rivedo ancora la folla di giovani che occupavano ogni angolo di quella vastissima sala.<br />La luce che splendeva nei loro occhi, la felicità che esprimevano con i loro canti, la spontaneità con cui interpretavano i momenti più significativi della celebrazione trasmettevano il senso gioioso di un’esperienza vissuta nel segno di una grande libertà.<br />Questa immagine esaltante di chiesa oggi è fortemente impallidita se non addirittura cancellata.<br />“Che insicurezza nei continui richiami a essere fedeli alla propria identità, che incertezza nei richiami ossessivi a non lasciarsi fuorviare dal relativismo, che paura nei confronti di un mondo che chiede solo di essere compreso e salvato, questo sì, ma non “protetto” e “preservato” o peggio accusato di malafede” fa osservare il mio amico.<br />Se la chiesa dà l’impressione di non sapere più trasmettere messaggi di speranza, di coraggio, di fiducia, che cosa conviene fare?<br />C’è chi, come il teologo Vito Mancuso, invoca un nuovo concilio.<br />Il clima generale della società e della chiesa oggi, è piuttosto depresso. Scoraggiato.<br />Un concilio, se preparato attraverso la preghiera di tutta la comunità cristiana, per l’azione dello Spirito potrebbe riscaldare il cuore di ciascuno, così che si possa insieme affrontare il futuro con gioia e coraggio, senza più le paure che abbiamo dovuto registrare sul nostro cammino.<br />Ci sono però altri che nulla sperano da un eventuale nuovo concilio: visto l’arroccamento attuale della gerarchia sui temi della bioetica, i risultati sarebbero scontati.<br />D’altra parte molti di questi non sono più disposti a dare fiducia ancora una volta a una chiesa che li ha profondamente delusi. Per questo sono tentati di abbandonare la chiesa, come ha fatto recentemente la filosofa Roberta de Monticelli, la quale ha pubblicamente professato il suo distacco dalla chiesa cattolica.<br />Tentazione tremenda, questa, che ha sfiorato anche la coscienza di molti credenti, in particolare di alcuni che erano considerati come guide autorevoli sulla via del rinnovamento voluto dal concilio.<br />Ma essi (penso in particolare a padre Giovanni Vannucci, a padre David Maria Turoldo, a padre Nazareno Fabbretti, a Don Michele Do ...) hanno scelto di rimanere fedeli alla loro chiesa, che avevano amato e servito con tanta passione, intimamente persuasi che essa non è mai abbandonata dallo Spirito, il quale ci aiuta ad affinare il nostro sguardo così da trovare motivi di speranza anche nei momenti più oscuri della sua storia.<br />Su questo tema non posso dimenticare la risposta che don Michele Do diede ad alcuni amici valdesi che l’avevano invitato a passare dalla loro parte: “Sono certo che anche tra voi troverei un’istituzione che, come ogni istituzione umana, ha le sue pesantezze e le sue ottusità.<br />Tanto vale che rimanga nella mia chiesa e cerchi, per poco che mi riesca, di renderla come da sempre la vado sognando”.<br />Anche il card. Martini, nel suo libro di confidenze e confessioni <em>Colloqui notturni a Gerusalemme,</em> parla di una Chiesa a lungo sognata “una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo (….) Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto, una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli e peccatori.<br />Sognavo una chiesa giovane”.<br />Ma poi conclude con una frase che sembra negare la possibilità di coltivare questo sogno: “Oggi non ho più di questi sogni”.<br />Che si fosse arreso lui pure, in un momento di sconforto, al pessimismo che serpeggia nella chiesa, in ordine alla sua capacità di dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo?<br />In realtà il cardinale non intendeva esprimere soltanto il suo disagio nei confronti della chiesa attuale, ma preparare il lettore a capire meglio il senso della sua ultima affermazione.<br />Dopo i settantacinque anni - così ci ha confidato - ha compreso che i sogni non contano nulla se non sono affidati alla preghiera. Solo la preghiera può vincere lo sconforto e il pessimismo tenendo accesa la fiamma della speranza.<br />E a quanti si chiedono se lo Spirito Santo sia ancora presente nella chiesa, il cardinale Martini, già nella <em>Lettera sullo Spirito Santo</em> del 1997, così rispondeva: “Lo Spirito c’è anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è, e sta operando; arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è, e non si é mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva là dove mai avremmo immaginato”.<br />Che sia questa la via da seguire, per poco che si conosca il vangelo, è facile esserne convinti.<br />Chi si lascia condurre dallo Spirito, acquista uno sguardo più limpido in grado di vedere l’invisibile.<br />E si scoprono tanti semi nascosti, tante esperienze nuove che si sono sviluppate sotto l’azione incessante e creativa dello Spirito.<br />Per parte mia, ne ho avuto conferma quando ho potuto scoprire la grandezza umana e spirituale di certe presenze nascoste che, lontane dagli ambienti ufficiali, hanno tenuta viva l’urgenza di un rinnovamento della chiesa attraverso una radicale fedeltà al vangelo.<br />Quanti cristiani conoscono oggi la luminosa figura di sorella Maria di Campello?<br />Il suo nome l’ho raccolto la prima volta dalle labbra di don Michele Do che l’aveva conosciuta personalmente e ne conservava una memoria intrisa di affettuoso stupore.<br />Quando ho potuto leggere il saggio biografico che le è stato dedicato da Roberto Morozzo della Rocca, mi sono reso conto della straordinaria avventura spirituale di questa donna.<br />Fondatrice dell’eremo di Campello, aveva elaborato una spiritualità che valorizzava molto il decoro, l’armonia, il garbo, la finezza dei comportamenti e soprattutto la bellezza nella semplicità. Aveva in particolare il culto dell’amicizia e una grande capacità di relazione anche con persone lontane dal suo orizzonte culturale.<br />È sorprendente vederla dialogare con Gandhi, con Albert Schweitzer oltre che con Bonaiuti e Ambrogio Donini.<br />Recentemente le “Edizioni Qiqajon" di Bose hanno pubblicato due preziosi epistolari che ci consentono di avvicinare il mondo segreto di sorella Maria e di conoscere meglio la sapienza evangelica da lei appresa alla scuola della Parola e dispensata con la libertà e la semplicità di chi ha posto tutta la sua fiducia in Dio.<br />Il primo epistolario raccoglie le lettere scambiate con padre Giovanni Vannucci, il grande religioso Servita che ha fondato l’eremo delle Stinche.<br />Il secondo riproduce la corrispondenza intercorsa tra sorella Maria e don Primo Mazzolari che Giovanni XXIII, all’inizio del suo pontificato, avrebbe salutato come “la tromba dello Spirito Santo“ in Val padana, ma che intanto aveva problemi con la gerarchia per la libertà con cui, nel difendere la causa dei poveri, osava denunciare i compromessi della chiesa con il potere.<br />Ed è con immensa gioia che ho visto affiorare dalle fitte pagine di questo epistolario un nome a me particolarmente caro, quello di don Michele il quale, quando ancora era un giovane prete, aveva scelto come suo eremo il piccolo villaggio valdostano di Saint Jacques meritandosi questo affettuoso elogio da parte di sorella Maria: ”una perla di giovane prete….quanto è aperto, studioso, evangelico questo fragile uomo! Ha un fervido spirito religioso”.<br />E proprio a conferma di queste parole è uscito recentemente un volume che raccoglie in forma antologica alcune riflessioni di don Michele su temi che a suo giudizio dovrebbero appassionare la coscienza di ogni credente.<br /><em>Per un’immagine creativa del cristianesimo</em> è il titolo del volume che già con la presentazione del profilo biografico di don Michele, redatto da Clara Gennaro nel segno di una profonda amicizia, permette di seguire le tracce del suo cammino spirituale e di rimanerne conquistati tanto che un amico mi ha confidato di essersi trovato, nel corso della lettura, con gli occhi umidi di pianto.<br />Qualcuno si domanderà perché abbia voluto evocare la memoria di questi quattro testimoni del vangelo.<br />La ragione è semplice.<br />A parte la suggestione esercitata dal fatto di vederli così fraternamente uniti, pur provenendo da orizzonti culturali diversi, e di sapere che con le loro riflessioni hanno anticipato i temi che sarebbero stati al centro del dibattito conciliare, la loro testimonianza risulta particolarmente luminosa se si pensa che erano tempi, quelli, in cui la gerarchia esercitava ancora un severo controllo sulle coscienze.<br />Essere sospettati di filomodernismo o di filomarxismo voleva dire incorrere in censure molto pesanti da parte dell’autorità ecclesiastica.<br />Che essi abbiano avuto il coraggio di affrontare questi sospetti lasciandosi guidare dall’azione dello Spirito, porta a sperare che anche nei tempi oscuri per la chiesa che stiamo attraversando non debbano mancare mai certe presenze profetiche nascoste, capaci di tenere accesa la lampada della fede.<br />Sulla fede mi è capitato di leggere recentemente questa definizione attribuita a George Bernanos:<br />“La fede è: ventiquattro ore di dubbi meno un minuto di speranza”.<br />Quando, recitando il credo, diciamo: “Credo la chiesa una, santa, cattolica e apostolica”, siamo presi da tanti dubbi mai completamente debellati, ma a sostenere il nostro cammino di fede c’è la speranza rappresentata da questi testimoni che hanno scelto la dimensione della piccolezza evangelica.<br />Perciò dovremmo fare nostro il saluto che padre David Maria Turoldo usava nel prendere congedo da qualche amico.<br />Il saluto consisteva in questa bellissima esortazione: “ Aiutiamoci a sperare!”. </div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-52215329023700413082008-11-05T23:11:00.003+01:002008-11-06T09:33:23.545+01:00Inter-ludio 3Certo, se si toccasse il tema delle amnesie, la serie dei <em>capita</em> potrebbe prolungarsi all’infinito.<br />Ma non ritengo sia il caso di puntualizzare le singole dimenticanze che sono costretto ad accusare, per esempio, nel corso di una conversazione.<br />Credo piuttosto che mi convenga osservare il problema nei suoi aspetti ricorrenti.<br />Che con il passare degli anni si faccia sempre più fatica a ricordare i nomi delle persone, è un lamento comune.<br />E io non mi sottraggo a questo disappunto così diffuso.<br />Ma mi accorgo anche che la vecchiaia, se da una parte toglie, dall’altra restituisce.Mi riferisco alla facilità con cui in questa età affiorano ricordi di tempi lontani, con una ricchezza e nitidezza di particolari davvero sorprendenti.<br />Vorrei a questo proposito segnalare un caso che mi ha molto colpito.<br />Ero parroco da poco tempo quando venni a sapere che una signora ultranovantenne desiderava una mia visita.<br />Era una persona ancora molto vivace, che però negli ultimi tempi aveva perso completamente l’uso della lingua italiana, mentre aveva preso a esprimersi correttamente in francese.<br />Perché in francese?<br />Perché, essendo nata a Cap d’Ail in Costa Azzurra, il francese era stato la lingua parlata negli anni della sua prima infanzia.<br />Anch’io mi sto accorgendo di ritrovare, dopo più di sessant’anni di oblio, parole, espressioni, modi di dire appartenenti al mondo dell’infanzia lontana.<br />Si tratta per lo più di termini dialettali la cui riscoperta, involontaria, mi procura sempreun’emozione intensa, perché mi permette di rivivere momenti e situazioni abbelliti dal fascino della nostalgia.<br />E’ quello che ho provato recentemente quando mi sono ritrovato nella memoria, non so come, la parola <em>burlot</em>t.<br />E’ bastata questa parola per evocare la cena di certe sere d‘estate, quando compariva in tavola un minestrone in cui si distinguevano nettamente , panciuti e paffuti com’erano, i fagioli appena colti chiamati appunto i <em>burlott</em>.