giovedì 13 agosto 2009

Inter-ludio 4

Credo sia giunto il momento di spiegare perché ancora una volta mi sia servito della parola interludio per introdurre i miei pensieri vagabondi.
Confesso che fino a pochi mesi fa non mi era mai capitato di incontrare questa parola.
L’ho ascoltata la prima volta un mattino, al risveglio, quando, per uno strano gioco combinatorio dovuto al caso, mi sentii defraudato del mio solito programma radiofonico e prontamente risarcito con un altro programma di cui non conoscevo neppure l’esistenza.
Mi resi subito conto che la sostituzione mi offriva un vantaggio enorme.
Non mi sarebbe più capitato infatti di dovere iniziare una giornata con la tristezza di chi sia stato raggiunto da una serie di messaggi desolanti, come quelli che mi venivano dispensati dagli autori di Prima pagina, attingendo ai fatti più inquietanti e ai relativi commenti segnalati dalle prime pagine dei più autorevoli quotidiani nazionali.
Quella mattina, al mio risveglio, trovai invece un delizioso quartetto di Mozart e una preziosa informazione: la musica che avrei ascoltato era diffusa dal V canale della filodiffusione al quale era stato assegnato il compito di trasmettere solo musica classica, in continuazione, ventiquattro ore su ventiquattro.
E fu in quella occasione che la voce garbata di un’annunciatrice introdusse una parte del
programma usando la parola interludio.
Che cosa avrebbe dovuto significarmi questa parola?
Non mi sono preoccupato di consultare il vocabolario.
Interludio doveva essere per me una sorta di intermezzo musicale, quasi fosse un gioco che si proponesse di stemperare emozioni troppo intense in una trama di note gradevoli e sorridenti.
Ma che senso può avere quel trattino che segna uno stacco tra le due parole che hanno dato vita a questo intrigante inter-ludio?
Immagino il sorriso malizioso di qualcuno che conosce le mie passioni sportive e, in particolare, la mia incrollabile fedeltà nel seguire le vicende dell’Inter, che è sempre stata la squadra del mio cuore.
Proseguendo il mio piccolo voyage autour de ma chambre, potrei mostrarvi tante tracce di questa storia che dura oramai da più di sessant’anni.
Vi sarebbe facile riconoscermi in una gigantografia in cui compaio di spalle, con addosso la maglia dell’Inter contrassegnata dal mio nome e da un vistoso numero 50.
Ma toccherebbe a me spiegare come abbia ottenuto un omaggio tanto singolare.
E’ stato il giorno in cui venivo festeggiato per i miei 50 anni di sacerdozio che Enzo Bearzot, il grande commissario tecnico della nazionale campione del mondo1982, volle rendere manifesta a tutti la mia fede sportiva facendomi indossare, nel corso del pranzo comunitario, la casacca neroazzurra.
Da quel giorno le attestazioni di simpatia nei miei confronti, nel nome dell’Inter, si sono moltiplicate, tanto che ne verrebbe un elenco troppo lungo se pensassi di segnalare anche solo quelle più significative.
Non posso però non fare parola della epigrafe che su carta pergamena mi dedicò un grande amico, Franco Orcese, e che venne poi sottoscritta dagli amici più cari (si trova ora in bella evidenza
in un angolo della mia piccola cucina).
Essa suona così:

“Non è mai stato nero”
(filofascista mai!)

“Non è mai stato azzurro”
(berlusconiano mai!)
Ma sempre
“nero-azzurro”
(se anche l’Inter perdesse,
ma vincerà
“settanta” volte sette)

Accanto a questo scritto mi accorgo solo ora che ne esiste un altro, meritevole esso pure di essere fedelmente riprodotto.
Il testo è dovuto alla vena scherzosa di Lillo Santucci, impareggiabile nel commentare poeticamente, con il dono di un sorriso, le occasioni anche minime che sapeva riscontrare nella vita degli amici.
Le gustose quartine, che intendo citare, sono state scritte per una Liturgia di Capodanno 1997 e dedicate a me che già in occasione del Natale avevo avuto in dono un prezioso tampone con impugnatura d’argento:

1) Quel tampone per gl’inchiostri
che t’offriron Lillo e Bice
reca a te gli auguri nostri
per un anno più felice.

2) Asciugar ei si propone
nostre lagrime più afflitte
quando l’Inter fa il bidone
e racimola sconfitte.

3) Serva dunque da amuleto
alla squadra tua magnifica
e il tuo cuore faccia lieto
risalendo la classifica.

4) Ma se pur qualche domenica
farà mai l’Inter cilecca
e di reti sarà anemica,
c’è qualcuno che ci azzecca.

