giovedì 13 dicembre 2007

I veri miracoli


Una mia visita - mi era stato detto – sarebbe stata molto gradita.
Per questo mi sono affrettato verso la casa di A. R. C., una signora che ha maturato già una bella età (credo abbia superato i 90 anni) e che ora si trova ad affrontare i postumi di un'operazione per la frattura di un femore.
In seguito a questo infortunio è rimasta molto debilitata tanto che difficilmente lascia la camera da letto.
“Non collabora, non vuole proprio collaborare”, mi dicono le due figlie che l’assistono con un‘attenzione dolce e premurosa e me lo ripetono, con voce più sostenuta, mentre ci avviciniamo alla camera della madre.
Ma il rimprovero questa volta non arriva a destinazione perché la mamma è ancora assopita, in uno stato di dormiveglia da cui si ridesta solo dopo che le viene annunciata la mia visita.
La ritrovo con il pallore abituale del suo volto, ma, non appena mi ha riconosciuto, basta poco a restituirle uno sguardo che si illumina di un lieve sorriso, mentre la voce, per quanto flebile, riprende la dolcezza e la fluidità di un tempo.
Da quel letto, diventato una sorta di cattedra domestica, mi dispensa intuizioni e riflessioni attinte ad una superiore saggezza e filtrate attraverso lunghe ore di silenzio.
Ancora una volta ho l’impressione di non essere io a portare una nota di conforto, ma che sia lei a offrirmi motivi di grande speranza.
Il punto di maggiore intensità emotiva mi vien fatto di registrarlo quando, con grande naturalezza, fa scivolare nel suo discorso queste parole meravigliose: “I veri miracoli sono gli incontri con gli amici”.
Mi domando: si potrebbe celebrare l’amicizia in una forma più semplice e più toccante?
Nella verità di queste parole a me pare di cogliere echi e vibrazioni di un mondo affettivo che un Dio innamorato ha consegnato alle pagine dei vangeli e che autori come padre David Maria Turoldo e don Michele Do (cito tra i tanti questi cultori dell’amicizia perché sono gli ultimi che io ho potuto conoscere personalmente) ci hanno permesso di rivisitare con un cuore colmo di stupore.
Sono parole che mi suggeriscono anche il profumo del Natale, se è vero che attendiamo il miracolo di un Dio il quale viene tra noi a portare la gioia di sentirci amati.
Questo sentore di poesia natalizia lo ritrovo anche in un racconto che la stessa signora mi aveva fatto pochi mesi fa.
”Non ero ancora nata – mi diceva – quando il mio fratellino più piccolo, con la sua candida fede nei prodigi della Notte Santa, chiese per quell’anno alla mamma il dono di una sorellina. e la mamma, che sapeva di essere da poco incinta, si fece garante che il desiderio sarebbe stato esaudito, se solo fosse stato capace di aspettare oltre il Natale.
Fu così che, essendo io nata il 24 giugno, giorno della festa di S. Giovanni Battista, quel mio fratellino, che proprio in quel giorno festeggiava il suo onomastico, prese a volermi un bene immenso vedendo in me, finché visse, un segno della benevolenza divina”.
Nessun commento a questo stupendo racconto.
Mi permetto solo di ricordare il lieve fremito di commozione con cui mi veniva trasmesso.
E mi auguro che la stessa commozione arrivi al cuore di tutti.
E sia quel cuore di fanciullo che il Natale ci fa riscoprire: un cuore intuitivo aperto alla dimensione dell’invisibile e alla presenza nascosta dell’Amico.

martedì 4 dicembre 2007

Io e lui.

Io e lui.
Io sono io. E lui , chi è mai?
Nessun rapporto con il lui che Moravia ha posto al centro di uno dei suoi ultimi romanzi.
Neppure la più lontana parentela.
E’ un lui che da qualche anno mi sta accanto assiduamente, ma anche molto discretamente, tanto che non sono ancora riuscito a visualizzare i tratti del suo volto, anche se mi capita di immaginarlo come un distinto signore, capace di dissimulare molto bene i suoi pensieri.
Qualcuno mi potrebbe chiedere: “Ma ti sarai fatto almeno un’idea della sua indole e delle sue intenzioni”.
Senza dubbio. La mia ormai lunga frequentazione mi permette perfino di definire certi suoi stati d’animo e di parlare di certe sue piccole manie. Diciamo pure: degli hobby di cui si compiace.
Se uno mi chiede: “Come stai?”, rispondo citando alcuni versi di Ungaretti, gli stessi di cui si è servito recentemente Enzo Biagi (in questo mi ha copiato!) .
Direi: “Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie”.
Ma se uno mi chiedesse: “Come sta?”, allora la mia risposta è più immediata e meno allusiva.
Mi capita di rispondere: “Sta bene (lui). Lo trovo in piena forma. Da quando lo conosco non ha mai avuto un momento di crisi”.
E prolungando il discorso avrei voglia di offrire altre informazioni su questo strano personaggio.
A volte, dietro le sembianze di perfetto gentleman inglese, si nasconde un tipo piuttosto dispettoso e burlone.
“Come a dire?”
Succede infatti che, mentre sto parlando, lui si diverte a distrarmi, a scompigliare i miei pensieri, a incepparmi le parole.
E quando sto camminando tranquillamente, senza sospettare alcun inconveniente, tenta perfino, con qualche sgambetto improvviso, di farmi ruzzolare per terra.
Su queste mie avventure-disavventure mi sono permesso una confidenza anche a Bose, la domenica di ottobre in cui io e don Angelo Casati fummo accolti con grande simpatia dalla comunità e da una folla di amici.
Quando toccò a me prendere la parola, portato dall’onda dei ricordi (voleva essere una chiacchierata a ruota libera) mi rivolsi a don Angelo con queste parole:
"Quanti ricordi, don Angelo, legati a quegli anni della nostra giovinezza vissuti a volte anche pericolosamente, con una punta di follia, come quando guidavi il tuo Guzzino sollevando tutte e due le mani dal manubrio e io dietro, sul sellino posteriore, supplicavo: Guarda che sono in peccato mortale!”.
La stessa invocazione, con le stesse parole, la rivolgo ora a un certo signore (mi pare, ma non so bene, che si chiami Parkinson) che mi sta guidando lungo tornanti in discesa (e io odio la legge di gravità) e che mi fa temere quello che un proverbio famoso ci raccomanda di evitare:
Bacco tabacco e femore, riducono l’uomo in cenere.
Certo qualche precauzione me la prendo contro le iniziative troppo dispettose del mio inseparabile compagno di viaggio.
Per certi percorsi ho adottato il bastone da passeggio che amo chiamare “il mio badante muto”.
A questo proposito mi ha rallegrato sapere che il piccolo Matteo, il nipotino che a me è particolarmente caro per la sua germinale fede interista, in questi giorni si è rifiutato di disegnare un pastore per il presepio perché – ha detto – “manca lo zio con il suo bastone”.
Mi chiedo dove mai mi potrà condurre questa avventura a due, segnata da un indissolubile vincolo di fedeltà.Forse con la sorte prefigurata nel proverbio citato, ma in questo caso mi auguro di avere la prontezza di ricordare le parole che in una favola famosa avrebbe pronunciato una tartaruga, dopo che si è vista rovesciata in un fosso (le riporto nella versione dialettale dell’amico Luigi Santucci):
" Stanott, voltada inscì, hoo faa ‘na scoperta:
mai hoo vist on spettacol insscì bell.
Adess, che ghe sia el ciel son propri certa:
finalment, finalment che vedi i stell…”.