<br />E chiaro che l’attenzione dei bambini fosse rivolta soprattutto a questa deliziosa apparizione. Quanti ne sarebbero toccati a ciascuno?<br />Ma prima che le papille gustative potessero esercitarsi su tanto bendidio, c’era un rituale da osservare.<br />Nessuno lo imponeva, ma erano i bambini stessi a farne memoria.<br />Ciascuno raccoglieva la propria razione di <em>burlott</em> in una pezzuola di tela bianca (il cosiddetto <em>mantin</em>) che poi, tenendo bene stretti i quattro capi in una mano, spiaccicava con colpi assai ben assestati sulla propria fronte.<br />Si può facilmente immaginare la soddisfazione quando, svolgendo i lembi estremi del mantin,si vedeva comparire un tortino di farina di fagioli con tutta la fragranza di un dessert casereccio.<br />Questo ricordo, come altri che hanno una vaga parentela con la famosa <em>madeleine </em>di proustiana memoria, compensa coloro che come me da tempo sono incamminati sul Viale delle Rimembranze.<br />Questa memoria involontaria è dunque molto preziosa, ma non risolve i problemi di chi si trova nella necessità di dover rammentare, per esempio, un nome che sia stato dimenticato.Sarà capitato anche a te - mi riferisco a un ipotetico compagno di viaggio – di accorgerti che, mentre stai parlando, per un improvviso vuoto di memoria ti viene a mancare l’elemento fondamentale della tua narrazione.<br />Che fare?<br />In questi casi si cerca di forzare la memoria, con accorgimenti vari, così da riconquistare ciò che è stato perduto.E intanto, nell’attesa che si accenda dentro di te la piccola luce della riscoperta, tenti di allargare il discorso su tanti altri particolari.<br />E’ quello che è capitato un giorno a mons. Figini, illustre Preside della facoltà teologica di Milano. quando ancora era considerato il più grande teologo in circolazione almeno negli anni di Papa Pacelli (Va detto però che in quel piccolo universo concentrazionario quale era allora il seminario milanese, senza confronti con il mondo esterno, era facile che si creassero figure mitiche come quella di mons. Figini, tanto che sono portato a credere che, se fossi rimasto qualche anno ancora in seminario, avrei potuto anch’io aspirare al titolo di migliore latinista almeno della diocesi di Milano).<br />Ecco la scena che si svolse su un tram di p.za Cadorna, la sera che il nostro Monsignore vi salì per recarsi in via Calatafimi.<br />Monsignore, al bigliettaio che gli sta di fronte, seduto al suo panchetto, in coda alla vettura:“<em>Mi perdoni. Questo è il tram che passa da via… da via… ? Ahimè, che la parola non mi viene….”</em>.Bigliettaio, con un fare rispettoso e incoraggiante: “<em>Provi a frugare ancora nella memoria.E se vuole che l’aiuti, mi faccia pure qualche domanda”.</em><br />Monsignore: <em>“E’ il nome di una grande battaglia combattuta dai garibaldini in terra siciliana.</em> <em>Mi hanno raccontato di questa battaglia due amici bergamaschi, che avevano partecipato alla spedizione.I bergamaschi pare che fossero più di 200, attirati in quell’avventura soprattutto dal prestigio di Garibaldi”.</em><br />Bigliettaio, dando qualche leggero segno di impazienza.: “<em>Sì, d’accordo, ma il problema ora è di trovare il nome della via”.</em><br />Monsignore:“<em>Se avessi tra le mani quel magnifico resoconto che sulla spedizione ci ha lasciato Cesare Abba, con il titolo Da Quarto al Volturno, il problema sarebbe già risolto”.</em><br />Bigliettaio, dando sfogo a questo punto a tutto il suo buon senso: <em>”Monsignore, vedo che lei parla come un’enciclopedia, ma, se permette, il mio parere è questo: non sarebbe stato meglio, invece di ricordare tante cose, tenere a mente quell’unico nome che ora ci manca?”.</em><br />Appunto.<br /><em>That is the question..</em><br /><br />Queste divagazioni sulla memoria devo confessare che hanno lo scopo di ingannare l’attesa di un referto clinico per un esame a cui sono stato sottoposto qualche giorno fa.Avendo dovuto cambiare il mio medico curante, ho affrontato ben volentieri tutti gli accertamenti che mi sono stati prescritti, tranne quello riguardante la situazione neurologica dell’encefalo. Provo sempre un po’di disagio al pensiero che un occhio indiscreto possa penetrare nel mio mondo segreto e spiare indebitamente i movimenti dei miei pensieri più o meno vagabondi....Se, come spero, non si troverà nessuna particolare anomalia, mi guarderò bene dal confidare la mia soddisfazione a certi amici, perché non si ripeta quello che è capitato a un mio vecchio professore di seminario.Reduce da un delicato intervento alla testa, diede lui stesso pubblicamente notizia del felice superamento di questa sua disavventura dicendo: “Mi hanno guardato dentro e non hanno trovato niente”.Tra gli ascoltatori ci fu allora qualcuno – di uno so con assoluta certezza - che commentò la notizia mormorando segretamente una frase che aveva reso famoso in quei tempi un personaggio di Jacovitti.L’espressione, impietosa, era: “Lo supponevo!”.don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-27406754143964275862008-10-02T19:09:00.001+02:002008-10-02T19:17:04.552+02:00Inter-ludio 2<div align="justify"><br />Volendo conservare per questi pensieri vagabondi un’intonazione semiseria o, se si preferisce, agrodolce, ho pensato di riagganciarmi alla serie dei capita, iniziata e subito interrotta il 18 febbraio dello scorso anno.<br /><br />Capita che uno, dopo avere confidato al suo medico curante un principio di scialorrea, si senta fare da lui questo discorso:”Un rimedio veramente ci sarebbe. Basterebbe un trattamento al botulino che di solito serve alle signore per togliersi qualche ruga di troppo, ma che, la prego di credermi, può essere efficace anche nel caso suo”.<br />E capita che dopo il trattamento uno si trovi con qualche ruga in meno e con le labbra più umide di prima.<br /><br />Nb. E’ meglio comunque avere le labbra umide che le labbra rosse di certi monsignori.<br />La spiegazione di queste labbra rosse?<br />E’ in una feroce battuta che vi risparmio.<br /><br />Capita che uno, contemplando un tenero asinello che entra ad arricchire la sua collezione, si abbandoni a questa patetica confidenza: “Sai quanto ero bello anch’io alla tua età?”.<br /><br />Capita che, vedendo una folla di giovani dalla vitalità prorompente, sia tentato di consolarsi richiamando una sentenza amara: “La giovinezza è una malattia da cui si guarisce in fretta”.<br /><br />E’ capitato che nei giorni delle olimpiadi, vedendosi sopravanzare con passo troppo spedito da qualcuno incurante del suo badante muto, lo abbia inseguito con questa tacita rivalsa: “Lei non sa che io potrei vincere un oro alla prossima olimpiade dei paraplegici”.<br /><br />Capita che, quando gli succede di concelebrare, come in questi giorni, con un confratello dalla voce incredibilmente stentorea, si ritrovi con la sua non-voce a formulare questo commento: “Dio li fa, poi li accoppia”.<br /><br />Capita che, ricevendo dall’amico “vaticano” un biglietto d’augurio con una vistosa croce “arcivescovile” a precedere la firma, si consoli pensando: “Anche a me presto succederà la stessa cosa. Anzi, per firmare mi basterà una croce, senza più neanche il nome”.<br /><br />Capita che, quando qualcuno si permette di rammentargli i possibili esiti del suo attuale stato di salute, si dica tra sé “D’accordo, tutto è possibile, salvo il caso che io possa essere colpito da quella <em>vagina pectoris</em> (sic) di cui mi parlava con una certa apprensione una gentile signora non molto tempo fa.<br /><br />Capita che, trovandosi circondato da una folla di Maddalene, di cirenei, di buoni samaritani, si domandi: “Non sarà che presto debba aspettarmi la croce?”.<br />.<br />Capita che la serie dei capita si allunghi sempre più tanto da entrare in concorrenza con le litanie della nonna che allora sembravano interminabili.<br />E capita che, per non procurare ad altri la noia provata in quei momenti, abbia il coraggio di dire: “Per ora può bastare”.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-73729132201446909952008-08-28T07:47:00.002+02:002008-08-30T14:25:16.704+02:00Novissimi 4Spigolature in vista di una riflessione sui novissimi<br /><br />Elias Canetti<br /><em><br />“C’è un muro del pianto dell’umanità, e io gli sto accanto”.<br /><br />“Amici dovrebbero potersi chiamare soltanto coloro che, essendo riusciti a sapere quanti anni hanno ancora da vivere, se li scambiano l’un l’altro per equipararli”.<br /><br />”La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”.<br /><br />”Se potessi davvero credere che Gesù ha vinto la morte, diventerei cristiano domani”.<br /><br />”Nell’eternità tutto è inizio, mattino profumato”.<br /></em><br />Kurt Marti, figura esemplare della chiesa evangelica svizzera e anche grandissimo poeta:<br /><br /><em>”Domandate / in che cosa consiste / la risurrezione dei morti? / Non lo so /<br />Domandate / quando avrà luogo / la risurrezione dei morti / Non lo so /<br />Domandate / esiste / una risurrezione dei morti?/ Non lo so /<br />Domandate / Non c’è/ risurrezione dei morti? / Non lo so /<br />Io so /soltanto / ciò che voi non evocate: / la risurrezione dei vivi. /<br />Io so / soltanto / ciò a cui egli ci chiama: / a una risurrezione qui e ora.”</em>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-7570551907958195632008-08-24T09:29:00.002+02:002008-08-25T01:22:34.068+02:00Novissimi 2<div align="justify"><br />Che cosa vuole essere un testamento spirituale?<br />E quali sono le ragioni che presiedono alla sua stesura?<br />E’ quello che mi sono chiesto leggendo un breve saggio di Pietro Scoppola intitolato: <em>Un cattolico a modo suo</em>, che nella prefazione viene presentato come “il testamento spirituale di uno storico che ha lasciato il segno nella cultura italiana e di un maestro che ha formato le coscienze di più di una generazione”.<br />Lo stesso Scoppola precisa che si tratta di una riflessione sul percorso spirituale lungo il quale ha camminato per tutta la vita.<br />Si preoccupa perciò di raccogliere ricordi, pensieri, emozioni per farne dono alle persone che gli sono care con la speranza di rendere più agevole il loro cammino.<br />C ’è in queste pagine tutta la trepidazione di chi non vuole cedere nulla alla morte incombente senza aver prima compiuto questo estremo gesto di donazione e di amicizia.<br />Riprendo la domanda che mi ero posto all’inizio: che cosa è dunque un testamento spirituale?<br />Ripensando anche ai testamenti spirituali che mi è capitato di leggere in questi ultimi tempi (quello dell’abbè Pierre, di David Maria Turoldo, del carissimo don Giorgio Basadonna nonché lo stupendo messaggio che l’indimenticabile amico Lillo Santucci ha lasciato per i figli registrandolo su nastro poco prima di morire), mi pare di poter cogliere con chiarezza i caratteri fondamentali di ogni vero testamento spirituale.<br />L’idea nasce normalmente all’interno di una condizione di precarietà, quando il venir meno delle risorse vitali porta a interrogarsi sulla presenza di certi valori che possano in qualche modo restituire senso e consistenza alla propria umana avventura.<br />E quando si scopre che l’amicizia è l’espressione più alta e più luminosa del vivere,<br />si sente il bisogno di intrecciare un dialogo con le persone amiche per comunicare loro il frutto della propria esplorazione interiore.<br />Fatte queste premesse, mi domando se non sia il caso che anch’io provveda a lasciare un sia pur piccolo testamento spirituale.<br />L’unico dato certo è che, se mai volessi accogliere questa suggestione, dovrei realizzarla senza alcun indugio. I tempi sono stretti e non mi è concesso di aspettare…<br />Ma al di là di questo dato, le perplessità sono tante.