5) Ci sei tu, nostro Luigi,
………………
dall’altar, che fai prodigi
per noi vecchi tuoi tifosi.

6) Il tampon nostro pertanto
valga a te come SCUDETTTO,
simbol sia del nostro vanto
e del pallonesco affetto

7) che a te sempre ci affratella
nella FEDE che ci unisce
nella maglia ognor più bella:
quella a nero-azzurre strisce!

Mi chiedo se non sia eccessivo lo spazio che sto dedicando ad una “fede” tanto labile e inconsistente qual è quella riservata a una squadra di calcio.
Non sarebbe meglio se mi preoccupassi di problemi più seri?
Perché non denunciare, per esempio, sempre rimanendo nel mondo del calcio, il contrasto stridente tra il guadagno di un operaio specializzato o di un onesto professionista e le cifre folli che in questi giorni di calciomercato accompagnano la cessione o l’acquisto di qualche giocatore?
Confesso che c’è qualcosa di irrazionale nel prendere a cuore le sorti di una squadra di calcio, ma c’è pure una trama di amicizie che viene intessuta (un “affratellarsi” direbbe l’amico Santucci)
attraverso le tante occasioni di incontro offerte dalle vicende sportive della propria squadra.
Mi permetto perciò di citare per intero un mio scritto dedicato all’Inter (mi era stato chiesto da un simpatico gruppo di filointeristi in vista di una possibile pubblicazione di una antologia di memorie sportive).
Di questo scritto ho ritrovato recentemente, incisa su un cd, la magnifica interpretazione che ne aveva dato quel grande attore che fu Carlo Rivolta.
La sua voce calda, appassionata, vibrante di tenerezza o di sdegno l’avevamo conosciuta e apprezzata altre volte, tanto che si era creato fra noi un legame profondo e si può capire come la notizia della sua morte improvvisa abbia potuto suscitare vasto compianto nella nostra comunità..
Quella sera, nel cortile del chiostro della parrocchia aveva interpretato alcuni dei miei Pensieri Vagabondi (alla scelta aveva collaborato anche la moglie Nuvola con la sua straordinaria sensibilità umana) quando, salutato con un forte applauso, vedemmo Carlo accostarsi nuovamente al microfono e intonare con voce gagliarda: Monsignore tifa Inter!!
Ecco il testo di quell’inatteso fuoriprogramma:

Monsignore tifa Inter

Monsignore non ha mai indossato abiti rossi.
Il guardaroba personale non lascia alcun dubbio: le sue preferenze sono decisamente orientate verso altri colori.
Basti vedere la sciarpa che abitualmente porta nei mesi invernali o anche il pigiama e le babbucce che preferisce da quando gli sono stati regalati da un amico, dotato -è proprio il caso di dirlo- di particolare sensibilità intuitiva.
Perché non è facile sorprenderlo in pigiama e babbucce, qualcuno vorrà sapere (la curiosità sui monsignori pare non abbia limiti) quali siano gli accostamenti cromatici e le tonalità che egli predilige.
Come parlare di un argomento tanto delicato?
Se è vero che il tutto sta nei dettagli, qui c’è di mezzo la profondità insondabile di una persona che -non si dimentichi- è anche Monsignore.
Se ne può parlare solo prendendo le mosse da molto lontano, precisamente dal momento in cui fece il suo ingresso nel seminario minore per frequentare la IV ginnasio.
I principali capi d’abbigliamento erano due: la veste nera da “pretino” (oggi si direbbe la talare) e un paio di pantaloni “alla zuava” (con il gambale floscio che si allacciava sotto le ginocchia).
Per la veste, niente da dire, ma i pantaloni (se li ricorda, eccome!) risultarono particolarmente degni di attenzione il giorno in cui, giocando al pallone, per la prima volta dovette mostrarli in pubblico.
Che cosa avevano di così strano o di così eccentrico da attirare lo sguardo di tutti?
Era il colore, era quell’azzurro da divisa dell’aeronautica che il nero della veste allacciata in vita (era d’obbligo portarla anche in ricreazione) rendeva ancora più vistoso.
Avrebbe voluto parare l’indiscrezione di certi sguardi confessando in tono patetico: “Sì, è vero: me li ha confezionati mia mamma rimediando non so come un pezzo di stoffa dell’esercito”, ma subentrò subito dentro di lui uno scatto di fierezza tanto che avrebbe voluto gridare a tutti: “Che ne sapete voi dei colori di una squadra di calcio? Devo proprio spiegarvi che il nero della veste e l’azzurro dei miei pantaloni sono i colori della squadra del mio cuore?
Avete mai sentito parlare di Franzosi, Marchi e Passalacqua, Cominelli, Milani e Campatelli, Penzo, Achilli, Candiani…?”.
Come gli era facile snocciolare quei nomi, quasi accarezzandoli, ad uno ad uno, nell’ordine che occupavano sul campo!
Questione solo di buona memoria?
Era piuttosto il segno di un attaccamento che l’aveva portato, tutte le volte che recitava le preghiere della sera (e c’era pure un rapido ripasso del catechismo), a infilare tra i dieci comandamenti e i sette sacramenti gli undici eroi che formavano, ai suoi occhi, la squadra più bella che mai fosse apparsa sui campi di calcio.
A questi si sarebbero aggiunti negli anni successivi altri nomi, divisi per stagioni o per ruoli, tutti comunque iscritti in una memoria affettuosamente tenace.
Come non ricordare il mitico “Veleno” o il grande trio Mazzola-Suarez-Corso o anche le leggendarie figure di Jair, Nyers, Skoglund?
Ma se l’immaginazione di Monsignore si accende nel richiamare gli scatti e le serpentine di Mazzola o i pallonetti “a foglia morta” di Corso, il suo cuore si intenerisce evocando certi onesti e generosi lavoratori del pallone come Domenghini, capace di farsi tutto il campo dopo aver saltato il proprio uomo e di avere ancora la forza di segnare.
Tempi gloriosi quelli, legati al magistrale lavoro di Helenio Herrera, tempi esaltanti per Monsignore che, insegnando in quegli anni latino e greco nel liceo del seminario, si vedeva gratificato (un po’ ruffianescamente, bisogna pur dirlo) dai suoi alunni ogni lunedì mattina con un numero di caramelle pari ai goals segnati dalla Beneamata.
Qualcuno si domanderà: “Li ha mai visti da vicino i suoi eroi in casacca neroazzurra?
Gli è capitato, qualche volta almeno, di seguire le loro prodezze nel clima acceso di uno stadio?”.
Certamente il desiderio era grande, ma doveva misurarsi con le norme disciplinari della curia che gli proibivano di mettere piede in uno stadio.
E quella volta che l’incontenibile amore per la sua squadra lo rese trasgressivo, venne giustamente punito: non dai superiori, come era lecito attendersi, ma da un rotolo di carta igienica che dai piani superiori dello stadio gli arrivò in testa, lasciandolo (altro che “dieci piani di morbidezza” come recitava la pubblicità!) mezzo intontito.
Ora che, cadute le proibizioni e le sanzioni di un tempo, Monsignore può frequentare liberamente lo stadio godendo pure dei biglietti che un’anima buona puntualmente gli fa avere, deve ammettere che la passione è rimasta intatta, anche se è costretto a scontarla con un altro tipo di passione: la sofferenza.
Possibile che per l’Inter debba andar tutto storto e che gli anni delle vacche grasse non debbano mai più ritornare?
Monsignore prova a consolarsi con qualche scampolo di bel gioco, ma è troppo poco per chi soffre di un digiuno che si fa sempre più tormentoso. Soprattutto se a soffrire si trova solo, senza la solidarietà neppure degli amici più cari.
È quello che gli è successo qualche anno fa a S. Siro, quando ci andò per vedere l’Inter che giocava un partita di Coppa Italia contro la Sampdoria.
Serata ideale di primavera, con una temperatura mite e un’aria limpidissima, campo in splendide condizioni, gente felice sulle gradinate, pronostico pressochè scontato: c’erano tutte le premesse per avere di quella sera un ottimo ricordo tanto che si era fatto accompagnare dall’amico scrittore Lillo Santucci, assente dagli stadi dai tempi di Meazza, per farlo partecipe della festa che senza dubbio non sarebbe mancata.
