Spigolature
"El nost Signur n’a pruvà tanti , però l’à mai pruvà a ves vecc."
(raccolta dalla viva voce di un contadino, ormai quasi novantenne, del lodigiano).
lunedì 20 agosto 2007
domenica 19 agosto 2007
Scritto su Saba
15 / 08 / 07
Scritto su Saba
Oggi mi sono procurato una copia dell’Avvenire perché sapevo che vi avrei trovato una pagina dedicata a Umberto Saba nel cinquantesimo anniversario della sua morte.
Ero curioso di vedere come avessero trattato le note che mi erano state chieste sul rapporto tra il grande poeta triestino e il mondo della fede, in particolare tra la sua formazione nell’ambito della cultura ebraica e un certo documentato interesse per il mondo cristiano.
Perché avevo accettato di collaborare?
Interpellato una prima volta per telefono, avevo saputo che il mio nome era stato suggerito da p. Castelll, il grande studioso delle problematiche religiose presenti nella letteratura del ‘900, con il quale mi sento tuttora in debito per alcune generose recensioni dedicate ai miei scritti.
Dopo avere promesso la mia disponibilità, mi sono visto arrivare nel mio studio un giovane giornalista il quale candidamente mi confessò che, mentre il suo compito presso il giornale era quello di occuparsi abitualmente di fatti di cronaca, aveva ottenuto dalla redazione il permesso di trattare qualche tema di letteratura su cui si sentisse particolarmente preparato.
Come avrei potuto mortificare lo slancio di un giovane che voleva dialogare con le grandi figure della letteratura del ‘900?
E vengo ora a parlare delle ragioni per cui la lettura dell’articolo su Saba mi ha notevolmente amareggiato,
Premetto che non mi aspettavo di vedere il mio nome in bella evidenza sulla pagina del quotidiano (fortunatamente mi ritengo immune da queste debolezze di tipo narcisistico), ma che almeno fossero rispettate le note da me trasmesse.
Proprio per evitare che fossero stravolte, avevo subito bloccato il giovane giornalista quando lo vidi avvicinarsi a me munito di un piccolo registratore.
No, alle domande preferivo dare risposte scritte.
Si può immaginare pertanto la mia tristezza nel vedere che l’unica frase che mi viene attribuita (introdotta con le debite virgolette che poi ci si è dimenticati di chiudere) non mi appartiene nel modo più assoluto.
A parte il disappunto dovendo costatare ancora una volta quanto sia difficile offrire la collaborazione a un giornale senza correre il rischio di essere fraintesi o strumentalizzati, mi è parso che tutto l’’articolo fosse al servizio di un intento che non potevo condividere.
Mentre il mio baldo e militante giornalista si era preoccupato di vedere le ragioni del mancato battesimo di Saba, muovendosi secondo una prospettiva di tipo apologetico, io, che l’avevo messo in guardia da iniziative annessionistiche proprie di una certa cultura cattolica, avrei desiderato portare l’attenzione sul fascino particolare della personalità di Gesù da cui Saba si era lasciato conquistare.
Convinto che questo sarebbe stato il modo migliore, per un giornale come l’Avvenire, di ricordare Unmberto Saba, allego le note che avevo consegnato all’autore dell’articolo e che da lui sono state completamente ignorate.
D.: Quali sono le sue impressioni sullo scritto -Lettere a un amico vescovo- e sulla amicizia di Saba con il vescovo Giovanni Fallani?
R.: Quando nel 1981 ho avuto tra le mani questo volumetto edito da La locusta con le lettere scambiate da Umberto Saba con il vescovo Giovanni Fallani, mi è parso che la lunga confessione poetica raccolta sotto il titolo ultimo Il Canzoniere avrebbe potuto arricchirsi di altre motivazioni e di ben più profonde interrogazioni, se solo Saba avesse avuto, nel declinare delle sue forze, lo scatto necessario per dare forma poetica al sentimento religioso di cui le lettere ci offrono una preziosa, sorprendente testimonianza.
Saba, che aveva sempre cantato gli accadimenti della quotidianità cercando di scoprire di volta in volta, sotto il velo di questa realtà così dimessa, il palpito di un mistero capace di restituire dignità e grandezza anche alle creature e alle situazioni più umili, avrebbe potuto attingere a questa recuperata dimensione religiosa quella pienezza di senso verso cui anelava con tutta l’onestà del suo esercizio poetico.
In questo volumetto si può seguire –ed è un dono meraviglioso- la storia di un’amicizia esemplare perché vissuta non solo sul piano di una reciproca stima, ma anche di una calda adesione affettiva da parte di due persone che pure provenivano da due mondi culturali tanto diversi e, al tempo stesso, c’è il dispiegarsi di un’altra amicizia più segreta, quella che Saba sente nei confronti di Gesù.