<br />A chi potrei rivolgermi e che cosa potrei dire di particolarmente significativo tanto da affidare le mie riflessioni alla forma singolare e definitiva di un testamento spirituale?<br />Di amici me ne sono rimasti molti i quali, dopo avermi ascoltato per molti anni attraverso i vari momenti della predicazione, potrebbero aspettarsi da me una parola ultima di incoraggiamento a sperare.<br />Ma che cosa posso dire quando io stesso ho bisogno di questa parola perché la fede sento di doverla riconquistare continuamente passando attraverso dubbi e smarrimenti, tanto da condividere pienamente l’espressione di don Michele Do il quale parlava di “irrinunciabili dubitose certezze”?<br />Se mi si chiedesse una professione di fede in vista del mio testamento spirituale, potrei utilizzare le brevi annotazioni raccolte nel mio <em>Abito rosso</em> e introdotte dall’espressione dialettale <em>Semm chi</em> che rappresenta il mio motto personale.<br />Oppure potrei ripetere quella piccola professione di fede che ho fatto quando il carissimo amico Lillo Santucci, poco prima di morire , mi pregò dicendomi: “Parlami della tua fede”.<br />Allora ho preso a dire, forse balbettando: “La mia fede? E’ ben povera cosa la mia fede.<br />E’ una fede semplice, povera, elementare.<br />Quello che posso dire è che non potrei mai vivere senza sentirmi legato a Gesù Cristo.<br />Credo in tutto quello che ha detto, trovo stupendo tutto quello che ha fatto ed è per me motivo di profonda pace quello che ci ha promesso.<br />Credo che le sue parole sulla croce: “Nelle tue mani consegno la mia vita” siano le parole più belle che uno possa ritrovarsi sulle labbra”.<br />A questo punto potrei anche suggerire una preghiera che mi è molto cara in questo tempo di transizione che sto vivendo.<br />Non è mia, ma l’ho trovata nel <em>Mestiere di vivere</em> di Cesare Pavese e da allora (sono passati oramai diversi decenni) non l’ho più dimenticata.<br />E’ brevissima, formata soltanto da quattro parole: “O Tu, abbi pietà”.<br />Ma c’è quel <strong>Tu</strong> (con la maiuscola) che riempie della sua presenza ogni spazio della nostra attesa e della nostra speranza.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-33254008505840676992008-06-17T00:56:00.002+02:002008-06-24T17:05:18.135+02:00Pentecoste 11 maggio 2008<div align="justify">Ho letto in questi giorni che nell’elenco dei “Top 100”, cioè delle 100 personalità che a giudizio di una autorevole rivista americana, sarebbero attualmente le più influenti sul destino dell’umanità, il nome di Benedetto XVI è stato completamente ignorato.<br />Pare che la notizia sia stata accolta in Vaticano con malcelato disappunto.<br />E immagino ora con quanta veemenza le varie “gazzette” diocesane faranno a gara nel deplorare l’affronto recato a quanti riconoscono nel magistero del Papa la guida più autorevole per questi tempi di confusione in cui ciascuno sembra appellarsi a una sua personale verità.<br />Certamente il rammarico può essere legittimo, ma esasperarlo vuol dire perdere ancora una volta un’ occasione favorevole per riflettere sui veri valori su cui si fonda il prestigio della chiesa.<br />Sto leggendo la biografia, ampia e molto documentata, di Papa Giovanni XXIII; scritta dal pronipote Marco Roncalli , e mi domando come avrebbe reagito se avesse dovuto subire uno sgarbo di questo genere da parte del mondo della cultura ufficiale.<br />Visto il profilo spirituale che emerge soprattutto dalle pagine del diario, penso che la faccenda non l’avrebbe turbato più di tanto.<br />Avrebbe potuto osservare come esista una irriducibile distanza tra i valori celebrati dalla cultura profana e quelli continuamente richiamati, con forza, dal vangelo.<br />Da una parte c’è il personaggio con il suo io esigente e prorompente, che cerca la propria affermazione attraverso spazi sempre più ampi di visibilità, dall’altra c’è la persona che pratica la via del silenzio e della discrezione riconoscendosi al servizio di qualcuno da cui sente di aver tutto ricevuto e a cui pensa di dover tutto riferire.<br />Da una parte c’è chi si atteggia a maestro con il prestigio della parola e con la forza delle sue vastissime conoscenze; dall’altra c’è chi ama farsi discepolo di un maestro la cui saggezza non tocca soltanto la mente, ma colma di stupore il cuore dell’uomo.<br />“Quando sono debole, è allora che sono veramente forte” diceva l’apostolo Paolo.<br />Giovanni XXIII, in forza di una scelta maturata nell’ascolto assiduo della parola evangelica, non si sarebbe perciò rattristato nel vedere segnalati, per esempio, i limiti del suo bagaglio culturale.<br />Quante lingue sapeva parlare?<br />Se fosse messo a confronto con altri Papi venuti prima o dopo di lui, risulterebbe – non c’è alcun dubbio - soccombente.<br />Certo il francese lo conosceva alla perfezione, anche se avvertiva sempre il pericolo di qualche piccolo infortunio, come quelli patiti da uno stimato rappresentante della diplomazia vaticana sul<br />conto del quale circolavano in quegli anni due gustose storielle.<br />“ Mon derrière (<em>sic</em>) est partagé en deux parties et au milieu il y a la Belgique” avrebbe detto parlando del suo passato nel quale il posto centrale era occupato dalla nunziatura in Belgio.<br />E un’altra volta, volendo confidare che doveva la sua nascita a un voto fatto da sua madre, fu tradito nella pronuncia della parola <em>voeu</em> per cui si può facilmente immaginar con quale spirito i presenti abbiano potuto ascoltare la frase che alle loro orecchie suonava così: “Ma mère a fait un veau (vitellone), et me voilà”.<br />Queste cose ce le raccontava Mons. Rota nel seminario di Venegono, dove allora io insegnavo e dove questo simpatico monsignore della curia romana era ospite abituale nei mesi estivi .<br />E poiché si sapeva che Mons. Rota era molto amico di Papa Roncalli tanto da essere spesso invitato a condividere il pranzo della domenica, è facile pensare che storielle di questo genere, prima di uscire dai palazzi vaticani, abbiano rallegrato la tavola del Papa.<br />Piccole cose, si dirà, ma significative di uno stile di vita che sapeva sorridere delle altrui e delle proprie insufficienze nell’uso dei mezzi della cultura ufficiale, sapendo che ben altre risorse, nascoste, erano a disposizione per i veri servitori del vangelo.<br /></div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-73533269427726835582008-06-17T00:55:00.004+02:002008-06-24T16:48:32.906+02:00A Elena e Filippo (nel giorno del loro matrimonio, il 13/6/ 2008)<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjhXiBN_4-zPCP0emw_Q55_SLpbrLPYQsLZrRSsyr0A1cKbT5UOX3OLSSV2QSOaHleuNM2koNGnwm9Qksru5btDxJ7AQMrP36jt8Ls59lwVaXZYW8yZCOBTW77kN8V8EKpgrb0uklOuAUk/s1600-h/Immagine+002.jpg"><img id="BLOGGER_PHOTO_ID_5215458491489885282" style="FLOAT: left; MARGIN: 0px 10px 10px 0px; CURSOR: hand" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjhXiBN_4-zPCP0emw_Q55_SLpbrLPYQsLZrRSsyr0A1cKbT5UOX3OLSSV2QSOaHleuNM2koNGnwm9Qksru5btDxJ7AQMrP36jt8Ls59lwVaXZYW8yZCOBTW77kN8V8EKpgrb0uklOuAUk/s200/Immagine+002.jpg" border="0" /></a><br /><div align="justify"><br /><span style="font-size:130%;">V</span>orrei trasmettervi anch’io un augurio.<br />E siete voi a suggerirmelo, con il pieghevole che mi avete mandato per rendermi partecipe di ciò che si sarebbe realizzato in questo giorno.<br />Su un lato di questo cartoncino, preparato con molta cura, trovo una vignetta senza parole che vi ritrae nell’atto di scambiarvi un bacio.<br />Il bacio è il segno di una raggiunta armonia, è l’immagine più trasparente del volersi bene e del sentirsi amati, è la parola più espressiva per confidare l’ineffabilità del proprio amore.<br />Ricordo che la tenerezza di un bacio scambiato da due giovani in piazza S. Pietro commosse anche quel grande patriarca di tutta la cristianità che è stato Papa Giovanni XXIII il quale, dalla finestra del suo studio, silenziosamente ma con un sorriso di compiacimento, tracciò su quei due giovani un segno di benedizione.<br />Anch’io in questo momento mi sento di benedirvi, di dire bene di voi.<br />Ma perché il bacio possa esprimere la poesia dell’amore, richiede il coinvolgimento di tutto il proprio essere.<br />E la vignetta del vostro pieghevole lo dimostra con chiarezza.<br />Vedo Elena che si protende, sollevandosi perfino sulla punta dei piedi, per offrirsi al bacio di Filippo.<br />Ma a me piace immaginare anche le parti rovesciate.<br />Perché tra i due che pure si vogliono bene c’è sempre una distanza da superare, un <em>décalage</em>, direbbero i francesi, da colmare.<br />C’è di mezzo, infatti, il mistero profondo, irriducibile di una persona.<br />Una coppia è sempre un incontro di due mondi ciascuno dei quali è mistero per l’altro.<br />Il matrimonio è perciò una interminabile educazione alla diversità.<br />E’ quello che ci ricorda anche Gibran quando scrive: “Ciascuno nella coppia sia il custode della solitudine dell’altro”, cioè della sua alterità, del suo mistero.<br />Come è possibile sostenere questa situazione esposta sempre a tante tensioni e possibili conflitti?<br />Guardo ancora la vignetta che vi ritrae e trovo che a sostenere Elena nel suo protendersi verso Filippo c’è una pila di libri.<br />Saranno - ho pensato – libri su cui si sta ancora affaticando Elena.<br />Ma a me piace interpretare diversamente questo dettaglio.<br />I libri che sostengono Elena (ma in questo caso dovrebbero sostenere anche Filippo) sono libri che racchiudono la saggezza a cui attingere perché la vostra vita di coppia possa svolgersi in modo armonico.<br />Tento di dare un nome a qualcuno dei libri motivandone le ragioni.<br />Enzo Bianchi dice che amare consiste in due cose: ascoltare e cucinare cose buone per la persona che si ama.<br />Sul fatto dl saper cucinare non ho suggerimenti da dare: so infatti che “giocate in casa”.<br />Ritengo invece che nella vostra biblioteca ideale non dovrebbe mancare mai un volume con le immagini del vostro viaggio di nozze o di un viaggio che vorreste fare.<br />E questo per ricordare che il matrimonio non deve essere visto come una meta raggiunta, ma come l’inizio di un viaggio atteso da tanto tempo.<br />Il matrimonio è sempre stato pensato come viaggio.<br />Il viaggio di nozze infatti, caratteristico della nostra come di altre culture, è inteso come un cammino verso un paese ignoto, in cui non sia possibile prevedere tutto.<br />Il paese ignoto verso cui andate è l’incontro con colui o colei che vi sta al fianco.<br />Non c’è infatti lontananza più grande di quella che separa l’uomo dalla donna.<br />A questo punto consiglierei un libro di spiritualità.<br />Ce ne sono tanti, e tutti molto belli, ma vorrei proporvi un piccolo saggio di un autore, Luigi Pozzoli, che conosco molto bene.<br />D questo breve scritto, che si trova in Caro amico, lasciate che vi citi almeno un passaggio dedicato alla tenerezza:<br />“La tenerezza è soprattutto indulgenza e misericordia.<br />E’ difficile amare senza concedere all’altro la libertà di sbagliare.<br />Ci fosse la capacità di ridere e di sorridere della nostra vulnerabilità e fragilità, sarebbe tutto più semplice e più leggero.<br />Un po’di quell’umorismo che nasce dall’amore può sdrammatizzare tante situazioni che altrimenti si farebbero pericolose”.<br />Ho detto tutto?<br />So che vi ho già rubato molto tempo.<br />.Ma non posso chiudere senza ricordare il volume più grosso, quello che sta sopra gli altri nella vignetta a cui ci siamo riferiti.<br />E’ da questo volume che voi avete ricavato i passi della meravigliosa liturgia di questa mattina,<br />Ma della bellezza del matrimonio così come è stato sognato da Dio, si parla già nelle prime pagine.