martedì 17 giugno 2008

Ma so che una ragione ci deve pure essere


C’è un modo maldestro di consolare gli afflitti.
E’ quello di chi, accanto alla situazione che ti fa soffrire, te ne prospetta un’altra ben più grave per cui sei come costretto ad ammettere: “Posso dirmi davvero fortunato, visto che mi poteva andare
molto peggio”.
Accenni a qualche tuo limite nei movimenti?
E subito trovi chi ti aggiorna sulle condizioni di un comune amico (“Te lo ricordi, vero, com’era?”) il quale, colpito da sclerosi multipla, è ridotto ora in uno stato penoso e pietoso.
Ti capita di accusare qualche piccolo vuoto di memoria?
Ma che cosa è mai se messo a confronto con quanto è successo a quel signore (“Dovresti conoscerlo anche tu o, comunque, ne avrai certo sentito parlare”) il quale, dopo essere passato quel mattino in posta a sbrigare una piccola pratica, non ha saputo più trovare la via del ritorno: un caso di alzheimer fulminante da cui non si sarebbe più ripreso.
Capisco che è difficile consolare chi ogni giorno si trova a dover lottare contro i guasti provocati dalla malattia o dall’età avanzata,
In questi casi bisognerebbe avere almeno il buon senso di non aggravare la situazione con parole o gesti impropri, anche se dettati dal desiderio di recare qualche sollievo.
Pensavo, mentre stendevo questa nota, alla storiella di quel tale che in piazza Duomo si trovò indecorosamente schizzato sul suo sparato bianco da un piccione, vai a sapere se perchè incontinente o dispettoso.
Che fare? Come prendersela con quell’impunito che ora forse volteggiava, beato, pin in alto, tra le guglie della cattedrale?
Non gli restò che rifugiarsi in questo lapidario commento:“Vivaddio che non volano le mucche”.
Non so perché ho citato questa storiella.
Ma sono certo che una ragione ci deve pure essere.
Lascio a voi, se mai vi riesce, di scoprirla.

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