martedì 27 novembre 2007

Lunedì 12 novembre

Stamattina mi sono svegliato con le note di Beethoven, di Haydn, di Frescobaldi, di Scarlatti.
Non saprei dire quali fossero i brani musicali trasmessi dal programma “Terzo anello” di “Raitre”.e tanto meno sarei in grado di riferire qualcosa dell’ampio e avvolgente commento con cui la conduttrice del programma disponeva all’ascolto dei singoli brani.
In quella condizione di semitorpore in cui era piacevole attardarsi prima di riavere, si fa per dire, il pieno possesso delle proprie capacità percettive, solo una parola mi è rimasta impressa con tutto il fascino poetico che Leopardi attribuiva al linguaggio non puramente denotativo, ma allusivo.
Ho sentito infatti evocare la parola “infinito”, e subito ho provato una piccola emozione che via via si è fatta sempre più viva e coinvolgente.
Mi sono detto che se la musica ha il potere di dischiudere la dimensione dell’infinito, vengono a cadere tutte le meschinità, fatte di appropriazioni e di esclusioni, che siamo costretti registrare in altri ambiti della nostra quotidiana esperienza.
Cerco di spiegarmi meglio.
Il fatto che Frescobaldi o Scarlatti o Beethoven o qualsiasi altro genio musicale appartenga a una determinata area geografica o culturale interessa molto al fine di definire i dati costitutivi della personalità artistica di ogni autore, ma quando ascolto la loro musica, li sento come compagni universali di ogni essere che voglia ristorarsi alle sorgenti della più pura e sovrumana bellezza.
Non c’è ragione, in altre parole, di relegarli dentro precisi recinti di appartenenza, perché, quando si respira l’aria delle grandi altezze, si crea un senso di amicizia che travalica tutti i particolarismi e i campanilismi dettati dal nostro spirito possessivo.
Per contro è facile osservare che, discendendo dalle sommità abitate dalla dimensione dell’infinito verso realtà decisamente segnate dal “particulare”, le passioni degli uomini si accendono e si esasperano fino a praticare la violenza più sfrenata.
La riprova è data dai gravi disordini (la notizia l’ho avuta dal giornale radio di stamattina) che si sono verificati ieri in certi stadi e in diversi settori della capitale in seguito alla morte di un tifoso laziale.
Quando la fortuna di una squadra di calcio diventa un bene esclusivo da gestire con ogni sorta di interventi, anche al limite della legalità, lo spettacolo perde la sua funzione di intrattenimento rasserenante per diventare occasione di scontro tra opposte fazioni.
Perché non dovrebbe essere possibile assistere a una partita con l’animo sgombro dallo spirito di parte (il cosiddetto tifo) così da godere della bellezza del gioco, quale che sia la squadra che meglio lo esprime?
Posso confidare che, nonostante la mia irrinunciabile fede interista, mi è capitato più volte di vedere una partita lasciandomi conquistare unicamente dallo spettacolo che si svolgeva sotto i miei occhi, in cui mi era dato di ammirare ora la razionalità di una difesa impenetrabile, ora il guizzo estroso di certi attaccanti, e di interpretare la ricerca del goal come una piccola parabola esistenziale che rispecchiasse l’anelito dell’uomo a realizzare qualcosa di grande nella sua vita.
Ma credo che per assistere ad una piena pacificazione bisognerà attendere ancora molto, anche se non c’è da disperare.
Se è vero che ci sarà un giorno in cui il lupo e l’agnello pascoleranno insieme (Isaia 65, 25), perché non deve essere concesso di immaginare tifosi juventini allegramente mescolati con quelli interisti sugli stessi spalti, così quelli interisti mescolati con quelli milanisti in occasione di un derby, o quelli della Roma con quelli della Lazio…?
Speriamo.
Devo dire che nella quotidiana razione di tristezze che il notiziario dispensa ogni mattina, ho colto una breve notizia che mi ha molto confortato.
Secondo questa informazione, in Irlanda l’ultima fazione armata (pare del fronte protestante)
avrebbe deciso di deporre le armi..
L’Irlanda e stata teatro di sanguinose lotte fratricide, combattute per tanto tempo in nome di Dio.
Anche concedendo che il nome di Dio in queste lotte è servito spesso a mascherare altre ragioni non propriamente di ordine religioso, da quelle di ordine etnico a quelle di natura economica, rimane pur vero che lo scandalo è grave: ci sono persone che invece di convertirsi al fascino di un Dio che, come Padre di tutti, fa appello a un senso di universale fraternità, ne mortificano il sogno trascinandolo dentro le loro sanguinose contese.
Avrebbero dunque ragione quegli studiosi che vedono nelle religioni monoteiste la causa principale dei gravi conflitti che hanno segnato la storia dell‘umanità?
Per questo - dicevo - mi ha molto rallegrato la piccola notizia trasmessa dalla radio questa mattina.
E mi auguro che tante altre ugualmente consolanti possano seguire.
In particolare mi aspetto che cessi finalmente lo spettacolo vergognoso che le diverse confessioni cristiane continuano a dare in “Terra Santa” dove gli edifici di culto sono luoghi di conflitto.
A Betlemme ortodossi, armeni e francescani si contendono la basilica della Natività; a Gerusalemme il Santo Sepolcro vede la difficile coabitazione di cattolici latini, greci ortodossi, armeni, siriaci, copti.
Dio è il bene più grande, è amore universale. Perché non dovremmo aspettarci da lui quel senso di pacificazione che – come abbiamo osservato - riescono a offrire i grandi musicisti elevandoci con la loro arte al di sopra delle nostre meschine rivalità?

mercoledì 24 ottobre 2007

*Spigolature 1 ottobre

“Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”

(preghiera di un contadino raccolta da don Michele Do)

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Che differenza c’è tra un ottimista e un pessimista?

L’ottimista: “Viviamo nel migliore dei mondi”

Il pessimista: “Penso, purtroppo, che questo sia vero”

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Una confidenza: “Penso che non vedrò mai più il lago di Carezza”
Un amico: “Ma no, che ti trovo ancora in buona salute”
Replica: “Cos’hai capito? È lui che non gode di buona salute”
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Il tuttologo: E’colui che sa tutto, ma solo quello

martedì 2 ottobre 2007

La mia collezione di asini

Pur essendo stato diverse volte in Turchia, non avevo mai saputo nulla di Hodja, un simpatico personaggio considerato come il portavoce della saggezza popolare di quella nazione.
Di lui si racconta (è un aneddoto che mi è capitato di trovare in una delle mie ultime letture) che un giorno, avendo perso l’asino, si mise a percorrere città e villaggi promettendo in dono il suo asinello a chi l’avesse trovato.
“Ma perché lo cerchi se poi sei pronto a privartene?”gli domandavano i passanti.
Hodja rispondeva: “E’ per la gioia di ritrovarlo”.
Questa breve storia esalta senza dubbio la straordinaria pietas di Hodja, ma al tempo stesso è un implicito riconoscimento della amabilità che l’asino custodisce sotto sembianze così umili e dimesse.
E’ questa la ragione che mi ha portato a riservare all’asino una attenzione particolare.
Chi entrando nella mia nuova casa volesse accompagnarmi nel mio petit voyage autour de ma chambre, rimarrebbe certo sorpreso nel vedere come l’angolo del mio studio dove abitualmente lavoro al computer sia tutto tappezzato di immagini di asini. Sono fotografie, incisioni, ceramiche, acquerelli ricevuti in dono da amici, da quando si è diffusa la voce della mia strana predilezione per questo animale.
Se poi volesse seguirmi fino al primo dei finestroni che danno luce all’interno, scoprirebbe sulla grande mensola che lo delimita un presepio fatto solo di asini, protesi verso l’esterno quasi ad aspettarsi un sorriso di simpatia dalle persone che eventualmente si trovassero a passare.
Ce ne sono di tutti i tipi: di peluche, di ceramica, di legno, di terracotta, di cartapesta, ciascuno con una sua storia particolare di cui si arricchisce il capitolo dell’amicizia che va acquistando un valore sempre più grande nella ma vita.
Intendo dire questo: ogni asinello mi richiama il nome della persona amica che me lo ha dato in dono, dopo averlo scelto pensando a me, per lo più in occasione di qualche viaggio turistico in paesi dove questo animale non è ancora in via di estinzione come pare succeda da noi.
È certo dunque che la mia collezione non esprime la maniacale passione del collezionista che si compiace di ogni nuova acquisizione per il semplice gusto di poterla esibire.
Qui c’è qualcosa che sfugge a una semplice ricognizione superficiale, perché è custodito nella memoria del cuore.
Ma se anche mancasse questo particolare rimando alle ragioni dell’amicizia, penso che a giustificare la mia collezione rimarrebbe pur sempre il rapporto di empatia che si è stabilito tra la mia esistenza e quella dell’asino.
Da quanto tempo? Non sapei precisare.
So soltanto che tutte le volte che mi è dato di incontrare un asino mi intenerisco facilmente contemplando il suo portamento dolce e mansueto, i suoi occhi pensosi e meditativi appena sfiorati da un velo d tristezza.
E mi è facile capire perché nel vangelo e nella tradizione cristiana l’asino venga celebrato come immagine esemplare di quella semplicità umile e docile che costituisce la vera grandezza davanti a Dio.
Ecco perché, pensando all’asino della Natività e a quello che accompagnò Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme, ho voluto esprimere un giorno tutta la mia affettuosa
partecipazione al mistero della piccolezza evangelica custodito da questa creatura così vicina al cuore di Dio:
Asinello di Betlemme,
piccolo asino dal musetto bianco,
che cosa è rimasto in te di quella notte
popolata di luci e di canti?
Non ti ha sfiorato
la carezza degli angeli in volo,
il gemito dolce di un bimbo,
il vociare sommesso dei pastori,
il caldo belato degli agnelli,
il sospiro leggero di una mamma
nell’offrire il seno al suo piccolo nato?
No, tu quella notte,
forse stordito da troppe emozioni,
te ne stavi raccolto nell’ombra
che si faceva sempre più densa
e intanto forse sognavi,
sognavi come sogna un bambino,
i grandi occhi velati dal sonno,
il cuore a inseguire vagabondo
immagini sempre cangianti
e insolite stranezze di voci.
E sognando te ne andavi abbagliato
dallo splendore di una grande città,
portando sul tuo esile dorso
un uomo dal nome straniero,
così dolce, così mite,
così silenziosamente assorto
nelle parole che echeggiavano intorno
con accenti non ignoti al tuo cuore:
erano bambini o erano angeli a cantare
“Osanna nel più alto dei cieli”?
Asinello mio caro, mio dolce fratello
che ti ritrovasti al risveglio
gli occhi umidi di pianto
e gocce di lacrime a imperlarti
il tuo musetto bianco,
il tuo segreto sia anche il nostro
in questo andare errabondi
tra sogno e realtà, tra speranze e delusioni
e in questo nostro inconsapevole invocare:
“O tu, abbi pietà di noi!”.