<br />Dio aveva davanti a sé le meraviglie scaturite dalla sua azione creativa tra cui spiccava l’immagine incantevole della prima coppia, quando pare (è Moni Ovadia che racconta prendendo da una tradizione ebraica) che si sia lasciato sfuggire questa battuta: “Speriamo che tenga”.<br />Eh no, noi siamo certi che la vostra coppia è destinata a tenere.<br />Ve lo dice la cospirazione festosa dei vostri amici che in coro gridano: “Evviva per Elena e Filippo oggi sposi!”.<br />E ad avvalorare questa certezza c’è lo Spirito di Dio., il soffio, il respiro di Dio che non è altro se non amore.<br />E’ un dono che oggi voi ricevete in modo privilegiato e che da voi trabocca su tutti gli amici che vi vogliono bene.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-29606423611460138232008-06-17T00:52:00.001+02:002008-06-24T16:49:49.548+02:00Ma so che una ragione ci deve pure essere<div align="justify"><br />C’è un modo maldestro di consolare gli afflitti.<br />E’ quello di chi, accanto alla situazione che ti fa soffrire, te ne prospetta un’altra ben più grave per cui sei come costretto ad ammettere: “Posso dirmi davvero fortunato, visto che mi poteva andare<br />molto peggio”.<br />Accenni a qualche tuo limite nei movimenti?<br />E subito trovi chi ti aggiorna sulle condizioni di un comune amico (“Te lo ricordi, vero, com’era?”) il quale, colpito da sclerosi multipla, è ridotto ora in uno stato penoso e pietoso.<br />Ti capita di accusare qualche piccolo vuoto di memoria?<br />Ma che cosa è mai se messo a confronto con quanto è successo a quel signore (“Dovresti conoscerlo anche tu o, comunque, ne avrai certo sentito parlare”) il quale, dopo essere passato quel mattino in posta a sbrigare una piccola pratica, non ha saputo più trovare la via del ritorno: un caso di alzheimer fulminante da cui non si sarebbe più ripreso.<br />Capisco che è difficile consolare chi ogni giorno si trova a dover lottare contro i guasti provocati dalla malattia o dall’età avanzata,<br />In questi casi bisognerebbe avere almeno il buon senso di non aggravare la situazione con parole o gesti impropri, anche se dettati dal desiderio di recare qualche sollievo.<br />Pensavo, mentre stendevo questa nota, alla storiella di quel tale che in piazza Duomo si trovò indecorosamente schizzato sul suo sparato bianco da un piccione, vai a sapere se perchè incontinente o dispettoso.<br />Che fare? Come prendersela con quell’impunito che ora forse volteggiava, beato, pin in alto, tra le guglie della cattedrale?<br />Non gli restò che rifugiarsi in questo lapidario commento:“Vivaddio che non volano le mucche”.<br />Non so perché ho citato questa storiella.<br />Ma sono certo che una ragione ci deve pure essere.<br />Lascio a voi, se mai vi riesce, di scoprirla. </div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-45259518547369613742008-04-25T10:23:00.003+02:002008-04-25T23:40:40.449+02:00<div align="justify">Dio che viaggia in incognito<br /><br />“Adolf Hitler: respinto”<br />Queste parole che segnarono una profonda delusione nell’animo del giovane Adolf Hitler il quale aveva sognato, se mai fosse stato ammesso ai corsi dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, di diventare un grande artista, costituiscono l’<em>incipit</em> del romanzo di Eric-Emmanuel Schmidt, intitolato <em>La parte dell’altro</em>.<br />C’è un interrogativo che l’autore si è posto iniziando la narrazione: se Adolf Hitler fosse stato ammesso, non sarebbe possibile ipotizzare una storia diversa per quanto riguarda non solo la sua vicenda personale, ma anche la tragicità dei fatti che siamo stati costretti a registrare dopo l’avvento del Terzo Reich?<br />Per questo Schmidt, mentre ripercorre gli sviluppi imprevedibili che quella esclusione provocò nella fragile e tormentata psicologia del giovane Adolf Hitler, immagina un altro percorso, parallelo al primo, affidato a una sorta di controfigura: è la storia del pittore Adolf H di cui segue le vicende in un contesto di ambienti e di ambizioni borghesi,:a partire dal giorno della sua ammissione all’Accademia.<br />Si tratta dunque di un romanzo complesso sia per la struttura sia per le tensioni di ordine morale che innervano la narrazione.<br />Devo confessare che da tutto questo travaglio creativo e speculativo che ha portato l’autore a interrogarsi sul mistero della libertà interiore dell’uomo, arrivando a formulare questa inquietante verità: “Hitler è una verità nascosta nel profondo di noi stessi che può risorgere in qualsiasi momento”, ho mutuato questa semplice curiosità che non cessa di interpellarmi da quando ho terminato la lettura: “Non potrei trovare anch’io, nel mio passato, qualche fatto imprevisto e tanto meno voluto che sia stato decisivo nel determinare il corso della mia vita?”.<br />Uno snodo importante mi pare di poterlo rinvenire nelle vacanze di II Media, quando mi trovai a frequentare lezioni private in vista di esami che avrei dovuto sostenere nella sessione autunnale.<br />Che ragione c’era di sottopormi a questo lavoro supplementare visto che la pagella di fine anno era stata salutata con grande soddisfazione da tutta la famiglia?<br />La decisione era stata presa da mio papà il quale, per le ristrettezze economiche in cui ci si trovava, aveva pensato di farmi guadagnare un anno presentandomi come privatista alla sessione di esami autunnale. <br />A salvarmi da questa manovra che m’avrebbe privato delle mie abituali amicizie è stata una provvidenziale circolare del ministero che, annullando le disposizioni precedenti, mi restituiva al mio normale iter scolastico.<br />Ma ora mi domando: “E se fosse mancata quella circolare?”.<br />Non mi è difficile immaginare quale sarebbe stato il mio futuro.<br />Mi vedo iscritto ai corsi di ragioneria presso l’Istituto Schiapparelli di Milano, che mio fratello ha già preso a frequentare; poi, una volta conseguito il diploma?<br /> Non mi pare di poter immaginare una sostanziale differenza di vita rispetto a quella dei miei vecchi compagni di scuola entrati molto presto, alcuni appena dopo le elementari, in qualche bottega artigiana per imparare un mestiere alla scuola del padre, in attesa di formarsi a loro volta una famiglia.<br />Qualcuno mi potrebbe chiedere: e la vocazione a diventare prete?<br />Nelle vacanze di II media non avevo ancora maturato alcun desiderio di entrare in seminario.<br />Per la verità., anche nella vacanza successiva, non ricordo di avere avvertito una particolare chiamata (ciò che comunemente si intendeva per vocazione), eppure mi sono trovato in seminario.<br />Avevo o no allora la vocazione a farmi prete?<br />Su questo problema sono stati i superiori stessi del seminario a chiarirmi le idee quando mi è capitato nel corso degli anni di sentirli ragionare (un po’ brutalmente, per la verità) press’a poco così: “La vocazione uno non può dire di averla o di non averla.<br />Tutto infatti dipende dal giudizio dei superiori. Se essi, a nome del vescovo, ti vogliono prete, puoi dire di avere la vocazione, se non ti vogliono e un giorno ti trovi fuori le mura del seminario, è perché la vocazione non ce l’hai, anche se tu protestassi di sentire dentro di te una voce che ti chiama….”.<br />Fu così che nel 1955, sopravvissuto alla severa selezione operata dai superiori nel troppo folto numero degli aspiranti al sacerdozio ( si era 160 nella sola IV ginnasio, la classe che mi accolse al mio ingresso in seminario), potei essere ordinato prete.<br />Non mi fu peraltro risparmiata l’esperienza di trovarmi fuori le mura del seminario.<br />Ma questo avvenne più tardi, quando già insegnavo latino e greco nel liceo di Venegono.<br />Di questa mia disavventura ho già parlato in una delle pagine più recenti di questo blog (v. <em>Le cinque piaghe della Santa Chiesa</em>) e, prima ancora, nel mio <em>Abito rosso</em>.<br />Certamente il fatto di vedermi respinto da una cattedra così prestigiosa a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico dovette procurare molta tristezza a quanti si auguravano, viste le premesse, una mia rapida carriera anche nella nomenclatura ufficiale della diocesi.<br />Anche per me, che pure non avevo mai coltivato sogni di gloria colorati di rosso, quei giorni, è facile capire, furono molto amari.<br />Finito sul libro nero della curia la cui memoria sapevo quanto fosse tenace, mi vedevo preclusa la possibilità di entrare, di lì a qualche anno, nella vita pastorale come responsabile di una comunità parrocchiale..<br />E pertanto non avrei potuto godere neppure di quel piccolo trionfo che aveva ottenuto in quegli anni un rettore del seminario, il giorno del suo ingresso in parrocchia.<br />Essendo piccolo di statura, solo pochi avevano avuto il privilegio di seguire i suoi passi tra due ali di folla festanti, mentre agli altri non restava che condividere il giudizio raccolto dalla voce di una donna devota.: “Ci hanno mandato proprio un santo, visto che s’è fatto tutto il percorso in ginocchio, dall’ingresso in chiesa fino ai piedi dell’altare maggiore”.<br />Sorrido ancora al pensiero che, essendo piccolo come lui, avrei potuto godere anch’io di tale simpatica accoglienza.<br />Ma non era più tempo, allora, di indugiare sulla strada della fantasticheria..<br />Lasciata la pace piuttosto ovattata del seminario, protetta all’intorno da un vasta brughiera, mi sono trovato all’improvviso proiettato nel turbinio della grande città, in mezzo alle tensioni che preannunziavano le grandi lotte del ‘68 soprattutto nel mondo della scuola.<br />Trovandomi nei pressi della Cattolica, la<em> mia</em> università, potei seguire da vicino le prime rivendicazioni del movimento studentesco guidato da Mario Capanna, come pure i primi sussulti di contestazione ecclesiale promossi da un certo Schianchi, un altro studente della Cattolica che credo provenisse da Parma.<br />À me pareva di respirare finalmente un’aria di tonificante libertà che mi rendeva ancora più sgradevole e insopportabile il clima che regnava nel collegio arcivescovile a cui ero stato assegnato.<br />Che cosa avrei dovuto fare per ritagliarmi uno spazio di libertà personale all’interno di una situazione rigidamente governata dalla paura di ogni novità?<br />La prima mossa è stata quella di affrontare l’esame di abilitazione e di iscrivermi poi nelle graduatorie del provveditorato per ottenere un insegnamento statale.<br />E qui devo dire che si è verificato un altro snodo importante della mia vita, con il rischio, questa volta, di vedermi non soltanto fuori le mura del collegio, ma di trovarmi anche escluso dall’elenco ufficiale dei presbiteri al servizio della diocesi.<br />Vale la pena di richiamare in rapida successione i fatti che mi hanno coinvolto in prima persona. Nell’ottobre del 1972 ricevo dal provveditorato l’incarico per l’ insegnamento di italiano nel liceo classico Beccaria.<br />Trattandosi di uno spezzone di sole quattro ore settimanali che mi è facile sistemare senza nulla togliere al mio normale lavoro in collegio, accetto senza alcuna esitazione.<br />Il problema mi si pone invece in prossimità dell’anno scolastico successivo, quando dal provveditorato vengo invitato ad assumere l’orario di insegnamento completo.<br />Conosco il rischio di una decisione presa senza la debita autorizzazione dall’alto.<br />Che fare?<br />A togliermi da questa situazione, a dir poco imbarazzante, mi arriva proprio in quei giorni una lettera di mons. Bertoglio il quale, come vicario responsabile dei collegi arcivescovili, mi impone in modo perentorio una scelta: o stare dalla parte del collegio, rinunciando a ogni insegnamento esterno, o dalla parte della scuola pubblica, rinunciando all’ospitalità di cui godevo in collegio.<br />A me non pare vero di poter fare la scelta desiderata anche se di ritorno dal provveditorato trovo ad attendermi il rettore del collegio il quale mi accoglie con queste fredde parole: “Da domani puoi lasciare il collegio”.