Le lettere ne parlano chiaramente sottraendo il caso Saba al sospetto di quelle iniziative annessionistiche di cui veniva accusata una certa cultura cattolica proprio in quegli anni (non si dimentichi la polemica relativa alla vera o presunta conversione di Curzio Malaparte, morto nel 1957, lo stesso anno di Saba).
D.: Quali sono nel percorso esistenziale di Saba le occasioni e le ragioni che hanno favorito il suo rapporto con Gesù?
R.: L’incontro con Gesù non è avvenuto per una improvvisa apertura al mondo della fede, ma attraverso una serie di approssimazioni disseminate lungo il percorso di tutta la sua vita.
Un ruolo particolare va assegnato negli anni dell’infanzia alla balia di cui Saba, che proveniva da una famiglia ebrea, ricevette la prima educazione alle parole e alle immagini del mondo religioso cristiano.
Doveva essere una donna molto pia se è vero (Saba stesso ce lo ricorda) che teneva a capo del letto un’immagine di Gesù bambino, lo conduceva con sé la sera alla Chiesa del Rosario e gli faceva recitare il Padre Nostro in sloveno.
Questo corredo di emozioni non si sarebbe mai più cancellato, tanto che, il giorno in cui venne tumulata la moglie Lina, sorprese tutti i presenti recitando lui stesso ad alta voce il Padre Nostro.
Il legame con la figura esemplare di Gesù ha trovato poi in quegli anni, momenti di struggente intensità. Erano gli anni in cui Saba rimase molto provato da tante sofferenze, soprattutto dalla malattia che aveva colpito la carissima moglie.
In una lettera al vescovo Fallani c’è una confidenza particolarmente toccante:
“Quando mia moglie era ancora a casa e, almeno a tratti, in sé, le ho parlato un giorno di Gesù (non –badi- di Gesù Cristo, ma di Gesù semplicemente). Si era a tavola e pareva molto commossa; tanto che, appena la aiutai a mettersi a letto, le dissi: -Lina mia, vuoi che ci baciamo in Gesù?-.
La povera vecchia mi rispose: -Magari-. Abbiamo provato entrambi momenti di grande dolcezza; ci siamo baciati e abbiamo pianto”.
In quegli stessi anni altri autori, movendosi da esperienze diverse, si erano lasciati conquistare dal fascino della personalità di Gesù vedendo in lui l’immagine della vita, della giovinezza, della bellezza, della libertà.
Saba, che veniva da un’esperienza così profondamente segnata dal dolore, doveva necessariamente trovare in Gesù l’immagine speculare della sua condizione povera e vulnerabile,
Gesù assumeva ai suoi occhi i tratti del Christus patiens, del Gesù crocefisso, anche se della croce ignorava la forza di resurrezione.
D.: Leggendo questo scritto colpisce che Gesù per Saba è un grande personaggio ma non è il figlio di Dio. Accetta la storicità del personaggio ma non la sua divinità. Come si deve giudicare questa irrisolta posizione dal punto di vista della fede cristiana?
R.: Il Gesù a cui Saba riserva questa grande ammirazione non è ancora il Cristo della fede. Lui stesso lo riconosce con grande sincerità confessando di considerare “Gesù come l’uomo che si è avvicinato al divino o,almeno,a quello che i poveri uomini immaginano essere il divino”.
E aggiungeva; “Sì, amo infinitamente Gesù, ma (se così oso dire) amo come un ponte fra l’uomo e il divino. Lo amo come un ‘fratello’; infinitamente grande, infinitamente buono e amabile. Ho bisogno di credere, di appoggiare, in ogni caso, la mia disperazione a Gesù”.
Su questo cammino di approssimazione a Gesù, il termine estremo per chi si lascia condurre da uno stupore che non è ancora il sentimento della fede, è una sorta di abbagliamento per una luce impossibile da sostenere. E’ “un abisso di luce”, ebbe a dire un giorno Kafka, per cui “bisogna chiudere gli occhi per non precipitare”.
Anche Saba deve avere avvertito questo senso di vertigine di fronte alla suprema alterità di Gesù.
Certo ha ragione Bonhoeffer quando osserva che “Cristo viene sempre tradito da un bacio”, facendo capire che certe celebrazioni di Gesù Cristo che ne fanno un uomo grande, un saggio, un giusto non bastano a salvare il mistero del suo particolare rapporto con Dio.
Ma va anche detto che queste diverse immagini, anche se parziali e riduttive, hanno comunque il merito di mettere in luce vari aspetti della sua straordinaria ricchezza e di evidenziare il dinamismo perenne della sua presenza.