martedì 25 settembre 2007

Monsignore tifa Bearzot (per il suo ottantesimo compleanno)

Monsignore, che già una volta ha abbandonato per qualche breve margine di tempo la frequentazione di interessi, si fa per dire, più elevati per difendere le ragioni della sua seconda piccola fede, quella relativa alla squadra del cuore (Monsignore tifa Inter), si lascia ora amabilmente coinvolgere nel coro di voci sincere che intendono celebrare un maestro di semplicità e di lealtà.
Si associa ben volentieri sapendo che nel caso dell’amico Bearzot non c’è il rischio di praticare un elogium tale da assecondare le esigenze del grande circo mediatico che ama più la finzione che la verità.
E’ certo infatti che se mai l’amico Enzo si trovasse a leggere qualcosa che non aderisce alla sua natura schiva, di uomo cioè le cui qualità sono così ben dissimulate da diventare il normale modo di essere, non si risparmierebbe il gusto di commentare con una robusta pernacchia friulana.
Sono quasi venticinque anni che monsignore ha la fortuna di avvicinarlo, da quando (ricorda bene quella prima volta), passando per la benedizione delle famiglie, si vide contraccambiare le poche gocce di acqua benedetta con un calice colmo di grappa picolit, da consumare – beninteso - lì per lì, con la stessa docilità con cui lui aveva accolto il rito della benedizione.
Da quel primo incontro benedetto con acqua e “spirito” è nata un’intesa che si sarebbe poi nutrita più di sguardi che di parole, perché era dato a ciascuno di intuire i pensieri dell’altro semplicemente attraverso le espressioni del volto.
Le parole, si diceva, erano poche, ma sempre sapide da parte sua, perché attingevano a una saggezza popolare che aveva radici lontane tanto da impreziosirsi talvolta di qualche massima latina che meglio rispecchiasse la sua visione della vita.
A monsignore pare di capire che proprio da una di queste reminiscenze letterarie l‘amico Enzo abbia mutuato la vis polemica che sente di dover esprimere nei confronti di quel mondo fatuo, esibizionista, cialtrone che sembra imporsi in ogni ambito della vita sociale.
O quanta species… cerebrum non habet!” ama ripetere con il grande Fedro.
Bisognerebbe - confessa monsignore - sorprenderlo al mattino al bar dove è solito prendere il caffè per sentire con quale veemenza, dopo aver dato uno sguardo al giornale, si impegna a denunciare e a demolire le apparenze vuote di gente la cui irresistibile ascesa nel campo della politica come in quello dello sport non è per lui motivo di invidia, ma di profondo disgusto.
Non si lascia certo conquistare dai grandi personaggi che trionfano sulla scena mediatica, ma dalle persone vere che abbiano in testa un po’ di quel cerebrum senza il quale tutto diventa finzione e inganno.
Ma in che cosa consiste precisamente questo elemento che dà sapore a tutta l’esistenza?
Non si tratta di quella intelligenza fredda e calcolatrice di cui si servono gli arrampicatori sociali che Bearzot non si stanca di detestare.
Si tratta piuttosto di quel tipo di intelligenza che coniuga in sè la mente e il cuore, di quella particolare saggezza che rivela un profondo legame con il mondo degli affetti.
A questo punto monsignore non intende forzare la sua discrezione che ama rivestire i sentimenti di grande pudore.
Ma come potrebbe passare sotto silenzio l’importanza che l’amicizia ha sempre avuto nella vita di Enzo Bearzot?
L’amicizia, come per padre David Maria Turoldo, suo conterraneo, rappresenta il bene più grande e l’esperienza privilegiata per riscattare l’esistenza da ogni forma di noia e di stanchezza.
Dell’amicizia conosce la tenerezza che si esprime particolarmente nella dolce complicità con la moglie Luisa.
Che importa se per le sue premurose e tenaci insistenze ha dovuto rinunciare al gusto di ripulire la tazzina del caffè con qualche goccia di grappa secondo il rituale tutto friulano del resentin come pure si è lasciato privare della gloriosa pipa dei mondiali che gli conferiva una simpatica aria patriarcale quando certi sbuffi di fumo gli incorniciavano il volto?
Sentirsi governato da una presenza così affettuosa gli ha fatto apprezzare ancora di più i legami che nell’ordine dell’amicizia si sono intrecciati nella sua vita e che ora rimangono saldamente radicati nel suo cuore.
Si può capire perciò la commozione con cui parla dei “suoi ragazzi” che hanno condiviso nella stagione eroica dei mondiali di Spagna le tensioni e le fatiche come anche le grandi soddisfazioni dopo il meritato trionfo.
Monsignore, che da tempo ormai lo vede arrivare puntualmente ogni domenica nella sua chiesa con l’immancabile presenza della cara Luisa e di un piccolo stuolo di amici a lui devoti (tra questi c’è anche un campione del mondo di ciclismo su pista), potrebbe parlare a lungo del suo grande cuore, aperto a tutto ciò che di bello e di buono offre la vita, soprattutto al dono dell’amicizia.
Ma vorrebbe concludere questa sua affettuosa testimonianza con un ricordo che lo tocca da vicino procurandogli un’emozione sempre nuova.
Bisogna sapere che sulla parete dello studio a cui è addossato il suo tavolo di lavoro compare in un ovale una grande fotografia che lo ritrae di spalle con addosso la maglia nerazzurra contrassegnata, a chiare lettere, dal suo nome e, quasi ad occupare tutta la schiena, dal numero 50.
A chi è dovuta tale bizzarra invenzione?
Fu durante il grande pranzo organizzato in parrocchia per celebrare il cinquantesimo di sacerdozio che monsignore si trovò accanto l’amico Bearzot dal quale, in uno scroscio di applausi, si vide rivestito di colori meno sacri ma ugualmente cari al suo cuore.
Ora, volendo contraccambiare il favore, immagina l’amico ripreso lui pure di spalle, in maglia azzurra, su cui dovrebbe risaltare con particolare evidenza il numero 80.
E immagina ancora di vedere questa grande fotografia inserita, come la sua, in una falsa cornice elaborata dal computer che però preveda la presenza di un cartiglio per una possibile dedica.
Che cosa amerebbe scrivere?
Ad multos annos?:troppo banale.
Per aspera ad astra? : troppo ascetico.
Excelsior? : troppo irenico.
E allora monsignore si arrende e preferisce accompagnare i passi dell’amico con le parole che gli nascono dal cuore: “Caro Enzo, ti hanno chiamato il vecio per la tua saggezza, ma io mi ostino a vedere in te i tratti del bambino che sogna un mondo sempre più bello.
Che il mondo sia fatto per la gioia e per l‘amore, ce lo ricorda anche il nostro amico, padre Turoldo, del quale vorrei dedicarti alcuni versi che sono una calda esortazione alla speranza:
"Tempo è di unire le voci
di fonderle insieme
e lasciare che la grazia canti
e ci salvi la bellezza
”.

mercoledì 12 settembre 2007

Ateismo e preghiera

Dio non esiste.
Io lo prego tutti i giorni.”