<br />Come a dire: “Da domani non c’è più posto per te in collegio”.<br />Non mi resta che chiedere udienza al cardinale, anche se, per l’aria sessantottina che mi ritrovo addosso, non posso aspettarmi da lui una grande comprensione.<br />Ma qui devo riconoscere che il mio cardinale, una volta ascoltate le mie ragioni, ha abbandonato il tono severo iniziale permettendosi perfino un bonario commento alla lettera di mons. Bertoglio:<br />“Mons. Bertoglio? E’una gran brava persona, ma farebbe bene a dire qualche rosario in meno e a riflettere di più quando deve scrivere una lettera”.<br />E tutto si chiude nel modo più conciliante: “Vedi, io non ti avrei mandato nella scuola pubblica, ma, dato che già ci sei, ti mando con la mia benedizione”.<br />Ho seguito finora certe svolte critiche del mio percorso esistenziale in cui il caso ha giocato un ruolo importante, a volte decisivo.<br />Che cosa rappresenta per me il caso?<br />Confesso che anche per me, quando ne parlo in modo superficiale, esso non è altro che qualcosa di bizzarro e di irrazionale in grado di sommuovere progetti e previsioni anche se elaborati secondo criteri di provata affidabilità.<br />Per gli episodi che ho narrato della mia vita e per altri che mi sono capitati in tempi successivi, il mio commento immediato potrebbe essere questo: “Il caso ha voluto che…”.<br />Se non che ho trovato recentemente una definizione del caso che mi ha fatto riflettere molto.<br />È custodita in un piccolo aforisma che ho visto citato in un’opera di Michel Tournier:<br />“Il caso è Dio quando viaggia in incognito”.<br />“Un Dio in cammino, un Dio che passa”:. Il rapporto non è con un Dio lontano, chiuso nella sua inarrivabile perfezione, ma con un Dio che sempre ci sorprende con innumerevoli passaggi sui sentieri della nostra esistenza.<br />E sono passaggi, quelli di Dio, che non amano la piena visibilità, ma piuttosto l’arte della dissimulazione e della discrezione.<br />Questo non significa che ci manchino i segni per riconoscere la sua presenza.<br />Solo che si tratta di segni leggeri, affidati all’intuizione del cuore. <br />Vien fatto di pensare al modo con cui Cristo, il risorto, si fece riconoscere dai due discepoli sulla strada che da Gerusalemme portava verso Emmaus.<br />“Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?”: ecco il segno rivelatore di una presenza misteriosa che Cleopa e il suo compagno all’inizio non avevano potuto percepire.<br />Anche a me - è una testimonianza che a questo punto sento di dover dare – è capitato di avvertire all’interno di situazioni confuse che immediatamente mi sembravano determinate dal caso, il battito di una presenza nascosta riconducibile a quel Dio che ama passare in incognito.<br />E se mi soffermo ad auscultare meglio queste sensazioni, mi pare di poter dire che Dio abbia voluto significarmi la sua presenza attraverso il gusto della libertà e il dono dell’amicizia.<br />La libertà l’ho cercata assiduamente e l’ho custodita gelosamente tutte le volte che mi è stato concesso di gustarne il sapore.<br />Devo riconoscere di avere sempre avuto un temperamento un po’ ribelle nei confronti dell’autorità, soprattutto se questa mi si presentava con un prestigio indebito, viziato cioè da tante forme di arrivismo e di vanità.<br />Si possono perciò capire certe mie impuntature nei confronti della figura del monsignore (v. <em>Abito rosso</em>), assunta come emblema di una ambizione che porta a ottenere qualche riconoscimento esteriore, rinunciando però al pieno esercizio della propria libertà.<br />Si sa infatti quello che succede anche nella chiesa: se uno vuole emergere, sopravvanzare, occupare un posto di responsabilità, deve sempre controllare ogni sua parola e ogni suo gesto; in particolare non deve mai essere motivo di scandalo per nessuno, anche se Gesù ci ha insegnato a scandalizzare i potenti di questo mondo.<br />A questo punto vorrei che fosse chiara la ragione che mi ha tenuto lontano dal mondo della competizione in vista di una possibile carriera: non si tratta di una spiccata comprensione del valore dell’umiltà che gli amici vorrebbero riconoscermi, ma di una raffinata forma di egoismo: ho voluto a tutti i costi salvare la mia libertà.<br />Nel mio diario di qualche anno fa, a proposito di ciò che mi sarei augurato all’inizio di un nuovo anno pastorale, esprimevo il desiderio di sentirmi sempre libero, libero di pensare, di giudicare, di entrare in rapporto con tutti, anche con chi non condivide la mia fede, con quello spirito di simpatia che dovrebbe unire tutti quelli che, pur muovendosi su strade diverse, cercano qualcosa che trascenda la dimensione opaca dell’esistenza.<br />Devo dire che non è facile vivere da liberi pensatori all’interno di una comunità cristiana, ma posso aggiungere che mi basta a volte aprire il vangelo per sentirmi incoraggiato a superare i sensi di colpa e di solitudine: non è forse vero infatti che il vangelo è un continuo appello alla libertà di cui il Signore non si è stancato di trasmetterci la bella notizia?<br />Un’altra traccia del passaggio di Dio nella mia vita è – come già ho avuto modo di segnalare – il profumo dell’amicizia.<br />Nel<em> Diario</em> di Julien Green ho ritrovato questo pensiero meraviglioso:<br />“Se dovessi partire questa sera e mi si domandasse che cosa mi ha maggiormente commosso in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini.<br />Tutto si perde nell’amore”.<br />Perciò il segno più trasparente di questa presenza segreta di Dio nella nostra vita è il dono dell’amicizia.<br /> Vorrei celebrare anch’io l’amicizia, come hanno fatto in tempi recenti padre David Maria Turoldo, padre Nazareno Fabretti, don Michele Do i quali ne hanno parlato come se fosse il primo sacramento oppure l’ottavo sacramento, una realtà cioè che dischiude e conferma il mistero di un Dio che si è fatto prossimo a ciascuno di noi.<br />Vorrei celebrare anch’io l’amicizia soprattutto ora che, lasciato il ministero attivo, vedo moltiplicarsi gli amici attorno a me.<br />Amici vecchi e nuovi, amici conosciuti per caso: non c’è mattina che non sia rallegrata dalla visita di qualche persona amica. <br />A che debbo il profumo dell’amicizia che mi pare di avvertire nel corso di questi incontri?<br />E’proprio vero: “il caso è Dio quando viaggia in incognito”; il quale Dio, essendo amore, non può che privilegiare, come segni rivelatori della sua presenza, le stupende liturgie dell’amore.<br /><br /> </div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-60372974190250934912008-03-04T09:22:00.004+01:002008-03-06T09:20:59.688+01:00A padre Camillo<div align="justify">24 febbraio<br /><br /><em>"Eheu fugaces (…) labuntur anni”<br /></em>Il lamento oraziano sugli anni che fuggono via veloci vale – sia chiaro - per noi, poveri <em>”tristanzuoli e lanternuti</em>”, che ci sentiamo “<em>come d’autunno sugli alberi le foglie</em>”, mentre tu te ne stai “<em>come torre ferma che non crolla giammai la cima per soffiar de’venti”.</em><br />Attraverso queste poche reminiscenze letterarie vorrei dirti quanto grande sia la mia ammirazione nel giorno in cui gli amici si stringono attorno a te per festeggiare la freschezza dei tuoi novant’anni.<br />Mi piace ricordare i tuoi silenzi eloquenti, il tuo sguardo vivo e penetrante, le tue apparenti assenze nel corso di una conversazione, presto contraddette da qualche intervento particolarmente puntuale e folgorante: immagini queste e impressioni che, raccolte negli incontri iniziati tanti anni fa nella casa ospitale di Lillo Santucci a Guello, avvalorano sempre più in me il privilegio di poter godere della tua amicizia.<br />Ma proprio per la confidenza che si è creata tra noi, vorrei segnalarti – me lo permetti?- una tua indelicatezza, sia pure involontaria, nei confronti di una gentile ammiratrice la quale, tanto tempo fa, rimase talmente conquistata da una tua omelia che, appena terminata la celebrazione, si precipitò in sacrestia con la speranza di averne il testo.<br />“Non posso: le mie omelie saranno pubblicate postume” fu la tua risposta, data, pare con un tono alquanto asciutto.<br />Al che la signora candidamente replicò: “Speriamo che sia presto”.<br />Penso a quella signora e alla sua lunga attesa che da quel giorno (saranno passati oramai più di trent’anni) pazientemente si protrae nel tempo.<br />Che avessero ragione gli amici, quando amabilmente ti diedero il soprannome di padre <em>"omissionario"?</em><br />Ma sono io il primo a mandarti assolto da questa inadempienza.<br />Non si può essere perfetti in tutto.<br />Soprattutto quando, per non voler deludere una persona, si corre il rischio di doverne deludere mille altre.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-48993910200022848632008-02-20T14:56:00.001+01:002008-02-20T15:04:31.153+01:00Una grandezza nascosta (29 gennaio)<div align="justify"><br />Leggendo oggi il <em>Corriere</em> ho trovato un paginone dedicato ai malati di parkinson<br />Mi ha colpito in particolare un servizio che portava questo titolo: “Da Wojtyla a Dalì, il male dei grandi”<br />Mi ha colpito, ma sarebbe bene precisare: mi ha contrariato, urtato, indispettito.<br />Mi sono detto:“Se è vero che il parkinson è il male dei grandi, che c’entro io con questa malattia?”.<br />Posso capire che nell’elenco delle persone citate figurino i nomi di Papa Wojtyla, del mio carissimo card. Martini come pure quello di mons. Maggiolini, vescovo di Como, che tante volte ha avuto l’onore di comparire in televisione nel prestigioso servizio di Bruno Vespa, <em>Porta a porta,</em> ma uno come me che neppure può fregiarsi impunemente del titolo di monsignore, avrebbe dovuto sentirsi al riparo da questa malattia.<br />Che sia sbagliata la tesi sostenuta nel <em>Corriere</em>?<br />Un giornalista, per di più del <em>Corriere</em>, non può dire cose che non siano fondate.<br />E allora non mi resta che denunciare la grave ingiustizia che mi è stata fatta.<br />“No, non è giusto!”mi dico. "Io mi ribello. Qui c’è un abbaglio colossale. A meno che…”.<br />Mi sorge un dubbio.<br />E se godessi di una grandezza nascosta, per nulla appariscente, così ben dissimulata da non averne la benché minima consapevolezza?<br />Devo perciò impegnarmi a scoprire quest’altra identità, per spiegarmi come possa essere stato cooptato nella famiglia eletta dei parkinsoniani.<br />Ho scritto un <em>Elogio della piccolezza</em>.<br />E gli amici sanno della mia predilezione per la semplicità dell’asinello, assunto da me come emblema di una vita evangelicamente realizzata.<br />Non potrebbe essere stato (cerco di indovinare) proprio l’amore per le cose che non contano a segnalare il mio caso a chi dall’alto dispensa i percorsi da seguire secondo una logica non sempre facilmente accertabile?<br />Mi rimane da scoprire se e in che misura il “male dei grandi” possa essere inteso come un privilegio oppure come una prova particolarmente severa.<br />E qui mi si affaccia un’interpretazione che può sciogliere qualche nodo di troppo e consentirmi una comprensione più pacata e pacificante della mia condizione.<br />ll parkinson è il “male dei grandi” perché permette di seguire un cammino che può portare alla vera grandezza dell’uomo.<br />E’ vero: quel “lui” (mister Parkinson) di cui ho già parlato lo sento spesso come un essere ingombrante, dispettoso, impiccione.<br />Ma il fatto di rallentare i miei movimenti e di isolarmi nel corso di una conversazione mi offre l’opportunità di approfondire certe riflessioni che hanno bisogno di grandi silenzi per diventare motivi di immensa consolazione.<br />Ricordo, a questo proposito, con quale passione il carissimo amico don Michele Do richiamasse le parole del vangelo, di Agostino, di Gandhi sulla necessità di abitare dentro gli spazi della propria interiorità per ascoltare dalla voce del cuore verità che contano veramente.