Soprattutto se a interrogare in modo nuovo la figura di Gesù sono persone che, come Saba, vanno cercando per la loro fame di verità e di speranza quelle risposte che nessuno più è in grado di dare.
Scritto su Saba
Oggi mi sono procurato una copia dell’Avvenire perché sapevo che vi avrei trovato una pagina dedicata a Umberto Saba nel cinquantesimo anniversario della sua morte.
Ero curioso di vedere come avessero trattato le note che mi erano state chieste sul rapporto tra il grande poeta triestino e il mondo della fede, in particolare tra la sua formazione nell’ambito della cultura ebraica e un certo documentato interesse per il mondo cristiano.
Perché avevo accettato di collaborare?
Interpellato una prima volta per telefono, avevo saputo che il mio nome era stato suggerito da p. Castelll, il grande studioso delle problematiche religiose presenti nella letteratura del ‘900, con il quale mi sento tuttora in debito per alcune generose recensioni dedicate ai miei scritti.
Dopo avere promesso la mia disponibilità, mi sono visto arrivare nel mio studio un giovane giornalista il quale candidamente mi confessò che, mentre il suo compito presso il giornale era quello di occuparsi abitualmente di fatti di cronaca, aveva ottenuto dalla redazione il permesso di trattare qualche tema di letteratura su cui si sentisse particolarmente preparato.
Come avrei potuto mortificare lo slancio di un giovane che voleva dialogare con le grandi figure della letteratura del ‘900?
E vengo ora a parlare delle ragioni per cui la lettura dell’articolo su Saba mi ha notevolmente amareggiato,
Premetto che non mi aspettavo di vedere il mio nome in bella evidenza sulla pagina del quotidiano (fortunatamente mi ritengo immune da queste debolezze di tipo narcisistico), ma che almeno fossero rispettate le note da me trasmesse.
Proprio per evitare che fossero stravolte, avevo subito bloccato il giovane giornalista quando lo vidi avvicinarsi a me munito di un piccolo registratore.
No, alle domande preferivo dare risposte scritte.
Si può immaginare pertanto la mia tristezza nel vedere che l’unica frase che mi viene attribuita (introdotta con le debite virgolette che poi ci si è dimenticati di chiudere) non mi appartiene nel modo più assoluto.
A parte il disappunto dovendo costatare ancora una volta quanto sia difficile offrire la collaborazione a un giornale senza correre il rischio di essere fraintesi o strumentalizzati, mi è parso che tutto l’’articolo fosse al servizio di un intento che non potevo condividere.
Mentre il mio baldo e militante giornalista si era preoccupato di vedere le ragioni del mancato battesimo di Saba, muovendosi secondo una prospettiva di tipo apologetico, io, che l’avevo messo in guardia da iniziative annessionistiche proprie di una certa cultura cattolica, avrei desiderato portare l’attenzione sul fascino particolare della personalità di Gesù da cui Saba si era lasciato conquistare.
Convinto che questo sarebbe stato il modo migliore, per un giornale come l’Avvenire, di ricordare Unmberto Saba, allego le note che avevo consegnato all’autore dell’articolo e che da lui sono state completamente ignorate.
D.: Quali sono le sue impressioni sullo scritto -Lettere a un amico vescovo- e sulla amicizia di Saba con il vescovo Giovanni Fallani?
R.: Quando nel 1981 ho avuto tra le mani questo volumetto edito da La locusta con le lettere scambiate da Umberto Saba con il vescovo Giovanni Fallani, mi è parso che la lunga confessione poetica raccolta sotto il titolo ultimo Il Canzoniere avrebbe potuto arricchirsi di altre motivazioni e di ben più profonde interrogazioni, se solo Saba avesse avuto, nel declinare delle sue forze, lo scatto necessario per dare forma poetica al sentimento religioso di cui le lettere ci offrono una preziosa, sorprendente testimonianza.
Saba, che aveva sempre cantato gli accadimenti della quotidianità cercando di scoprire di volta in volta, sotto il velo di questa realtà così dimessa, il palpito di un mistero capace di restituire dignità e grandezza anche alle creature e alle situazioni più umili, avrebbe potuto attingere a questa recuperata dimensione religiosa quella pienezza di senso verso cui anelava con tutta l’onestà del suo esercizio poetico.
In questo volumetto si può seguire –ed è un dono meraviglioso- la storia di un’amicizia esemplare perché vissuta non solo sul piano di una reciproca stima, ma anche di una calda adesione affettiva da parte di due persone che pure provenivano da due mondi culturali tanto diversi e, al tempo stesso, c’è il dispiegarsi di un’altra amicizia più segreta, quella che Saba sente nei confronti di Gesù.