Che Lillo fosse felice, ci voleva poco a capirlo.
Monsignore quella sera aveva alla sua destra un bambino in compagnia del papà, alla sua sinistra un altro bambino -questo di 78 anni- che si entusiasmava più del primo seguendo lo spettacolo che si svolgeva sulle tribune e sul campo da gioco.
“Vedi come sono belli quegli omini che si muovono sul tappeto verde” gli diceva Lillo ogni tanto a partita iniziata.
E glielo diceva anche quando Monsignore soffriva visibilmente perché la squadra del cuore stava perdendo.
Avrebbe voluto interromperlo: “Lillo, per favore, un po’ di comprensione….”.
Ma lui si godeva beatamente il suo spettacolo, al di là dell’evento sportivo, immergendosi nella smemorante festevolezza delle voci, delle luci, dei colori, dei movimenti che i suoi “omini” disegnavano sul prato verde.
È un fatto che Monsignore le sue delusioni sportive se le deve smaltire per lo più da solo, ricorrendo ora alla funzione catartica dell’indignazione, ora ai riti propiziatori o scaramantici della superstizione.
Che sia superstizioso non lo si può certo affermare (del resto, come potrebbe?), ma lui stesso ammette che, quando si tratta della sua squadra, qualche debolezza se la concede.
Pur di spuntare un risultato importante, le ha tentate tutte: si è imposto di non vedere la partita allo stadio, ha depistato prontamente amici maldestri che ancora non sanno quanta jella può procurarti un incauto augurio per la tua squadra e, da quando ha scoperto in Matteo, un piccolo pronipote di neanche due anni, una straordinaria forza benefica a favore dell’Inter, è su di lui che punta tutte le sue speranze.
Si può capire l’ardire che ebbe Monsignore la sera in cui l’Inter era sotto di due goals con la Sampdoria (in una partita, questa volta, di campionato).
Ecco la sintesi delle parole concitate che Monsignore scambiò per telefono con il papà del piccolo Matteo:
“Che cosa sta facendo Matteo? Non dirmi che sta dormendo”
“Ma cosa vuoi che faccia a quest’ora? Certo che sta dormendo”
“Lo supponevo. E allora, senti bene quello che ti dico: fammi il santo piacere di svegliarlo e di tenerlo sveglio almeno per mezz’ora. Intesi?”
Fu così che quella volta l’Inter compì l’impresa memorabile di segnare tre goals negli ultimi sei minuti.
Ma, se è vero che questi colpi di magia infantile possono cambiare il risultato di una partita, non hanno ancora la forza sufficiente per rimediare a una situazione generale che rimane sempre deprimente: sarà perché Matteo talvolta dorme, sarà perché a dormire sono più spesso i giocatori in campo.
Dovreste sentire allora con quale veemenza Monsignore, così mite quando è all’altare, esprime il suo disappunto e la sua indignazione.
Si mette a inveire contro i giocatori (ah, quel Ronaldo: traditore ingrato!), contro gli arbitri, contro l’ambiente, anche contro il cappellano dell’Inter, suo amico, che non saprebbe trasfondere nella squadra quella spes contra spem, quella speranza contro ogni speranza che sarebbe necessaria per sollevare il morale della squadra e dei tifosi.
La sua indignazione investe pure la curia, colpevole, a suo giudizio, di una grave indelicatezza nei suoi confronti.
Il problema è questo: in vent’anni e più di parrocchia, mai una volta che gli sia stato messo accanto un vicario che condividesse la sua fede sportiva.
E allora giustamente si chiede: “Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo trattamento?
Se è un modo per farmi espiare le mie colpe, mi si dica almeno dove ho sbagliato”.
È difficile dargli torto.
Pensate che sia bello per un superiore raccogliere dal suo giovane collaboratore sorrisi ironici o battute di dubbio gusto?
L’ultima è stata questa: “L’Inter vince qualcosa solo ad ogni morte di papa”.
Monsignore a queste parole si è chiuso in se stesso, in silenzio.
In quel momento è stato sfiorato da un pensiero…
Ma poi si è subito ripreso, quando sentì salire dal profondo una voce che lo ammoniva: “No, questo non lo puoi fare. Non sta bene. Ricordati che tu sei Monsignore”.

La situazione in casa Inter da allora è sensibilmente mutata.
Ne fanno fede i quattro scudetti conquistati negli ultimi quattro anni.
E poi, ad assicurare risultati positivi, c’è sempre la presenza del piccolo Matteo.
Per Natale gli avevo regalato una bella sciarpa con i colori dell’Inter.
Quando qualche giorno dopo lo raggiunsi per telefono sui monti del Trentino dove stava
trascorrendo una breve vacanza e gli chiesi quale sciarpa portasse per difendersi dal freddo.
la risposta fu pronta e per me di buon auspicio: “Quella azzurra che tu mi hai regalato”
Io so che soltanto la fretta nel dare la risposta l’aveva portato a tralasciare il primo colore fondamentale per la storia dell’Inter, ma a me è parso di trovarvi comunque un segnale promettente per il futuro della mia squadra.
Non potrebbe essere infatti che il nero di tante umiliazioni subite debba essere completamente cancellato e che si possa contemplare un orizzonte limpido, senza ombre, di un azzurro terso e radioso?
Se così fosse, mi sia concesso di immaginare con i caratteri della più ampia libertà tutte le parole che iniziano con inter.
A cominciare dalla parola interludio che mi sentirei di trattare in questo modo:
INTERludio