<br />“<em>In interiore homine habitat veritas</em>”diceva con il grande Agostino.<br />Perciò sentiva di dover condividere anche il suo invito a rientrare in se stesso: <em>In te ipsum redi</em>.<br />Liberato dalle urgenze del fare mi trovo particolarmente favorito in questa discesa nel profondo della interiorità dove mi è dato di sognare e di contemplare, di apprezzare le piccole .gioie che la vita dispensa ogni giorno, senza essere distratto da tante futilità, di sentirmi in pace con gli altri, ma anche con il mio passato, riscoprendo e conservando della vita soprattutto il profumo di bontà di qualche volto che ho incontrato.Se poi mi fosse concesso di contemplare “quel” volto, potrei dire anch’io, come il vecchio Simeone: “Ora lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola”.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-75013813695211801312008-02-16T18:46:00.000+01:002008-02-16T18:51:51.767+01:00Per dire grazie<div align="justify"><br />Ovada, Masone sono nomi che mi resteranno nella memoria come i nomi di Jena, Lipsia, Austerlitz dove Napoleone vinse le sue gloriose battaglie.<br />Perché Ovada e Masone godono ai miei occhi dello stesso prestigio delle grandi imprese napoleoniche?<br />Perchè è lì che mi sono misurato con le forze scatenate della natura riportandone una vittoria che in certi momenti mi era sembrata impossibile.<br />Ecco in rapida sintesi ciò che meriterebbe di essere trattato con i toni della più alta poesia epica.<br />Ore 13 di martedì 4 febbraio: caricati i bagagli, si parte per Ospedaletti dove, come ogni anno, a carnevale, spero di trovare il clima mite di una incipiente primavera.<br /> Il viaggio sull’autostrada per Genova non presenta particolari problemi.<br />La leggera pioggia che m’accompagna mi sottrae al rischio, ben più preoccupante, della nebbia.<br />Se non che, una volta imboccata la deviazione per Ventimiglia, lo scenario volge decisamente al peggio.<br />Vedo. in lontananza, nuvolaglie enormi e compatte sostare immobili sulle pendici del Turchino, mostruosamente nere e oscenamente gravide di chissà quali minacce.<br />E’ questione di pochi minuti e tutto si oscura davanti a me: che sia già entrato nel ventre della bufera come Giona nel ventre della balena?<br />Riesco solo a leggere su un pannello luminoso questa scritta: PIOGGE INTENSE FINO A OVADA.<br />Hanno ragione di usare il plurale:si tratta infatti di scrosci a ripetizione, improvvisi e violenti, separati l’uno dall’altro da una piccola frazione di tempo.<br />Avranno ragione anche nell’indicare Ovada come termine estremo di questo furioso accanimento contro la mia povera vettura che già arranca faticosamente sulle prime salite che portano al Turchino?<br />Intanto sale la tensione anche all’interno della vettura, visto che il passeggero che mi sta al fianco non smette di trasmettermi sempre più nervosamente segnali che dovrebbero facilitarmi la guida in quella critica congiuntura (vedo le sue mani agitarsi in continuazione come quelle di un grande direttore d’orchestra) fino al momento in cui, non potendo più comprimere l’ansia, cerca di sdrammatizzare la situazione con questa battuta: “Finalmente qualcuno ha pensato di lavarti la macchina”.<br />Ero tentato di chiedergli: “Perché non mi canti il famoso motivetto di Rascel: ‘E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale?’ Credo che farebbe bene sia a me che a te”.<br />Devo riconoscere a questo punto il perfetto funzionamento della segnaletica autostradale.<br />Le intense piogge in prossimità di Ovada erano infatti cessate, come da copione, ma c’era ben poco da rallegrarsi dal momento che un nuovo pannello luminoso mi annunciava la presenza di nevischio fino a Masone.<br />“Nevischio?” mi dicevo – “Ma dove è mai?”<br />Guai a provocare il nemico che ti aspetta al varco.<br />Il nevischio non si è fatto attendere segnalato da un brusio che si infittiva sempre di più fino a rendersi visibile attraverso un sottile velo bianco che intanto si andava formando sulla strada.<br />Mi ci volle poco a capire che dal nevischio si era passati alla neve e che per me la situazione si faceva ancora più delicata.<br />Senza gomme da neve e senza catene, che cosa avrei potuto opporre alla nuova e più grave minaccia?<br />Ho sempre odiato la neve, più che la nebbia, da quando una sera - ero ancora fresco di patente - sulla strada che m’avrebbe riportato in seminario mi ritrovai con la macchina rigirata in senso contrario, per l’impossibilità di governare i suoi movimenti su quel manto nevoso.<br />Ora non mi restava che procedere con grande prudenza cercando di mettere le mie ruote nei solchi lasciati dalla macchina che mi precedeva, augurandomi che non le succedesse di arrestarsi per non essere coinvolto in qualche spiacevole disavventura.<br />Si ostinasse pure il mio compagno di viaggio a gridarmi: “Metti la terza….Non vedi che i vetri si appannano ...Non potresti sostare un poco nella prossima galleria?...”.<br />Per conto mio ero talmente concentrato nella guida che ascoltavo solo il mio istinto, accarezzando peraltro l’idea di fermarmi non in galleria (già, come se fosse possibile senza intralciare pericolosamente il traffico), ma presso il più vicino posto di ristoro.<br />Se non che, come saggiamente ammonisce un detto popolare, l’uomo propone, ma è il cielo che dispone.<br />E il cielo dimostrò di non avere ancora esaurito tutte le sue potenzialità aggressive.<br />Fu proprio all’uscita di una galleria che mi si accesero davanti agli occhi due lampi, seguiti da un cupo brontolio.<br />“Sta’a vedere che ora si mette pure a grandinare”.<br />E questa volta, senza alcun preavviso, sopraggiunse una tempesta di grandine così violenta (pareva che le nuvole fossero venute tutte a sgravarsi completamente sul mio percorso) che, arrivato in prossimità del posto di ristoro dopo Masone, decisi di proseguire.<br />Sostare infatti voleva dire aggravare una situazione già estremamente rischiosa. Dove avrei potuto mettere i piedi per terra senza correre il pericolo di scivolare?<br />E come mi sarebbe stato possibile difendermi dalle sferzanti carezze della grandine?<br />“Ero tra due fuochi”avrei potuto dire anch’io con le parole che un mio lontano alunno aveva usato (oh beata ingenua incoscienza!) per descrivere in un tema una situazione analoga alla mia.<br />Questo ricordo mi addolcì, sia pure di poco, la tristezza del momento.<br />Sentivo comunque che il peggio stava passando e che pertanto potevo salutare la mancata sosta con questo breve, patetico discorso: “Addio a voi, toilettes accoglienti e ospitali, che al viandante provato da una troppo lunga attesa sapete offrire la vostra discreta e dolce complicità: addio!<br />E addio anche a te, fumante tazza di cioccolata calda a lungo vagheggiata ed ora cancellata da un destino veramente avverso: addio!”.<br />Per il resto del viaggio, nulla di rilevante da segnalare. Oramai ad accompagnarmi era una pioggia continua fino a Sanremo, dove, lasciando l’autostrada, mi apparve all’improvviso il cielo in direzione di Bordighera tutto macchiato di un rosso vivo: era il sole che al tramonto cercava di farsi largo tra le nuvole ancora dense, promettendo un tempo splendido per i giorni a venire.<br /><br />P.S.<br />Perché questa lunga pagina dedicata a un fatto pressoché inconsistente?<br />Lascio al lettore di scorgere le motivazioni nascoste, frugando anche nel mio inconscio.<br />Per parte mia l’ho intesa come un’occasione per dire grazie.<br />La preghiera di ringraziamento non ha bisogno di occasioni particolarmente solenni, se è vero che, come ebbe a osservare Bernanos sulla scorta della piccola Teresa di Lisieux, “tutto è grazia”.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-18296356929261273292008-01-17T15:37:00.000+01:002008-01-17T18:39:05.790+01:00<div align="justify"><em>Delle cinque piaghe della Santa Chiesa<br /></em><br />C’è un libro che, a distanza di più di 150 anni dalla sua prima apparizione, non ha cessato di inquietare e di confortare la coscienza di molti credenti.<br /><em>Delle cinque piaghe della Santa Chiesa</em> di Antonio Rosmini è veramente un libro profetico e perciò non meraviglia che abbia incontrato, insieme ad ampi consensi, anche molte resistenze e perfino aperte ostilità.<br />Ora che il suo autore è stato proclamato beato (con una solenne celebrazione che si è svolta a Novara domenica 18 novembre), ci si domanda: come mai l’autorità ecclesiastica è stata tanto severa da inserire questa opera nell’Indice dei libri proibiti? dove starebbe la sua presunta pericolosità?<br />Non ci sono infatti né errori dottrinali né posizioni aspramente critiche nei confronti dell’autorità, ma accorati appelli alla conversione in nome di un’immagine di chiesa che Rosmini contemplava nella purezza delle sue origini e che vedeva poi tradita e crocifissa (da qui le <em>cinque piaghe</em> corrispondenti a quelle del Maestro sulla croce) nel corso della sua storia.<br />La ragione della condanna perciò, se da una parte è difficile da spiegare, dall’altra, alla luce degli sviluppi sul cammino della conversione che la chiesa ha maturato nella sua storia più recente, è molto semplice.<br />Si trattava di un’opera fortemente in anticipo sui tempi. Appunto: di un’opera profetica.<br />Basterebbe richiamare i principali temi presi in esame per capire come, pur con riferimenti a situazioni storiche ben diverse dalle nostre, i problemi affrontati rivelino un carattere di scottante attualità.<br />C’è, ad esempio, la delicata questione della nomina dei vescovi (è la quarta piaga) che Rosmini vorrebbe sottratta alle interferenze del potere statale e restituita al clero e al popolo secondo la più sana tradizione della chiesa.<br />Oggi tale diritto è pienamente rivendicato ed esercitato dalla chiesa, ma con quale partecipazione del popolo di Dio?<br />Ricordo che in uno dei diversi colloqui che ebbi la fortuna di avere con don Michele Do, mi colpì una sua pungente osservazione a proposito delle nomine dei vescovi in Italia .<br />“Sai .– mi disse - Ad ogni vescovo bisognerebbe chiedere: Che cosa hai sulla coscienza per essere diventato vescovo? Qualcosa devi avere: confessalo!”.<br />Un altro problema trattato da Rosmini è quello della educazione del popolo cristiano alla comprensione della parola di Dio, soprattutto nell’ambito delle celebrazioni liturgiche, perché queste non si riducessero a puro spettacolo intessuto di gesti vuoti e di parole mute.<br />Per questo auspicava una maggiore preparazione culturale del clero, e, senza mettere in discussione l’uso del latino, voleva che la comunicazione fosse resa più efficace mediante opportune versioni dei testi in lingua volgare.<br />Ricordo l’emozione che provai la prima volta che ebbi questo testo tra le mani (dovevo essere in III teologia), anche perché, per ottenerlo in prestito dalla biblioteca del seminario, avevo dovuto sottoscrivere una domanda indirizzata niente meno che al Papa, della quale non avrei più dimenticato la curiosa formula conclusiva: “Prostrandomi al bacio della sacra pantofola ...”<br />Questo bacio non venne più richiesto di lì a qualche anno, quando, nel fervore delle novità conciliari, fu soppresso l’indice dei libri proibiti e pertanto il testo di Rosmini, finalmente liberato dalle strette della censura ecclesiastica, potè essere accolto e riconosciuto come una delle voci che più autorevolmente avevano saputo ispirare e anticipare i lavori del concilio.<br />Unanimemente, salvo che nel seminario di Venegono, dove insegnavo.<br />Mai avrei potuto immaginare che il mio rapporto con l’opera di Rosmini avrebbe avuto per me sviluppi strani e, in larga misura, imprevedibili.