Le lettere ne parlano chiaramente sottraendo il caso Saba al sospetto di quelle iniziative annessionistiche di cui veniva accusata una certa cultura cattolica proprio in quegli anni (non si dimentichi la polemica relativa alla vera o presunta conversione di Curzio Malaparte, morto nel 1957, lo stesso anno di Saba).
D.: Quali sono nel percorso esistenziale di Saba le occasioni e le ragioni che hanno favorito il suo rapporto con Gesù?
R.: L’incontro con Gesù non è avvenuto per una improvvisa apertura al mondo della fede, ma attraverso una serie di approssimazioni disseminate lungo il percorso di tutta la sua vita.
Un ruolo particolare va assegnato negli anni dell’infanzia alla balia di cui Saba, che proveniva da una famiglia ebrea, ricevette la prima educazione alle parole e alle immagini del mondo religioso cristiano.
Doveva essere una donna molto pia se è vero (Saba stesso ce lo ricorda) che teneva a capo del letto un’immagine di Gesù bambino, lo conduceva con sé la sera alla Chiesa del Rosario e gli faceva recitare il Padre Nostro in sloveno.
Questo corredo di emozioni non si sarebbe mai più cancellato, tanto che, il giorno in cui venne tumulata la moglie Lina, sorprese tutti i presenti recitando lui stesso ad alta voce il Padre Nostro.
Il legame con la figura esemplare di Gesù ha trovato poi in quegli anni, momenti di struggente intensità. Erano gli anni in cui Saba rimase molto provato da tante sofferenze, soprattutto dalla malattia che aveva colpito la carissima moglie.
In una lettera al vescovo Fallani c’è una confidenza particolarmente toccante:
“Quando mia moglie era ancora a casa e, almeno a tratti, in sé, le ho parlato un giorno di Gesù (non –badi- di Gesù Cristo, ma di Gesù semplicemente). Si era a tavola e pareva molto commossa; tanto che, appena la aiutai a mettersi a letto, le dissi: -Lina mia, vuoi che ci baciamo in Gesù?-.
La povera vecchia mi rispose: -Magari-. Abbiamo provato entrambi momenti di grande dolcezza; ci siamo baciati e abbiamo pianto”.
In quegli stessi anni altri autori, movendosi da esperienze diverse, si erano lasciati conquistare dal fascino della personalità di Gesù vedendo in lui l’immagine della vita, della giovinezza, della bellezza, della libertà.
Saba, che veniva da un’esperienza così profondamente segnata dal dolore, doveva necessariamente trovare in Gesù l’immagine speculare della sua condizione povera e vulnerabile,
Gesù assumeva ai suoi occhi i tratti del Christus patiens, del Gesù crocefisso, anche se della croce ignorava la forza di resurrezione.
D.: Leggendo questo scritto colpisce che Gesù per Saba è un grande personaggio ma non è il figlio di Dio. Accetta la storicità del personaggio ma non la sua divinità. Come si deve giudicare questa irrisolta posizione dal punto di vista della fede cristiana?
R.: Il Gesù a cui Saba riserva questa grande ammirazione non è ancora il Cristo della fede. Lui stesso lo riconosce con grande sincerità confessando di considerare “Gesù come l’uomo che si è avvicinato al divino o,almeno,a quello che i poveri uomini immaginano essere il divino”.
E aggiungeva; “Sì, amo infinitamente Gesù, ma (se così oso dire) amo come un ponte fra l’uomo e il divino. Lo amo come un ‘fratello’; infinitamente grande, infinitamente buono e amabile. Ho bisogno di credere, di appoggiare, in ogni caso, la mia disperazione a Gesù”.
Su questo cammino di approssimazione a Gesù, il termine estremo per chi si lascia condurre da uno stupore che non è ancora il sentimento della fede, è una sorta di abbagliamento per una luce impossibile da sostenere. E’ “un abisso di luce”, ebbe a dire un giorno Kafka, per cui “bisogna chiudere gli occhi per non precipitare”.
Anche Saba deve avere avvertito questo senso di vertigine di fronte alla suprema alterità di Gesù.
Certo ha ragione Bonhoeffer quando osserva che “Cristo viene sempre tradito da un bacio”, facendo capire che certe celebrazioni di Gesù Cristo che ne fanno un uomo grande, un saggio, un giusto non bastano a salvare il mistero del suo particolare rapporto con Dio.
Ma va anche detto che queste diverse immagini, anche se parziali e riduttive, hanno comunque il merito di mettere in luce vari aspetti della sua straordinaria ricchezza e di evidenziare il dinamismo perenne della sua presenza.