Ho trovato questa confidenza nell’ultimo libro (Notre Père) di Jean-Yves Leloup il quale, dopo averla raccolta dalle labbra di un amico filosofo, ne ha fatto oggetto di attenta riflessione.
Le parole citate con il loro carattere paradossale potrebbero suggerire il tema di un dibattito dal titolo: “E possibile conciliare ateismo e preghiera?”.
Immagino di essere anch’io partecipe di questa discussione: che cosa potrei dire?
A me pare possibile dichiararsi atei e custodire d’altra parte una naturale disposizione alla preghiera.
La contraddizione non deve sorprendere se appena si pensa che in ciascuno di noi agiscono ed entrano in conflitto forze diverse, razionali e irrazionali, speculative e affettive.
Può essere perciò che una posizione rigorosamente atea subisca una sorta di erosione quando entrano in gioco altri elementi non più riconducibili alla pura ragione.
Mi riferisco in particolare a quel senso di precarietà che innerva le strutture profonde del nostro vivere con un corredo di paure da cui nascono appelli verso un possibile riscatto.
È appena il caso di osservare che precarietà e prece hanno in comune la stessa radice.
È possibile, in altre parole, avvertire il gemito che nasce dal cuore di ogni creatura ferita e umiliata dalla propria incompiutezza.
Si tratta di una invocazione universale in cui si fondono accenti diversi come diversa e composita è la realtà che li esprime.
E io sono portato a credere che anche la persona che si professa atea sia in qualche modo coinvolta in questo coralità di voci che anelano a un superamento dei propri limiti creaturali ed esistenziali.
Se la mente rimane chiusa al mondo trascendente e quindi ad ogni forma di preghiera, a pregare è tutta l’esistenza quando si muove sotto il segno della fatica e della fragilità.
Pregano allora gli occhi umidi di pianto, prega il cuore sotto il bruciore di un’assenza, pregano le mani quando non riescono più a trattenere, ad accarezzare, a modellare…
E può succedere che questa preghiera informe e silenziosa professata dentro le fibre oscure dell’esistenza si interiorizzi nel cuore di una persona come esigenza di rapporto con un tu trascendente.
È quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie.
Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine
”.
Mentre rimane salda la convinzione che Dio non esiste, si vorrebbe che Dio esistesse o lo si immagina esistente come principio di ordine e di coesione dentro una realtà ingovernabile e magmatica oppure come l’interlocutore necessario per chi sente il peso della propria radicale solitudine.
Privato di un’alterità che possa dare un senso al suo esistere, l’uomo si trova davanti a un grande vuoto.
Ed è da questo vuoto che nascono preghiere paradossali, incoerenti, disperate.
Come questa di Mario Tobino:

O Dio, chiunque tu sia,
o non esista,
o trascorra come un concetto
le nostre menti,
benedici anche me”.

Giorgio Caproni arriva a pregare perché Dio si sforzi di esistere:

Dio di volontà,
Dio onnipotente, cerca
(Sforzati!), a furia d’insistere,
almeno – d’esistere”.


Zinoviev, uno scrittore russo appartenente alla grande stagione del dissenso sovietico, in un componimento intitolato La preghiera di un ateo credente, dopo essersi rivolto anche lui a Dio pregandolo di esistere non solo come onnipotente, ma come Padre, conclude la sua preghiera con questi accenti accorati:

“Vivere senza testimoni, quale inferno!
Per questo, forzando la mia voce,
io grido, io urlo:
Padre mio,
ti supplico
e piango:
Esisti!”

A questa stessa professione di fede in un Dio inesistente, ma invocato disperatamente come Padre si apparenta anche la confidenza rilasciata a Jean–Yves Leloup dall’amico filosofo il quale alle parole già citate aggiungeva:
Ogni giorno, dal tempo della mia infanzia recito il Padre nostro.
Questo non vuol dire nulla per me, nessuna parola ha senso e tuttavia è una cosa che mi fa bene”.

A questo punto merita un discorso a parte quello riguardante i cosiddetti atei devoti di cui tanto si è parlato ultimamente.
Atei lo sono certamente e non perdono occasione per riaffermarlo.
Il loro ateismo vuole essere una solida conquista razionale, non incrinata da dubbi o da debolezze di ordine sentimentale.
È da escludere pertanto una possibile parentela con quella forma di ateismo che, rivolgendosi, anche se in forma solo immaginaria, a una presenza superiore, confessa a questo modo la propria inadeguatezza nell’interpretare e risolvere i vari problemi connessi con la difficile avventura umana soprattutto nel corso della sua storia più recente.
Che valore può avere pertanto la qualifica di devoti che alcuni di essi si sono attribuiti e che dovrebbe definire la loro collocazione nel quadro generale della cultura del nostro tempo?
Devoto è un aggettivo che non più di una trentina di anni fa sembrava un reperto lessicale destinato a essere cancellato per sempre là dove il tramonto del sacro e la morte di Dio erano temi di un discorso oramai definitivamente acquisito - così almeno sembrava - dentro la coscienza collettiva del mondo occidentale.
Ora invece la storia si è incaricata di ribaltare la sicurezza di quelle posizioni.
Il mercato del sacro infatti è più fiorente che mai e mai come in questi ultimi tempi - è una osservazione di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose - si sono registrate tante cadute da cavallo sulla via di Damasco.
È un fatto che sono molti quelli che non si vergognano di intrattenere uno speciale rapporto con Dio nel loro impegno politico-sociale e che perfino atei convinti hanno riscoperto il valore della religione arrivando a definirsi come atei devoti.
Pensando che devoto è una parola che per la sua etimologia contiene l’idea di voto, dovrebbe servire a indicare un uomo che sia votato con ardore e passione a qualcosa di grande per cui valga la pena di rinunciare a ogni interesse personale.
Nel suo senso ultimo, il devoto si consacra a Dio e al suo regno a venire.
Se questo ha senso, bisogna ammettere che un ateo devoto rappresenta una palese incongruenza.
L’ateo devoto può infatti schierarsi con la gerarchia ecclesiastica nella difesa dei valori della tradizione cristiana, ma non può avere quel senso adorante di una presenza viva il cui mistero dovrebbe suggerire un atteggiamento di umile ascolto e di incondizionata fedeltà.
Non usate Dio per fondare politica e legge” raccomanda nel suo ultimo saggio (Sullo spirito e l’ideologia) la filosofa Roberta De Monticelli la quale non esita a chiamare diabolica tale operazione.
Invece di servire Dio, ci si può servire della parola di Dio convertendola in ideologia al fine di dare un fondamento alla propria visione politica ed etica del mondo attuale.
A proposito di questo uso perverso o comunque distorto delle cose di Dio, vien fatto di pensare a quel famoso segretario di un grande uomo politico (siamo ai tempi della prima repubblica) del quale si favoleggiava che, tutte le volte che il suo diretto superiore sentiva il bisogno di sostare in preghiera presso qualche santuario o basilica romana, egli raggiungeva immediatamente la sacrestia dove amava intrattenersi con qualche alto prelato su problemi urgenti e concreti.
Che cosa stesse a cuore a quel troppo disinvolto segretario è facile immaginare così come è facile immaginare quali siano i reali interessi degli attuali frequentatori di prestigiose sacrestie.
È certo comunque che questi atei devoti non sentiranno mai l’esigenza di mormorare almeno questa preghiera: “Ti prego, sforzati di esistere”.