<br />Ricordo che durante l’estate del 1967 venni invitato dal Rettore Maggiore a tenere alcune lezioni di letteratura contemporanea agli studenti di teologia.<br />Trattandosi di un lavoro straordinario che esulava dal mio normale impegno didattico, al termine del breve corso mi fu chiesto quale compenso, simbolico naturalmente, avrei desiderato.<br />Quale compenso più bello avrei potuto desiderare delle <em>Cinque piaghe della Santa Chiesa</em> di cui, dopo gli anni della condanna, era uscita da poco una edizione critica splendidamente curata da Clemente Riva?<br />La mia proposta venne accolta seppure, cosi m’è parso, con una malcelata contrarietà oppure, per dirla alla latina,: <em>obtorto collo</em>.<br />Di questa mia impressione ebbi conferma qualche giorno dopo quando (stava già per iniziare l’anno scolastico) venni convocato nello studio del Rettore Maggiore il quale mi comunicò che non avrei più insegnato nei seminari.<br />Era, in pratica, una formale estromissione dall’insegnamento.<br />Nonostante la strettissima connessione tra i due fatti, non credo che si potesse applicare, se non nel suo originale senso ironico, il detto latino: <em>post hoc, ergo propter hoc</em>. (dopo di ciò, quindi a causa di ciò).<br />C’erano altre e più articolate ragioni per motivare una decisione così severa.<br />Dovrei a questo punto accennare alla situazione di grave disagio che si era creata in quei tempi nei seminari milanesi, dove le novità conciliari avevano fatto circolare un’aria di libertà che metteva in crisi le vecchie strutture disciplinari.<br />E sul modo di affrontare la crisi si era delineata tra i superori una spaccatura con due fronti contrapposti: il primo formato dai difensori ad oltranza <em>dell’ancien régime</em>, l’altro per lo più da professori (pochi) che, sfidando il sospetto di voler allentare la disciplina dei seminari, privilegiavano la via del dialogo con gli alunni cercando di capire meglio le ragioni di certe loro insofferenze.<br />Del resto i seminaristi non chiedevano se non un linguaggio più aperto e trasparente, non più viziato da reticenze o da ambiguità, tanto che in quel tempo prese a circolare, inventata non si sa da chi, questa caustica osservazione: “Diceva la verità solo quando era a corto di bugie.<br />E quando era a corto di bugie, le inventava”.<br />Devo riconoscere peraltro che la persona presa di mira da questo irridente sberleffo era dotata di particolari capacità intuitive se è vero che riusciva a capire il tuo pensiero prima ancora che tu lo manifestassi.<br />Ecco perché non posso assegnare al libro di Rosmini un ruolo determinante nel mio allontanamento dal seminario.<br />Qualcuno a questo punto potrebbe chiedermi come abbia vissuto questa improvvisa disavventura.<br />Dato che non avevo le stesse qualità che avrebbero reso beato Rosmini, lì per lì ho adottato quella linea di difesa che è indicata da un famoso detto popolare lombardo:”<em>Lu me n’à dà, ma mi ghe nu dì”</em> (Lui me ne ha date, ma io gliene ho dette).<br />Con lo stesso spirito, ma in modo più sorridente, ho ascoltato le parole che il mio vecchio Rettore Maggiore mi rivolse (erano passati più di trent’anni dal nostro ultimo tempestoso incontro). Il giorno che venne nella mia parrocchia a celebrare il funerale di un sacerdote mio collaboratore e suo conterraneo: “E’ una provvidenza, mi disse, che sia morto il nostro caro don Egidio (<em>sic</em>), perché ci dà l’occasione di ritrovarci dopo tanto tempo”.<br />Ora che anche lui è passato a “miglior vita” e io mi appresto a raggiungerlo, che cosa dovrei aspettarmi da questo nuovo incontro?<br />Per il fatto di non essere beato come Rosmini, mi auguro una sola cosa: semplicemente di non essere accolto con le stesse parole usate al funerale di don Egidio. “E’ una provvidenza che tu sia…”.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-79017985251121144512007-12-13T19:36:00.000+01:002008-01-17T15:50:32.416+01:00I veri miracoli<div align="justify"><br />Una mia visita - mi era stato detto – sarebbe stata molto gradita.<br />Per questo mi sono affrettato verso la casa di A. R. C., una signora che ha maturato già una bella età (credo abbia superato i 90 anni) e che ora si trova ad affrontare i postumi di un'operazione per la frattura di un femore.<br />In seguito a questo infortunio è rimasta molto debilitata tanto che difficilmente lascia la camera da letto.<br />“Non collabora, non vuole proprio collaborare”, mi dicono le due figlie che l’assistono con un‘attenzione dolce e premurosa e me lo ripetono, con voce più sostenuta, mentre ci avviciniamo alla camera della madre.<br />Ma il rimprovero questa volta non arriva a destinazione perché la mamma è ancora assopita, in uno stato di dormiveglia da cui si ridesta solo dopo che le viene annunciata la mia visita.<br />La ritrovo con il pallore abituale del suo volto, ma, non appena mi ha riconosciuto, basta poco a restituirle uno sguardo che si illumina di un lieve sorriso, mentre la voce, per quanto flebile, riprende la dolcezza e la fluidità di un tempo.<br />Da quel letto, diventato una sorta di cattedra domestica, mi dispensa intuizioni e riflessioni attinte ad una superiore saggezza e filtrate attraverso lunghe ore di silenzio.<br />Ancora una volta ho l’impressione di non essere io a portare una nota di conforto, ma che sia lei a offrirmi motivi di grande speranza.<br />Il punto di maggiore intensità emotiva mi vien fatto di registrarlo quando, con grande naturalezza, fa scivolare nel suo discorso queste parole meravigliose: “I veri miracoli sono gli incontri con gli amici”.<br />Mi domando: si potrebbe celebrare l’amicizia in una forma più semplice e più toccante?<br />Nella verità di queste parole a me pare di cogliere echi e vibrazioni di un mondo affettivo che un Dio innamorato ha consegnato alle pagine dei vangeli e che autori come padre David Maria Turoldo e don Michele Do (cito tra i tanti questi cultori dell’amicizia perché sono gli ultimi che io ho potuto conoscere personalmente) ci hanno permesso di rivisitare con un cuore colmo di stupore.<br />Sono parole che mi suggeriscono anche il profumo del Natale, se è vero che attendiamo il miracolo di un Dio il quale viene tra noi a portare la gioia di sentirci amati.<br />Questo sentore di poesia natalizia lo ritrovo anche in un racconto che la stessa signora mi aveva fatto pochi mesi fa.<br />”Non ero ancora nata – mi diceva – quando il mio fratellino più piccolo, con la sua candida fede nei prodigi della Notte Santa, chiese per quell’anno alla mamma il dono di una sorellina. e la mamma, che sapeva di essere da poco incinta, si fece garante che il desiderio sarebbe stato esaudito, se solo fosse stato capace di aspettare oltre il Natale.<br />Fu così che, essendo io nata il 24 giugno, giorno della festa di S. Giovanni Battista, quel mio fratellino, che proprio in quel giorno festeggiava il suo onomastico, prese a volermi un bene immenso vedendo in me, finché visse, un segno della benevolenza divina”.<br />Nessun commento a questo stupendo racconto.<br />Mi permetto solo di ricordare il lieve fremito di commozione con cui mi veniva trasmesso.<br />E mi auguro che la stessa commozione arrivi al cuore di tutti.<br />E sia quel cuore di fanciullo che il Natale ci fa riscoprire: un cuore intuitivo aperto alla dimensione dell’invisibile e alla presenza nascosta dell’Amico.</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-88581103146142487902007-12-04T11:11:00.000+01:002007-12-04T20:39:57.745+01:00Io e lui.<div align="justify">Io e lui.<br />Io sono io. E lui , chi è mai?<br />Nessun rapporto con il <em>lui</em> che Moravia ha posto al centro di uno dei suoi ultimi romanzi.<br />Neppure la più lontana parentela.<br />E’ un <em>lui</em> che da qualche anno mi sta accanto assiduamente, ma anche molto discretamente, tanto che non sono ancora riuscito a visualizzare i tratti del suo volto, anche se mi capita di immaginarlo come un distinto signore, capace di dissimulare molto bene i suoi pensieri.<br />Qualcuno mi potrebbe chiedere: “Ma ti sarai fatto almeno un’idea della sua indole e delle sue intenzioni”.<br />Senza dubbio. La mia ormai lunga frequentazione mi permette perfino di definire certi suoi stati d’animo e di parlare di certe sue piccole manie. Diciamo pure: degli hobby di cui si compiace.<br />Se uno mi chiede: “Come stai?”, rispondo citando alcuni versi di Ungaretti, gli stessi di cui si è servito recentemente Enzo Biagi (in questo mi ha copiato!) .<br />Direi: “<em>Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie</em>”.<br />Ma se uno mi chiedesse: “Come sta?”, allora la mia risposta è più immediata e meno allusiva.<br />Mi capita di rispondere: “Sta bene (<em>lui</em>). Lo trovo in piena forma. Da quando lo conosco non ha mai avuto un momento di crisi”.<br />E prolungando il discorso avrei voglia di offrire altre informazioni su questo strano personaggio.<br />A volte, dietro le sembianze di perfetto gentleman inglese, si nasconde un tipo piuttosto dispettoso e burlone.<br />“Come a dire?”<br />Succede infatti che, mentre sto parlando, lui si diverte a distrarmi, a scompigliare i miei pensieri, a incepparmi le parole.<br />E quando sto camminando tranquillamente, senza sospettare alcun inconveniente, tenta perfino, con qualche sgambetto improvviso, di farmi ruzzolare per terra.<br />Su queste mie avventure-disavventure mi sono permesso una confidenza anche a Bose, la domenica di ottobre in cui io e don Angelo Casati fummo accolti con grande simpatia dalla comunità e da una folla di amici.<br />Quando toccò a me prendere la parola, portato dall’onda dei ricordi (voleva essere una chiacchierata a ruota libera) mi rivolsi a don Angelo con queste parole:<br />"Quanti ricordi, don Angelo, legati a quegli anni della nostra giovinezza vissuti a volte anche pericolosamente, con una punta di follia, come quando guidavi il tuo <em>Guzzino</em> sollevando tutte e due le mani dal manubrio e io dietro, sul sellino posteriore, supplicavo: <em>Guarda che sono in peccato mortale</em>!”.<br />La stessa invocazione, con le stesse parole, la rivolgo ora a un certo signore (mi pare, ma non so bene, che si chiami Parkinson) che mi sta guidando lungo tornanti in discesa (e io odio la legge di gravità) e che mi fa temere quello che un proverbio famoso ci raccomanda di evitare:</div><div align="justify"> <em>Bacco tabacco e femore, riducono l’uomo in cenere</em>.<br />Certo qualche precauzione me la prendo contro le iniziative troppo dispettose del mio inseparabile compagno di viaggio.<br />Per certi percorsi ho adottato il bastone da passeggio che amo chiamare “il mio badante muto”.<br />A questo proposito mi ha rallegrato sapere che il piccolo Matteo, il nipotino che a me è particolarmente caro per la sua germinale fede interista, in questi giorni si è rifiutato di disegnare un pastore per il presepio perché – ha detto – “<em>manca lo zio con il suo bastone</em>”.<br />Mi chiedo dove mai mi potrà condurre questa avventura a due, segnata da un indissolubile vincolo di fedeltà.Forse con la sorte prefigurata nel proverbio citato, ma in questo caso mi auguro di avere la prontezza di ricordare le parole che in una favola famosa avrebbe pronunciato una tartaruga, dopo che si è vista rovesciata in un fosso (le riporto nella versione dialettale dell’amico Luigi Santucci):<br />" <em>Stanott, voltada inscì, hoo faa ‘na scoperta:</em><br /><em>mai hoo vist on spettacol insscì bell.</em><br /><em>Adess, che ghe sia el ciel son propri certa:</em><br /><em>finalment, finalment che vedi i stell…”.</em></div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-85202269636271299702007-11-27T21:37:00.000+01:002008-01-17T15:51:57.406+01:00Lunedì 12 novembre<div align="justify">Stamattina mi sono svegliato con le note di Beethoven, di Haydn, di Frescobaldi, di Scarlatti.