Soprattutto se a interrogare in modo nuovo la figura di Gesù sono persone che, come Saba, vanno cercando per la loro fame di verità e di speranza quelle risposte che nessuno più è in grado di dare.
mercoledì 15 agosto 2007
Tesoro il cuore
Si parla tanto in questi tempi del cosiddetto tesoretto, cioè di quella voce positiva per i conti pubblici rappresentata da un gettito fiscale superiore alle previsioni.
E se ne parla continuamente perché si è aperto il problema del suo utilizzo.
immediato.
Non ho alcuna intenzione di addentrarmi in questo campo specifico, ma vorrei svolgere una breve riflessione a partire da qualche passo della Bibbia in cui ricorre la parola tesoro.
Il più importante è senza dubbio quello che si trova nel discorso della montagna in cui si legge questa massima: “Là dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.
Quando qualcosa si configura ai nostri occhi come tesoro, c’è una sorta di mobilitazione di tutte le energie in ordine alla conquista, al possesso, alla difesa, al godimento di ciò che rappresenta il bene più grande o il senso più alto della propria esistenza.
Lo ha fatto capire chiaramente Gesù con quella piccola parabola in cui il protagonista, dopo avere rinvenuto un tesoro in un campo, impegna tutte le sue risorse per venirne in possesso con le garanzie della legge.
Il problema è di non sbagliare nel giudicare tesoro ciò che potrebbe non esserlo.
E qui la questione si fa particolarmente delicata.
Rimane sempre vero che il cuore dimora là dove ha trovato il suo tesoro, ma se questo è costituito da beni provvisori e peribili, il cuore può assumere facilmente un atteggiamento possessivo ed esclusivo, rinnegando la bellezza di un’adesione limpida che abbia le connotazioni dello stupore e della condivisione.
È ciò che si può osservare nelle divisioni delle eredità, o anche, sia pure sotto un diverso profilo, nelle discussioni attuali riguardanti la collocazione del cosiddetto tesoretto.
Quando si tratta di spartire beni immediatamente fruibili, è facile che insorga un animus predatorio che cancella totalmente le ragioni del cuore.
A questo punto, sempre sul tema del rapporto che esiste tra cuore e tesoro, vorrei fare appello a una bellissima affermazione che si trova nel libro del Siracide: “Chi trova un amico, trova un tesoro”.
Si tratta di una verità talmente sentita che nel linguaggio di due persone che si amano è facile che ricorrano ancora espressioni di questo tipo: “Mio tesoro…; tesoro mio…”.
In questo caso è il cuore che inventa, per così dire, il tesoro.
Potrebbe trattarsi di una persona semplice, senza alcuna di quelle qualità che rappresentano una fortuna agli occhi del mondo.
Eppure, per un cuore che ama, assume il valore di un bene unico, incomparabile, insostituibile.
Perciò la frase gia citata del vangelo potrebbe tradursi in quest’altra affermazione: “Là dove è il tuo cuore, là sarà anche il tuo tesoro”.
È il cuore che ha il potere di trasfigurare la realtà rendendo grande ciò che è piccolo, luminoso ciò che è oscuro, straordinario ciò che è usuale.
E il cuore che sente i passi della presenza nascosta di Dio.
Molti si chiedono: “E’ utile la fede?” e cercano le ragioni che la possano rendere proponibile e plausibile.
Ma la fede non si regge su argomentazioni di tipo apologetico.
La fede è una questione soprattutto di amore e come tale sa intuire la stupenda prodigalità di un Dio che va disseminando i suoi prodigi rivestendoli della bellezza della discrezione.
E’ quello che Gabriel Garcia Marquez ha tentato di suggerire con un breve scritto intitolato Saluto agli amici, di cui mi piace citare qualche passo tra i più espressivi del suo intenso pathos religioso.
“Se per un istante Dio si dimenticasse che sono una marionetta di pezza e mi regalasse un pezzo di vita, (…) dormirei poco, sognerei di più, capirei che per ogni minuto in cui chiudiamo gli occhi perdiamo sessanta secondi di luce.
Camminerei quando gli altri si fermano, starei sveglio quando gli altri dormono.
Dio mio, se io avessi un cuore scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei che si sciogliesse al sole. Annaffierei con le mie lacrime una rosa, per sentire il dolore delle sue spine e il bacio carnoso dei suoi petali.
Dio mio, se io avessi un pezzo di vita, non lascerei passare un solo giorno senza dire alle persone che amo, che le amo. Convincerei ogni donna e uomo che sono i miei favoriti e vivrei innamorato dell’amore. Agli uomini dimostrerei quanto si stanno sbagliando pensando che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza sapere che invecchiano quando smettono di innamorarsi!
A un bambino darei ali, però lascerei che imparasse da solo a volare.
Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia, ma con l’oblio.”
E se ne parla continuamente perché si è aperto il problema del suo utilizzo.
immediato.
Non ho alcuna intenzione di addentrarmi in questo campo specifico, ma vorrei svolgere una breve riflessione a partire da qualche passo della Bibbia in cui ricorre la parola tesoro.
Il più importante è senza dubbio quello che si trova nel discorso della montagna in cui si legge questa massima: “Là dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.
Quando qualcosa si configura ai nostri occhi come tesoro, c’è una sorta di mobilitazione di tutte le energie in ordine alla conquista, al possesso, alla difesa, al godimento di ciò che rappresenta il bene più grande o il senso più alto della propria esistenza.
Lo ha fatto capire chiaramente Gesù con quella piccola parabola in cui il protagonista, dopo avere rinvenuto un tesoro in un campo, impegna tutte le sue risorse per venirne in possesso con le garanzie della legge.
Il problema è di non sbagliare nel giudicare tesoro ciò che potrebbe non esserlo.
E qui la questione si fa particolarmente delicata.
Rimane sempre vero che il cuore dimora là dove ha trovato il suo tesoro, ma se questo è costituito da beni provvisori e peribili, il cuore può assumere facilmente un atteggiamento possessivo ed esclusivo, rinnegando la bellezza di un’adesione limpida che abbia le connotazioni dello stupore e della condivisione.
È ciò che si può osservare nelle divisioni delle eredità, o anche, sia pure sotto un diverso profilo, nelle discussioni attuali riguardanti la collocazione del cosiddetto tesoretto.
Quando si tratta di spartire beni immediatamente fruibili, è facile che insorga un animus predatorio che cancella totalmente le ragioni del cuore.
A questo punto, sempre sul tema del rapporto che esiste tra cuore e tesoro, vorrei fare appello a una bellissima affermazione che si trova nel libro del Siracide: “Chi trova un amico, trova un tesoro”.
Si tratta di una verità talmente sentita che nel linguaggio di due persone che si amano è facile che ricorrano ancora espressioni di questo tipo: “Mio tesoro…; tesoro mio…”.
In questo caso è il cuore che inventa, per così dire, il tesoro.
Potrebbe trattarsi di una persona semplice, senza alcuna di quelle qualità che rappresentano una fortuna agli occhi del mondo.
Eppure, per un cuore che ama, assume il valore di un bene unico, incomparabile, insostituibile.
Perciò la frase gia citata del vangelo potrebbe tradursi in quest’altra affermazione: “Là dove è il tuo cuore, là sarà anche il tuo tesoro”.
È il cuore che ha il potere di trasfigurare la realtà rendendo grande ciò che è piccolo, luminoso ciò che è oscuro, straordinario ciò che è usuale.
E il cuore che sente i passi della presenza nascosta di Dio.
Molti si chiedono: “E’ utile la fede?” e cercano le ragioni che la possano rendere proponibile e plausibile.
Ma la fede non si regge su argomentazioni di tipo apologetico.
La fede è una questione soprattutto di amore e come tale sa intuire la stupenda prodigalità di un Dio che va disseminando i suoi prodigi rivestendoli della bellezza della discrezione.
E’ quello che Gabriel Garcia Marquez ha tentato di suggerire con un breve scritto intitolato Saluto agli amici, di cui mi piace citare qualche passo tra i più espressivi del suo intenso pathos religioso.
“Se per un istante Dio si dimenticasse che sono una marionetta di pezza e mi regalasse un pezzo di vita, (…) dormirei poco, sognerei di più, capirei che per ogni minuto in cui chiudiamo gli occhi perdiamo sessanta secondi di luce.
Camminerei quando gli altri si fermano, starei sveglio quando gli altri dormono.
Dio mio, se io avessi un cuore scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei che si sciogliesse al sole. Annaffierei con le mie lacrime una rosa, per sentire il dolore delle sue spine e il bacio carnoso dei suoi petali.
Dio mio, se io avessi un pezzo di vita, non lascerei passare un solo giorno senza dire alle persone che amo, che le amo. Convincerei ogni donna e uomo che sono i miei favoriti e vivrei innamorato dell’amore. Agli uomini dimostrerei quanto si stanno sbagliando pensando che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza sapere che invecchiano quando smettono di innamorarsi!
A un bambino darei ali, però lascerei che imparasse da solo a volare.
Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia, ma con l’oblio.”
sabato 11 agosto 2007
*spigolature
“Non credo che l’ispirazione giochi un ruolo importante nella letteratura.
Sono sempre più convinto che Oscar Wilde avesse ragione: l’ispirazione
conta il dieci per cento, mentre il novanta per cento è solo traspirazione.”