L’aneddoto sopra ricordato può servire a introdurre un’ulteriore osservazione sul rapporto che intercorre tra ateismo e preghiera.
Se è vero infatti che in tempi recenti è apparsa o è riapparsa la figura dell’ateo devoto, è altrettanto vero che da sempre nel mondo religioso è presente la figura del devoto ateo, cioè di colui che ostenta una religiosità tutta di facciata, senza una vera consonanza interiore.
Di questo falso devoto Gesù aveva denunciato più volte l’ipocrisia, soprattutto nel Discorso della montagna, là dove viene smascherata la pretesa di apparire persone esemplari da parte di coloro che sono sempre pronti a celare le proprie bassezze morali sotto il velo della virtù.
Il falso devoto è ridicolo, ingombrante, irritante, come appare attraverso la pungente rappresentazione che ne ha dato Molière nel Tartufo o l’impostore.
Ma soprattutto rende un cattivo servizio a Dio che egli peraltro crede di onorare con una religiosità tutta risolta in pratiche esteriori.
Nulla spinge di più all’ateismo che la falsa devozione” ha scritto Jean Sulivan, un autore particolarmente attento a scrutare il fondo oscuro dell’animo umano, là dove tra ambiguità e simulazioni si consuma il tradimento peggiore che è quello nei confronti della propria fede.
Se qualcuno ha potuto dire: “Quando sento parlare di Dio, metto mano alla pistola”, è perché si è trovato davanti non il Dio del vangelo, ma un Dio moralistico che premierebbe gli scrupolosi osservanti della legge, quelli che lo onorano con tante piccole pratiche religiose, mentre si dimenticano che l’unica legge che conta è quella dell’amore.
Dio è amore, ci ha ricordato più volte l’apostolo Giovanni.
Per cui si impone immediatamente questa riflessione: il vero ateo è colui che non ama, che non sa amare.
Dice infatti Giovanni: “Chi non ama, non ha conosciuto Dio”.
È lui il vero ateo, il vero senza Dio.
Che dire allora delle preghiere con le quali certe persone scandiscono il loro tempo per ricevere un giorno il premio promesso?
Non c’è da intenerirsi troppo, se si pensa che esse sono spesso forme di ripiegamento sulle ragioni esclusive del proprio io.
C’è dunque una devozione atea che si apparenta facilmente con l’ateismo devoto.
In entrambi i casi c’è un io che rimane precluso al soffio della preghiera autentica.
A questo punto può essere opportuno richiamare qualche nota che appartenga in forma imprescindibile alla esperienza della preghiera, quale che sia la sua particolare espressione religiosa.
Già abbiamo avuto modo di associare alla preghiera l’immagine del soffio, come a dire che la vera preghiera ha sempre un connotazione di respiro, di leggerezza, di espansione degli spazi vitali oltre i limiti dell’esistente.
A questo senso di scioltezza e di libertà si accompagna una naturale disposizione a ciò che Kierkegaard chiamava la passione dell’interiorità per cogliere le vibrazioni di infinito che attraversano il nostro mondo finito e, al tempo stesso, non dovrebbe mancare una nota di stupore
di fronte al rivelarsi dell’inatteso e dell’insperato.
Si prova allora la felicità semplice di chi non ha nulla da dire né da domandare, ma gode di trovarsi in un rapporto di immensa tenerezza con tutti gli esseri nella cui presenza gli è dato talvolta di avvertire le tracce di una presenza più grande.
Questo desiderio di comunione universale che segna profondamente la coscienza del vero orante mi pare sia stato felicemente celebrato da Erri De Luca in un suo componimento poetico (è intitolato Valori e lo voglio citare per intero) che, pur non prendendo le movenze usuali di una preghiera, custodisce e rivela l’anima e il pathos di una autentica:preghiera:

Considero valore / ogni forma di vita / la neve, la fragola, la mosca. /
Considero valore / il regno minerale / l’assemblea delle stelle. /
Considero valore il vino / finché dura il pasto, / un sorriso involontario, /
la la emblea delestelle:
regno minerale / l'stanchezza di chi / non si è risparmiato, /due vecchi che si amano. /
Considero valore quello che / domani non varrà più niente / e quello che oggi vale ancora poco. /
Considero valore / tutte le ferite. /
Considero valore / risparmiare acqua, / riparare un paio di scarpe, /
tacere in tempo, /accorrere a un grido, / chiedere permesso / prima di sedersi, /
provare gratitudine senza / ricordare di che. /
Considero valore sapere in una / stanza dov’è il nord, /
qual è il nome del vento che sta / asciugando il bucato. /
Considero valore il / viaggio del vagabondo, / la clausura della monaca, /
la pazienza del condannato, / qualunque colpa sia. /
Considero valore l’uso / del verbo amare / e l’ipotesi che esista un creatore. /
Molti di questi / valori non ho / conosciuto.

(scritto per Odissea numero sttembre-ottobre 2007 pag.20)

Personale di Gianfranco Cattaneo

Quando tento di interpretare la vicenda artistica di Gianfanco Cattaneo, mi soccorre una frase di Picasso: "Occorre molto tempo per diventare giovani".
Che Gianfranco Cattaneo goda di una invidiabile condizione fisica nonostante gli anni che l’anagrafe gli assegna, è un fatto che riempie di stupore coloro che hanno la fortuna di avvicinarlo.
Ma ancora più sorprendente è la freschezza con cui si dedica all’attività pittorica, da lui riscoperta una volta cessata l’attività professionale, quando altri avvertono la stanchezza che li induce a seguire in forme ripetitive una pratica già lungamente collaudata..
Giovane è lo sguardo sempre vivo e interrogante, giovane la luce che brilla nei suoi occhi, giovane la passione con cui si innamora di un soggetto fino al suo pieno compimento
Di questo fervore creativo la prova più eloquente ti viene data quando, visitando la sua abitazione, hai l’impressione di trovarti in un immenso atelier.
Tutto è in ordine e tutto al tempo stesso tradisce un fremito di impazienza nel realizzare quello che egli ha già contemplato nella camera segreta del suo mondo interiore.
Se è vero che si è scelto uno studiolo come luogo privilegiato del suo rapporto con l’arte (è lì che trovi sempre su un cavalletto un nuovo lavoro in gestazione), bisogna subito aggiungere che il dinamismo creativo deborda e si irradia in ogni angolo della casa dove, appoggiate alle pareti, ti è dato di osservare tele ultimate e altre appena abbozzate, in un disordine solo apparente perché di ciascuna Gianfranco Cattaneo saprebbe tracciare una piccola storia, come se fosse l’unica a meritare in quel momento tutta la sua attenzione.
Secondo un famoso aforisma di Oscar Wilde in letteratura (ma anche, pare di capire, in ogni altra espressione artistica) l’ispirazione conta il dieci per cento, mentre il novanta per cento è solo traspirazione.
Pensando a Gianfranco Cattaneo mi sento di rovesciare questo rapporto assegnando il ruolo più importante proprio all’ispirazione, o se si vuole, all’entusiasmo con cui si dedica all’attività pittorica vincendo in tal modo il peso della traspirazione, cioè del sudore, della fatica, delle ore sottratte a un meritato riposo.
Ho parlato di entusiasmo, ma vorrei precisare.
Non si tratta di una semplice propensione a realizzarsi lasciandosi sollecitare da qualcosa che già si possiede, ma di una tensione verso l’assoluto, verso un orizzonte di pura bellezza in cui sia possibile percepire la presenza del divino, come del resto suggerisce l’etimologia della parola entusiasmo dove compare il termine theòs, cioè Dio.
Per raggiungere questo orizzonte Cattaneo si è affidato a una poetica molto essenziale: ha puntato tutto sulla nostalgia e sul colore.
La nostalgia lo ha portato a rivisitare le opere dei grandi maestri, soprattutto fiamminghi, nel cui mondo fantastico ha visto rispecchiati i sentimenti che meglio definiscono la sua segreta identità.
Le malinconie di certe ore crepuscolari, la poesia della natura al suo ridestarsi, l’incantevole stupore che si esprime in paesaggi colmi di luce come pure la festevole allegria che trascorre in una festa paesana rappresentano – è un giudizio unanime - il fascino particolare delle opere di certi maestri fiamminghi e olandesi, come quelli appartenenti alla grande famiglia dei Brueghel.
Ora, questo fascino è possibile avvertirlo anche nelle tele di Gianfranco Cattaneo il quale si é posto davanti ai modelli di questi grandi artisti non con la puntigliosa ma fredda fedeltà del copista, bensì con la calda partecipazione emotiva di chi si è lasciato toccare da quelle immagini tanto da ricrearle con una felice libertà interpretativa.
Non è però su certe volute difformità che bisogna indugiare per mettere in luce la novità della sua arte.
Senza dubbio ha dilatato le misure delle immagini originali (che a volte hanno le dimensioni di una semplice cartolina) e ha giocato con i dettagli di certe scene ora inventandone alcuni, ora sopprimendone altri, ma è giunto il momento di affermare che il valore del suo esercizio pittorico sta tutto nel sapiente trattamento del colore.
E’ nella resa di certe atmosfere indefinite e come sospese che Gianfranco Cattaneo dà il meglio della sua sensibilità pittorica con la delicatezza delle sue pennellate e le vibrazioni cromatiche che riesce a ottenere.
Un diverso sentimento del colore è quello che Cattaneo ci comunica
attraverso le immagini quanto mai suggestive delle sue nature morte.
Qui ci sono vasi e cesti traboccanti di frutta che si impongono all’attenzione con l’immediatezza della loro superba bellezza.
Qui l’artista, dopo aver accarezzato con lo sguardo questi doni che sembrano provenire da una favolosa cornucopia, ci rende partecipi del suo stupore, servendosi della forza mimetica ed evocativa dei colori.
Non è forse questa una delle principali funzioni assegnate all’arte?
Ecce pictura: così recita un cartiglio che Maurizio Bottoni, un pittore innamorato della tradizione, ha posto a commento di una delle sue ultime opere. La tela presenta su un vassoio la testa del pittore (un macabro autoritratto!), recisa come quella del Battista.
Si tratta di una sorta di cordoglio sulla pittura tradizionale, sacrificata, è facile intuire, da ciò che di eversivo viene espresso dalle nuove avanguardie.
Ecce pictura potrebbe figurare anche in qualche natura morta di Gianfranco Cattaneo.
In questo caso l’iscrizione, abbandonato ogni intento provocatorio, suonerebbe come festosa celebrazione di un’arte che trae dalla realtà l’impulso iniziale a creare immagini le quali poi, per l’afflato poetico da cui sono investite, vengono a trasfigurarsi in icone di pura bellezza.
E’questo il miracolo della vera arte.