<br />Non saprei dire quali fossero i brani musicali trasmessi dal programma “Terzo anello” di “Raitre”.e tanto meno sarei in grado di riferire qualcosa dell’ampio e avvolgente commento con cui la conduttrice del programma disponeva all’ascolto dei singoli brani.<br />In quella condizione di semitorpore in cui era piacevole attardarsi prima di riavere, si fa per dire, il pieno possesso delle proprie capacità percettive, solo una parola mi è rimasta impressa con tutto il fascino poetico che Leopardi attribuiva al linguaggio non puramente denotativo, ma allusivo.<br />Ho sentito infatti evocare la parola “infinito”, e subito ho provato una piccola emozione che via via si è fatta sempre più viva e coinvolgente.<br />Mi sono detto che se la musica ha il potere di dischiudere la dimensione dell’infinito, vengono a cadere tutte le meschinità, fatte di appropriazioni e di esclusioni, che siamo costretti registrare in altri ambiti della nostra quotidiana esperienza.<br />Cerco di spiegarmi meglio.<br />Il fatto che Frescobaldi o Scarlatti o Beethoven o qualsiasi altro genio musicale appartenga a una determinata area geografica o culturale interessa molto al fine di definire i dati costitutivi della personalità artistica di ogni autore, ma quando ascolto la loro musica, li sento come compagni universali di ogni essere che voglia ristorarsi alle sorgenti della più pura e sovrumana bellezza.<br />Non c’è ragione, in altre parole, di relegarli dentro precisi recinti di appartenenza, perché, quando si respira l’aria delle grandi altezze, si crea un senso di amicizia che travalica tutti i particolarismi e i campanilismi dettati dal nostro spirito possessivo.<br />Per contro è facile osservare che, discendendo dalle sommità abitate dalla dimensione dell’infinito verso realtà decisamente segnate dal “particulare”, le passioni degli uomini si accendono e si esasperano fino a praticare la violenza più sfrenata.<br />La riprova è data dai gravi disordini (la notizia l’ho avuta dal giornale radio di stamattina) che si sono verificati ieri in certi stadi e in diversi settori della capitale in seguito alla morte di un tifoso laziale.<br />Quando la fortuna di una squadra di calcio diventa un bene esclusivo da gestire con ogni sorta di interventi, anche al limite della legalità, lo spettacolo perde la sua funzione di intrattenimento rasserenante per diventare occasione di scontro tra opposte fazioni.<br />Perché non dovrebbe essere possibile assistere a una partita con l’animo sgombro dallo spirito di parte (il cosiddetto tifo) così da godere della bellezza del gioco, quale che sia la squadra che meglio lo esprime?<br />Posso confidare che, nonostante la mia irrinunciabile fede interista, mi è capitato più volte di vedere una partita lasciandomi conquistare unicamente dallo spettacolo che si svolgeva sotto i miei occhi, in cui mi era dato di ammirare ora la razionalità di una difesa impenetrabile, ora il guizzo estroso di certi attaccanti, e di interpretare la ricerca del goal come una piccola parabola esistenziale che rispecchiasse l’anelito dell’uomo a realizzare qualcosa di grande nella sua vita.<br />Ma credo che per assistere ad una piena pacificazione bisognerà attendere ancora molto, anche se non c’è da disperare.<br />Se è vero che ci sarà un giorno in cui il lupo e l’agnello pascoleranno insieme (Isaia 65, 25), perché non deve essere concesso di immaginare tifosi juventini allegramente mescolati con quelli interisti sugli stessi spalti, così quelli interisti mescolati con quelli milanisti in occasione di un derby, o quelli della Roma con quelli della Lazio…?<br />Speriamo.<br />Devo dire che nella quotidiana razione di tristezze che il notiziario dispensa ogni mattina, ho colto una breve notizia che mi ha molto confortato.<br />Secondo questa informazione, in Irlanda l’ultima fazione armata (pare del fronte protestante)<br />avrebbe deciso di deporre le armi..<br />L’Irlanda e stata teatro di sanguinose lotte fratricide, combattute per tanto tempo in nome di Dio.<br />Anche concedendo che il nome di Dio in queste lotte è servito spesso a mascherare altre ragioni non propriamente di ordine religioso, da quelle di ordine etnico a quelle di natura economica, rimane pur vero che lo scandalo è grave: ci sono persone che invece di convertirsi al fascino di un Dio che, come Padre di tutti, fa appello a un senso di universale fraternità, ne mortificano il sogno trascinandolo dentro le loro sanguinose contese.<br />Avrebbero dunque ragione quegli studiosi che vedono nelle religioni monoteiste la causa principale dei gravi conflitti che hanno segnato la storia dell‘umanità?<br />Per questo - dicevo - mi ha molto rallegrato la piccola notizia trasmessa dalla radio questa mattina.<br />E mi auguro che tante altre ugualmente consolanti possano seguire.<br />In particolare mi aspetto che cessi finalmente lo spettacolo vergognoso che le diverse confessioni cristiane continuano a dare in “Terra Santa” dove gli edifici di culto sono luoghi di conflitto.<br />A Betlemme ortodossi, armeni e francescani si contendono la basilica della Natività; a Gerusalemme il Santo Sepolcro vede la difficile coabitazione di cattolici latini, greci ortodossi, armeni, siriaci, copti.<br />Dio è il bene più grande, è amore universale. Perché non dovremmo aspettarci da lui quel senso di pacificazione che – come abbiamo osservato - riescono a offrire i grandi musicisti elevandoci con la loro arte al di sopra delle nostre meschine rivalità?</div>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-19555211959178096842007-10-24T22:58:00.000+02:002007-10-24T23:10:51.212+02:00*Spigolature 1 ottobre<div align="center"><em>“Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”<br /><br /></em>(preghiera di un contadino raccolta da don Michele Do)<br /><br />°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°<br />Che differenza c’è tra un ottimista e un pessimista?<br /><br />L’ottimista: <em>“Viviamo nel migliore dei mondi”<br /></em><br />Il pessimista: <em>“Penso, purtroppo, che questo sia vero”<br /><br /></em>°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°<br />Una confidenza: <em>“Penso che non vedrò mai più il lago di Carezza”<br /></em>Un amico: <em>“Ma no, che ti trovo ancora in buona salute”<br /></em>Replica: <em>“Cos’hai capito? È lui che non gode di buona salute”<br /></em></div><div align="center"><em>°°°°°°°°°°°°°°°°°°°<br /></em>Il tuttologo: <em>E’colui che sa tutto, ma solo quello<br /></div></em>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-929048681697143989.post-7188981833539263472007-10-02T22:45:00.000+02:002007-10-24T23:14:42.982+02:00La mia collezione di asiniPur essendo stato diverse volte in Turchia, non avevo mai saputo nulla di Hodja, un simpatico personaggio considerato come il portavoce della saggezza popolare di quella nazione.<br />Di lui si racconta (è un aneddoto che mi è capitato di trovare in una delle mie ultime letture) che un giorno, avendo perso l’asino, si mise a percorrere città e villaggi promettendo in dono il suo asinello a chi l’avesse trovato.<br />“Ma perché lo cerchi se poi sei pronto a privartene?”gli domandavano i passanti.<br />Hodja rispondeva: “E’ per la gioia di ritrovarlo”.<br />Questa breve storia esalta senza dubbio la straordinaria <em>pietas</em> di Hodja, ma al tempo stesso è un implicito riconoscimento della amabilità che l’asino custodisce sotto sembianze così umili e dimesse.<br />E’ questa la ragione che mi ha portato a riservare all’asino una attenzione particolare.<br />Chi entrando nella mia nuova casa volesse accompagnarmi nel mio <em>petit voyage</em> <em>autour de ma chambre</em>, rimarrebbe certo sorpreso nel vedere come l’angolo del mio studio dove abitualmente lavoro al computer sia tutto tappezzato di immagini di asini. Sono fotografie, incisioni, ceramiche, acquerelli ricevuti in dono da amici, da quando si è diffusa la voce della mia strana predilezione per questo animale.<br />Se poi volesse seguirmi fino al primo dei finestroni che danno luce all’interno, scoprirebbe sulla grande mensola che lo delimita un presepio fatto solo di asini, protesi verso l’esterno quasi ad aspettarsi un sorriso di simpatia dalle persone che eventualmente si trovassero a passare.<br />Ce ne sono di tutti i tipi: di peluche, di ceramica, di legno, di terracotta, di cartapesta, ciascuno con una sua storia particolare di cui si arricchisce il capitolo dell’amicizia che va acquistando un valore sempre più grande nella ma vita.<br />Intendo dire questo: ogni asinello mi richiama il nome della persona amica che me lo ha dato in dono, dopo averlo scelto pensando a me, per lo più in occasione di qualche viaggio turistico in paesi dove questo animale non è ancora in via di estinzione come pare succeda da noi.<br />È certo dunque che la mia collezione non esprime la maniacale passione del collezionista che si compiace di ogni nuova acquisizione per il semplice gusto di poterla esibire.<br />Qui c’è qualcosa che sfugge a una semplice ricognizione superficiale, perché è custodito nella memoria del cuore.<br />Ma se anche mancasse questo particolare rimando alle ragioni dell’amicizia, penso che a giustificare la mia collezione rimarrebbe pur sempre il rapporto di empatia che si è stabilito tra la mia esistenza e quella dell’asino.<br />Da quanto tempo? Non sapei precisare.<br />So soltanto che tutte le volte che mi è dato di incontrare un asino mi intenerisco facilmente contemplando il suo portamento dolce e mansueto, i suoi occhi pensosi e meditativi appena sfiorati da un velo d tristezza.<br />E mi è facile capire perché nel vangelo e nella tradizione cristiana l’asino venga celebrato come immagine esemplare di quella semplicità umile e docile che costituisce la vera grandezza davanti a Dio.<br />Ecco perché, pensando all’asino della Natività e a quello che accompagnò Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme, ho voluto esprimere un giorno tutta la mia affettuosa<br />partecipazione al mistero della piccolezza evangelica custodito da questa creatura così vicina al cuore di Dio:<br /><em>Asinello di Betlemme,<br />piccolo asino dal musetto bianco,<br />che cosa è rimasto in te di quella notte<br />popolata di luci e di canti?<br />Non ti ha sfiorato<br />la carezza degli angeli in volo,<br />il gemito dolce di un bimbo,<br />il vociare sommesso dei pastori,<br />il caldo belato degli agnelli,<br />il sospiro leggero di una mamma<br />nell’offrire il seno al suo piccolo nato?<br />No, tu quella notte,<br />forse stordito da troppe emozioni,<br />te ne stavi raccolto nell’ombra<br />che si faceva sempre più densa<br />e intanto forse sognavi,<br />sognavi come sogna un bambino,<br />i grandi occhi velati dal sonno,<br />il cuore a inseguire vagabondo<br />immagini sempre cangianti<br />e insolite stranezze di voci.<br />E sognando te ne andavi abbagliato<br />dallo splendore di una grande città,<br />portando sul tuo esile dorso<br />un uomo dal nome straniero,<br />così dolce, così mite,<br />così silenziosamente assorto<br />nelle parole che echeggiavano intorno<br />con accenti non ignoti al tuo cuore:<br />erano bambini o erano angeli a cantare<br />“Osanna nel più alto dei cieli”?<br />Asinello mio caro, mio dolce fratello<br />che ti ritrovasti al risveglio<br />gli occhi umidi di pianto<br />e gocce di lacrime a imperlarti<br />il tuo musetto bianco,<br />il tuo segreto sia anche il nostro<br />in questo andare errabondi<br />tra sogno e realtà, tra speranze e delusioni<br />e in questo nostro inconsapevole invocare:<br />“O tu, abbi pietà di noi!”.<br /><br /><br /></em>don Luigi Pozzolihttp://www.blogger.com/profile/12849175491189054079noreply@blogger.com3