(Carlos Fuentes)
“Padre nostro, che sei in cantina,
sia lodata la tua medicina,
venga a noi il tuo buon vino,
purchè sia sano e genuino.
Sia fatta la tua volontà
nel goderne in quantità.”
(da La Gazzetta dello Sport 23/05/07 pag.33)
Sono sempre più convinto che Oscar Wilde avesse ragione: l’ispirazione
conta il dieci per cento, mentre il novanta per cento è solo traspirazione.”
(Carlos Fuentes)
“Padre nostro, che sei in cantina,
sia lodata la tua medicina,
venga a noi il tuo buon vino,
purchè sia sano e genuino.
Sia fatta la tua volontà
nel goderne in quantità.”
(da La Gazzetta dello Sport 23/05/07 pag.33)
Alla tua luce affido la mia notte
Giugno 2007
Dei diversi volumetti per lo più di poesia che avevo pensato di offrire agli amici in occasione dell’appuntamento conviviale che avrebbe concluso la serie degli incontri settimanali (quest’anno la cena si è svolta felicemente nella mia nuova casa), uno solo è rimasto, trascurato, sul tavolo.
Come mai nessuno si era degnato di prendere la raccolta completa delle poesie di Cesare Pavese?
Mi sono detto: Sarà perchè queste poesie sono già troppo conosciute e possedute da ciascuno..
Eppure avevo notato che qualcuno il mio volumetto l’aveva sfogliato con interesse e curiosità.
E allora ho pensato: Non sarà invece per quel verso famoso (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) che ha dato il titolo a una intera sezione della raccolta?.
È un verso che da quella sera mi accompagna assiduamente tanto da entrare come un refrain nelle mie riflessioni e da sollecitarmi ad una parafrasi in forma di preghiera.
Questa:
Verrà la morte e avrà i miei occhi
la cui luce si va spegnendo a poco a poco
sotto palpebre grevi di stanchezza
o dietro velature di nostalgie e rimpianti.
Verrà la morte e avrà i miei occhi
che più non distinguono i contorni delle cose
mentre vedono approssimarsi il “muro d’ombra”
oltre il quale si dispiega il mistero dell’eterno.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
Signore Gesù, che balzando quel mattino dal sepolcro
hai inaugurato per tutti un giorno nuovo
restituendo la luce ai nostri occhi spenti.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi:
occhi dolci, accoglienti, perdonanti;
alla tua luce affido la mia notte
nell’attesa di un risveglio colmo di stupore.
Dei diversi volumetti per lo più di poesia che avevo pensato di offrire agli amici in occasione dell’appuntamento conviviale che avrebbe concluso la serie degli incontri settimanali (quest’anno la cena si è svolta felicemente nella mia nuova casa), uno solo è rimasto, trascurato, sul tavolo.
Come mai nessuno si era degnato di prendere la raccolta completa delle poesie di Cesare Pavese?
Mi sono detto: Sarà perchè queste poesie sono già troppo conosciute e possedute da ciascuno..
Eppure avevo notato che qualcuno il mio volumetto l’aveva sfogliato con interesse e curiosità.
E allora ho pensato: Non sarà invece per quel verso famoso (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) che ha dato il titolo a una intera sezione della raccolta?.
È un verso che da quella sera mi accompagna assiduamente tanto da entrare come un refrain nelle mie riflessioni e da sollecitarmi ad una parafrasi in forma di preghiera.
Questa:
Verrà la morte e avrà i miei occhi
la cui luce si va spegnendo a poco a poco
sotto palpebre grevi di stanchezza
o dietro velature di nostalgie e rimpianti.
Verrà la morte e avrà i miei occhi
che più non distinguono i contorni delle cose
mentre vedono approssimarsi il “muro d’ombra”
oltre il quale si dispiega il mistero dell’eterno.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
Signore Gesù, che balzando quel mattino dal sepolcro
hai inaugurato per tutti un giorno nuovo
restituendo la luce ai nostri occhi spenti.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi:
occhi dolci, accoglienti, perdonanti;
alla tua luce affido la mia notte
nell’attesa di un risveglio colmo di stupore.
Odi et amo
Luglio 2007
Non trovo altre parole per definire il mio rapporto con il computer.
Se mai mi venisse a mancare, anche questi pochi pensieri vagabondi sarebbero
destinati a un vagabondaggio continuo e dispersivo, senza alcuna possibilità di vederli fissati, almeno per qualche breve margine di tempo, su una pagina bianca.
Proprio per questa sua indispensabile funzione, mi pare di patire un affronto particolarmente grave tutte le volte che incrocia, per così dire, le braccia e si rifiuta di collaborare.