lunedì 3 settembre 2007

* Spigolature (1 settembre)

Proposta di iscrizione su una lapide mortuaria:

“Qui giace il nostro caro defunto n.n. (personalmente avrei un nome da suggerire ): nell’unico posto che in vita non ha ambito ardentemente occupare”.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Qualità richieste per la promozione al canonicato:

platitudo pedum,
latittudo ventris,
hebetudo mentis.

Personalmente trovo più gustosa la sintesi che di queste qualità è racchiusa in un famoso detto brianzolo:
quand san pu ‘se fa d’un om, el fan Monsciur del Dom.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

E c'è chi ha inventato queste altre due strofe di cui mi limito ad apprezzare la rima (baciata).

Mi chiedi: e quand un munsciur el va in naftalina?
Semplice: ghe mettenn in co la papalina.

E se la papalina le va in sumenza?.
Avanti un alter: se poeu minga fa senza.

lunedì 20 agosto 2007

*spigolature (19 agosto)

Spigolature

"El nost Signur n’a pruvà tanti , però l’à mai pruvà a ves vecc."

(raccolta dalla viva voce di un contadino, ormai quasi novantenne, del lodigiano).

domenica 19 agosto 2007

Scritto su Saba

15 / 08 / 07


Scritto su Saba

Oggi mi sono procurato una copia dell’Avvenire perché sapevo che vi avrei trovato una pagina dedicata a Umberto Saba nel cinquantesimo anniversario della sua morte.
Ero curioso di vedere come avessero trattato le note che mi erano state chieste sul rapporto tra il grande poeta triestino e il mondo della fede, in particolare tra la sua formazione nell’ambito della cultura ebraica e un certo documentato interesse per il mondo cristiano.
Perché avevo accettato di collaborare?
Interpellato una prima volta per telefono, avevo saputo che il mio nome era stato suggerito da p. Castelll, il grande studioso delle problematiche religiose presenti nella letteratura del ‘900, con il quale mi sento tuttora in debito per alcune generose recensioni dedicate ai miei scritti.
Dopo avere promesso la mia disponibilità, mi sono visto arrivare nel mio studio un giovane giornalista il quale candidamente mi confessò che, mentre il suo compito presso il giornale era quello di occuparsi abitualmente di fatti di cronaca, aveva ottenuto dalla redazione il permesso di trattare qualche tema di letteratura su cui si sentisse particolarmente preparato.
Come avrei potuto mortificare lo slancio di un giovane che voleva dialogare con le grandi figure della letteratura del ‘900?
E vengo ora a parlare delle ragioni per cui la lettura dell’articolo su Saba mi ha notevolmente amareggiato,
Premetto che non mi aspettavo di vedere il mio nome in bella evidenza sulla pagina del quotidiano (fortunatamente mi ritengo immune da queste debolezze di tipo narcisistico), ma che almeno fossero rispettate le note da me trasmesse.
Proprio per evitare che fossero stravolte, avevo subito bloccato il giovane giornalista quando lo vidi avvicinarsi a me munito di un piccolo registratore.
No, alle domande preferivo dare risposte scritte.
Si può immaginare pertanto la mia tristezza nel vedere che l’unica frase che mi viene attribuita (introdotta con le debite virgolette che poi ci si è dimenticati di chiudere) non mi appartiene nel modo più assoluto.
A parte il disappunto dovendo costatare ancora una volta quanto sia difficile offrire la collaborazione a un giornale senza correre il rischio di essere fraintesi o strumentalizzati, mi è parso che tutto l’’articolo fosse al servizio di un intento che non potevo condividere.
Mentre il mio baldo e militante giornalista si era preoccupato di vedere le ragioni del mancato battesimo di Saba, muovendosi secondo una prospettiva di tipo apologetico, io, che l’avevo messo in guardia da iniziative annessionistiche proprie di una certa cultura cattolica, avrei desiderato portare l’attenzione sul fascino particolare della personalità di Gesù da cui Saba si era lasciato conquistare.
Convinto che questo sarebbe stato il modo migliore, per un giornale come l’Avvenire, di ricordare Unmberto Saba, allego le note che avevo consegnato all’autore dell’articolo e che da lui sono state completamente ignorate.

D.: Quali sono le sue impressioni sullo scritto -Lettere a un amico vescovo- e sulla amicizia di Saba con il vescovo Giovanni Fallani?
R.: Quando nel 1981 ho avuto tra le mani questo volumetto edito da La locusta con le lettere scambiate da Umberto Saba con il vescovo Giovanni Fallani, mi è parso che la lunga confessione poetica raccolta sotto il titolo ultimo Il Canzoniere avrebbe potuto arricchirsi di altre motivazioni e di ben più profonde interrogazioni, se solo Saba avesse avuto, nel declinare delle sue forze, lo scatto necessario per dare forma poetica al sentimento religioso di cui le lettere ci offrono una preziosa, sorprendente testimonianza.
Saba, che aveva sempre cantato gli accadimenti della quotidianità cercando di scoprire di volta in volta, sotto il velo di questa realtà così dimessa, il palpito di un mistero capace di restituire dignità e grandezza anche alle creature e alle situazioni più umili, avrebbe potuto attingere a questa recuperata dimensione religiosa quella pienezza di senso verso cui anelava con tutta l’onestà del suo esercizio poetico.
In questo volumetto si può seguire –ed è un dono meraviglioso- la storia di un’amicizia esemplare perché vissuta non solo sul piano di una reciproca stima, ma anche di una calda adesione affettiva da parte di due persone che pure provenivano da due mondi culturali tanto diversi e, al tempo stesso, c’è il dispiegarsi di un’altra amicizia più segreta, quella che Saba sente nei confronti di Gesù.
Le lettere ne parlano chiaramente sottraendo il caso Saba al sospetto di quelle iniziative annessionistiche di cui veniva accusata una certa cultura cattolica proprio in quegli anni (non si dimentichi la polemica relativa alla vera o presunta conversione di Curzio Malaparte, morto nel 1957, lo stesso anno di Saba).

D.: Quali sono nel percorso esistenziale di Saba le occasioni e le ragioni che hanno favorito il suo rapporto con Gesù?
R.: L’incontro con Gesù non è avvenuto per una improvvisa apertura al mondo della fede, ma attraverso una serie di approssimazioni disseminate lungo il percorso di tutta la sua vita.
Un ruolo particolare va assegnato negli anni dell’infanzia alla balia di cui Saba, che proveniva da una famiglia ebrea, ricevette la prima educazione alle parole e alle immagini del mondo religioso cristiano.
Doveva essere una donna molto pia se è vero (Saba stesso ce lo ricorda) che teneva a capo del letto un’immagine di Gesù bambino, lo conduceva con sé la sera alla Chiesa del Rosario e gli faceva recitare il Padre Nostro in sloveno.
Questo corredo di emozioni non si sarebbe mai più cancellato, tanto che, il giorno in cui venne tumulata la moglie Lina, sorprese tutti i presenti recitando lui stesso ad alta voce il Padre Nostro.
Il legame con la figura esemplare di Gesù ha trovato poi in quegli anni, momenti di struggente intensità. Erano gli anni in cui Saba rimase molto provato da tante sofferenze, soprattutto dalla malattia che aveva colpito la carissima moglie.
In una lettera al vescovo Fallani c’è una confidenza particolarmente toccante:
“Quando mia moglie era ancora a casa e, almeno a tratti, in sé, le ho parlato un giorno di Gesù (non –badi- di Gesù Cristo, ma di Gesù semplicemente). Si era a tavola e pareva molto commossa; tanto che, appena la aiutai a mettersi a letto, le dissi: -Lina mia, vuoi che ci baciamo in Gesù?-.
La povera vecchia mi rispose: -Magari-. Abbiamo provato entrambi momenti di grande dolcezza; ci siamo baciati e abbiamo pianto”.
In quegli stessi anni altri autori, movendosi da esperienze diverse, si erano lasciati conquistare dal fascino della personalità di Gesù vedendo in lui l’immagine della vita, della giovinezza, della bellezza, della libertà.
Saba, che veniva da un’esperienza così profondamente segnata dal dolore, doveva necessariamente trovare in Gesù l’immagine speculare della sua condizione povera e vulnerabile,
Gesù assumeva ai suoi occhi i tratti del Christus patiens, del Gesù crocefisso, anche se della croce ignorava la forza di resurrezione.


D.: Leggendo questo scritto colpisce che Gesù per Saba è un grande personaggio ma non è il figlio di Dio. Accetta la storicità del personaggio ma non la sua divinità. Come si deve giudicare questa irrisolta posizione dal punto di vista della fede cristiana?
R.: Il Gesù a cui Saba riserva questa grande ammirazione non è ancora il Cristo della fede. Lui stesso lo riconosce con grande sincerità confessando di considerare “Gesù come l’uomo che si è avvicinato al divino o,almeno,a quello che i poveri uomini immaginano essere il divino”.
E aggiungeva; “Sì, amo infinitamente Gesù, ma (se così oso dire) amo come un ponte fra l’uomo e il divino. Lo amo come un ‘fratello’; infinitamente grande, infinitamente buono e amabile. Ho bisogno di credere, di appoggiare, in ogni caso, la mia disperazione a Gesù”.
Su questo cammino di approssimazione a Gesù, il termine estremo per chi si lascia condurre da uno stupore che non è ancora il sentimento della fede, è una sorta di abbagliamento per una luce impossibile da sostenere. E’ “un abisso di luce”, ebbe a dire un giorno Kafka, per cui “bisogna chiudere gli occhi per non precipitare”.
Anche Saba deve avere avvertito questo senso di vertigine di fronte alla suprema alterità di Gesù.
Certo ha ragione Bonhoeffer quando osserva che “Cristo viene sempre tradito da un bacio”, facendo capire che certe celebrazioni di Gesù Cristo che ne fanno un uomo grande, un saggio, un giusto non bastano a salvare il mistero del suo particolare rapporto con Dio.
Ma va anche detto che queste diverse immagini, anche se parziali e riduttive, hanno comunque il merito di mettere in luce vari aspetti della sua straordinaria ricchezza e di evidenziare il dinamismo perenne della sua presenza.
Soprattutto se a interrogare in modo nuovo la figura di Gesù sono persone che, come Saba, vanno cercando per la loro fame di verità e di speranza quelle risposte che nessuno più è in grado di dare.



mercoledì 15 agosto 2007

Tesoro il cuore

Si parla tanto in questi tempi del cosiddetto tesoretto, cioè di quella voce positiva per i conti pubblici rappresentata da un gettito fiscale superiore alle previsioni.
E se ne parla continuamente perché si è aperto il problema del suo utilizzo.
immediato.
Non ho alcuna intenzione di addentrarmi in questo campo specifico, ma vorrei svolgere una breve riflessione a partire da qualche passo della Bibbia in cui ricorre la parola tesoro.
Il più importante è senza dubbio quello che si trova nel discorso della montagna in cui si legge questa massima: “Là dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.
Quando qualcosa si configura ai nostri occhi come tesoro, c’è una sorta di mobilitazione di tutte le energie in ordine alla conquista, al possesso, alla difesa, al godimento di ciò che rappresenta il bene più grande o il senso più alto della propria esistenza.
Lo ha fatto capire chiaramente Gesù con quella piccola parabola in cui il protagonista, dopo avere rinvenuto un tesoro in un campo, impegna tutte le sue risorse per venirne in possesso con le garanzie della legge.
Il problema è di non sbagliare nel giudicare tesoro ciò che potrebbe non esserlo.
E qui la questione si fa particolarmente delicata.
Rimane sempre vero che il cuore dimora là dove ha trovato il suo tesoro, ma se questo è costituito da beni provvisori e peribili, il cuore può assumere facilmente un atteggiamento possessivo ed esclusivo, rinnegando la bellezza di un’adesione limpida che abbia le connotazioni dello stupore e della condivisione.
È ciò che si può osservare nelle divisioni delle eredità, o anche, sia pure sotto un diverso profilo, nelle discussioni attuali riguardanti la collocazione del cosiddetto tesoretto.
Quando si tratta di spartire beni immediatamente fruibili, è facile che insorga un animus predatorio che cancella totalmente le ragioni del cuore.
A questo punto, sempre sul tema del rapporto che esiste tra cuore e tesoro, vorrei fare appello a una bellissima affermazione che si trova nel libro del Siracide: “Chi trova un amico, trova un tesoro”.
Si tratta di una verità talmente sentita che nel linguaggio di due persone che si amano è facile che ricorrano ancora espressioni di questo tipo: “Mio tesoro…; tesoro mio…”.
In questo caso è il cuore che inventa, per così dire, il tesoro.
Potrebbe trattarsi di una persona semplice, senza alcuna di quelle qualità che rappresentano una fortuna agli occhi del mondo.
Eppure, per un cuore che ama, assume il valore di un bene unico, incomparabile, insostituibile.
Perciò la frase gia citata del vangelo potrebbe tradursi in quest’altra affermazione: “Là dove è il tuo cuore, là sarà anche il tuo tesoro”.
È il cuore che ha il potere di trasfigurare la realtà rendendo grande ciò che è piccolo, luminoso ciò che è oscuro, straordinario ciò che è usuale.
E il cuore che sente i passi della presenza nascosta di Dio.
Molti si chiedono: “E’ utile la fede?” e cercano le ragioni che la possano rendere proponibile e plausibile.
Ma la fede non si regge su argomentazioni di tipo apologetico.
La fede è una questione soprattutto di amore e come tale sa intuire la stupenda prodigalità di un Dio che va disseminando i suoi prodigi rivestendoli della bellezza della discrezione.
E’ quello che Gabriel Garcia Marquez ha tentato di suggerire con un breve scritto intitolato Saluto agli amici, di cui mi piace citare qualche passo tra i più espressivi del suo intenso pathos religioso.
“Se per un istante Dio si dimenticasse che sono una marionetta di pezza e mi regalasse un pezzo di vita, (…) dormirei poco, sognerei di più, capirei che per ogni minuto in cui chiudiamo gli occhi perdiamo sessanta secondi di luce.
Camminerei quando gli altri si fermano, starei sveglio quando gli altri dormono.
Dio mio, se io avessi un cuore scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei che si sciogliesse al sole. Annaffierei con le mie lacrime una rosa, per sentire il dolore delle sue spine e il bacio carnoso dei suoi petali.
Dio mio, se io avessi un pezzo di vita, non lascerei passare un solo giorno senza dire alle persone che amo, che le amo. Convincerei ogni donna e uomo che sono i miei favoriti e vivrei innamorato dell’amore. Agli uomini dimostrerei quanto si stanno sbagliando pensando che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza sapere che invecchiano quando smettono di innamorarsi!
A un bambino darei ali, però lascerei che imparasse da solo a volare.
Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia, ma con l’oblio.”

sabato 11 agosto 2007

*spigolature

“Non credo che l’ispirazione giochi un ruolo importante nella letteratura.
Sono sempre più convinto che Oscar Wilde avesse ragione: l’ispirazione
conta il dieci per cento, mentre il novanta per cento è solo traspirazione.”

(Carlos Fuentes)



“Padre nostro, che sei in cantina,
sia lodata la tua medicina,
venga a noi il tuo buon vino,
purchè sia sano e genuino.
Sia fatta la tua volontà
nel goderne in quantità.”

(da La Gazzetta dello Sport 23/05/07 pag.33)

Alla tua luce affido la mia notte

Giugno 2007

Dei diversi volumetti per lo più di poesia che avevo pensato di offrire agli amici in occasione dell’appuntamento conviviale che avrebbe concluso la serie degli incontri settimanali (quest’anno la cena si è svolta felicemente nella mia nuova casa), uno solo è rimasto, trascurato, sul tavolo.
Come mai nessuno si era degnato di prendere la raccolta completa delle poesie di Cesare Pavese?
Mi sono detto: Sarà perchè queste poesie sono già troppo conosciute e possedute da ciascuno..
Eppure avevo notato che qualcuno il mio volumetto l’aveva sfogliato con interesse e curiosità.
E allora ho pensato: Non sarà invece per quel verso famoso (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) che ha dato il titolo a una intera sezione della raccolta?.
È un verso che da quella sera mi accompagna assiduamente tanto da entrare come un refrain nelle mie riflessioni e da sollecitarmi ad una parafrasi in forma di preghiera.

Questa:

Verrà la morte e avrà i miei occhi
la cui luce si va spegnendo a poco a poco
sotto palpebre grevi di stanchezza
o dietro velature di nostalgie e rimpianti.

Verrà la morte e avrà i miei occhi
che più non distinguono i contorni delle cose
mentre vedono approssimarsi il “muro d’ombra”
oltre il quale si dispiega il mistero dell’eterno.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
Signore Gesù, che balzando quel mattino dal sepolcro
hai inaugurato per tutti un giorno nuovo
restituendo la luce ai nostri occhi spenti.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi:
occhi dolci, accoglienti, perdonanti;
alla tua luce affido la mia notte
nell’attesa di un risveglio colmo di stupore.

Odi et amo

Luglio 2007

Non trovo altre parole per definire il mio rapporto con il computer.
Se mai mi venisse a mancare, anche questi pochi pensieri vagabondi sarebbero
destinati a un vagabondaggio continuo e dispersivo, senza alcuna possibilità di vederli fissati, almeno per qualche breve margine di tempo, su una pagina bianca.
Proprio per questa sua indispensabile funzione, mi pare di patire un affronto particolarmente grave tutte le volte che incrocia, per così dire, le braccia e si rifiuta di collaborare.
Perché questi dispetti per cui mi capita di vedermi sparire pagine intere di un lavoro appena concluso?
È come voler fare uno sgambetto (uso un’immagine cara a Nietzsche) a chi già si regge male per conto suo.
Ecco perché in questi casi provo una profonda avversione contro uno strumento di lavoro di cui peraltro sono pronto a riconoscere tutte le benemerenze che me lo rendono compagno insostituibile e inseparabile.
Odi et amo, dicevo.
Questa dialettica sentimentale l’ho avvertita anche recentemente quando il mio portatile si è bloccato senza alcuna possibilità, da parte mia, di indurlo a più miti consigli.
L’unica nota di vita era una finestrella che ostinatamente si apriva per avvertirmi come un certo disco fosse sovraccarico di memorie (naturalmente riferisco con un linguaggio assai approssimativo) e fosse pertanto necessario alleggerirlo per poterlo riattivare.
Devo confessare che in una situazione tanto sgradevole non mi è mancata una nota di conforto.
Mi rendevo conto infatti che se anche il computer le cui capacità di memorizzare avrei sempre considerato pressoché illimitate, pativa certe défaillances, non dovevo preoccuparmi più di tanto per le mie amnesie senili.
Ecco come stanno le cose, mi dicevo. Anche nella mia testa c’è come un disco che con il passare degli anni ha raccolto troppe memorie.
È giusto perciò che abbandoni parte di questo bagaglio eccessivo per lasciare spazio alle novità che premono per essere ospitate e custodite dentro la sfera segreta del mio mondo interiore.
Ma ripensandoci mi accorgo subito che questa visione meccanicistica del processo memoriale non ne coglie per nulla il lato umano, cioè le vibrazioni ed emozioni che vi sono connesse.
Ricordare, rammentare, rimembrare stanno a significare (se l’etimologia non mi inganna) operazioni che si iscrivono nella profondità dell’essere umano .
Perciò a me pare importante distinguere tra memoria e ricordo.
Memoria potrebbe essere la registrazione puntigliosa delle cose, con uno sguardo neutro, impassibile, distaccato.
A queste memorie opache e inerti, affidate, come è giusto, ai meccanismi di un computer, fanno riscontro i ricordi che, per il fatto di essere filtrati attraverso una calda adesione emotiva, sono sempre vivi e creativi.
Non importa che i ricordi perdano i contorni precisi che avevano in passato, non importa che tu abbia dimenticato totalmente la vicenda di un racconto come pure di un film che ti era molto caro.
Ciò che importa è la traccia pressoché impercettibile, come un profumo o una iridescenza lieve, che comunque ha arricchito la tua umanità.
Succede, a me pare, quello che avviene per gli incontri che abbiamo vissuto e di cui abbiamo smarrito ogni riferimento.
Tutti questi incontri ci hanno lasciato qualcosa.
Possiamo perciò dire che quello che siamo lo dobbiamo a tutte quelle persone che in tempi diversi hanno incrociato positivamente la nostra esistenza e ci hanno fatto dono di una parola significativa, di un gesto di amicizia, di un’attenzione particolare.
Siamo quello che abbiamo ricevuto, anche se non si è più in grado di richiamare i vari momenti in cui qualcuno ci ha elargito una nota della sua gratuita sensibilità.
I ricordi più cari li dovremmo riservare ai passaggi di Dio nella nostra vita.
Nel diario di Julien Green c’è una nota meravigliosa tanto che mi capita di citarla spesso con profonda commozione:
Se dovessi partire questa sera e mi si domandasse che cosa mi ha maggiormente commosso in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini.
Tutto si perde nell'amore. Anche se saremo giudicati sull'amore, non è meno vero che saremo giudicati dall'amore, cioè da Dio.
Questo mi porta a sperare che il Signore, quando ci accoglierà sulla soglia dell’eterno, non farà intervenire una sorta di verbale su cui saranno annotati tutti i nostri comportamenti secondo la loro collocazione morale, ma vorrà confidarci i ricordi più belli, quelli che maggiormente lo avranno rallegrato.
Sarà l’inizio della festa dei ricordi, in cui ciascuno godrà nel richiamare e condividere ciò che di più prezioso è custodito nel suo cuore.

mercoledì 8 agosto 2007