Perché questi dispetti per cui mi capita di vedermi sparire pagine intere di un lavoro appena concluso?
È come voler fare uno sgambetto (uso un’immagine cara a Nietzsche) a chi già si regge male per conto suo.
Ecco perché in questi casi provo una profonda avversione contro uno strumento di lavoro di cui peraltro sono pronto a riconoscere tutte le benemerenze che me lo rendono compagno insostituibile e inseparabile.
Odi et amo, dicevo.
Questa dialettica sentimentale l’ho avvertita anche recentemente quando il mio portatile si è bloccato senza alcuna possibilità, da parte mia, di indurlo a più miti consigli.
L’unica nota di vita era una finestrella che ostinatamente si apriva per avvertirmi come un certo disco fosse sovraccarico di memorie (naturalmente riferisco con un linguaggio assai approssimativo) e fosse pertanto necessario alleggerirlo per poterlo riattivare.
Devo confessare che in una situazione tanto sgradevole non mi è mancata una nota di conforto.
Mi rendevo conto infatti che se anche il computer le cui capacità di memorizzare avrei sempre considerato pressoché illimitate, pativa certe défaillances, non dovevo preoccuparmi più di tanto per le mie amnesie senili.
Ecco come stanno le cose, mi dicevo. Anche nella mia testa c’è come un disco che con il passare degli anni ha raccolto troppe memorie.
È giusto perciò che abbandoni parte di questo bagaglio eccessivo per lasciare spazio alle novità che premono per essere ospitate e custodite dentro la sfera segreta del mio mondo interiore.
Ma ripensandoci mi accorgo subito che questa visione meccanicistica del processo memoriale non ne coglie per nulla il lato umano, cioè le vibrazioni ed emozioni che vi sono connesse.
Ricordare, rammentare, rimembrare stanno a significare (se l’etimologia non mi inganna) operazioni che si iscrivono nella profondità dell’essere umano .
Perciò a me pare importante distinguere tra memoria e ricordo.
Memoria potrebbe essere la registrazione puntigliosa delle cose, con uno sguardo neutro, impassibile, distaccato.
A queste memorie opache e inerti, affidate, come è giusto, ai meccanismi di un computer, fanno riscontro i ricordi che, per il fatto di essere filtrati attraverso una calda adesione emotiva, sono sempre vivi e creativi.
Non importa che i ricordi perdano i contorni precisi che avevano in passato, non importa che tu abbia dimenticato totalmente la vicenda di un racconto come pure di un film che ti era molto caro.
Ciò che importa è la traccia pressoché impercettibile, come un profumo o una iridescenza lieve, che comunque ha arricchito la tua umanità.
Succede, a me pare, quello che avviene per gli incontri che abbiamo vissuto e di cui abbiamo smarrito ogni riferimento.
Tutti questi incontri ci hanno lasciato qualcosa.
Possiamo perciò dire che quello che siamo lo dobbiamo a tutte quelle persone che in tempi diversi hanno incrociato positivamente la nostra esistenza e ci hanno fatto dono di una parola significativa, di un gesto di amicizia, di un’attenzione particolare.
Siamo quello che abbiamo ricevuto, anche se non si è più in grado di richiamare i vari momenti in cui qualcuno ci ha elargito una nota della sua gratuita sensibilità.
I ricordi più cari li dovremmo riservare ai passaggi di Dio nella nostra vita.
Nel diario di Julien Green c’è una nota meravigliosa tanto che mi capita di citarla spesso con profonda commozione:
Se dovessi partire questa sera e mi si domandasse che cosa mi ha maggiormente commosso in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini.
Tutto si perde nell'amore. Anche se saremo giudicati sull'amore, non è meno vero che saremo giudicati dall'amore, cioè da Dio.
Questo mi porta a sperare che il Signore, quando ci accoglierà sulla soglia dell’eterno, non farà intervenire una sorta di verbale su cui saranno annotati tutti i nostri comportamenti secondo la loro collocazione morale, ma vorrà confidarci i ricordi più belli, quelli che maggiormente lo avranno rallegrato.
Sarà l’inizio della festa dei ricordi, in cui ciascuno godrà nel richiamare e condividere ciò che di più prezioso è custodito nel suo cuore.
Non trovo altre parole per definire il mio rapporto con il computer.
Se mai mi venisse a mancare, anche questi pochi pensieri vagabondi sarebbero
destinati a un vagabondaggio continuo e dispersivo, senza alcuna possibilità di vederli fissati, almeno per qualche breve margine di tempo, su una pagina bianca.
Proprio per questa sua indispensabile funzione, mi pare di patire un affronto particolarmente grave tutte le volte che incrocia, per così dire, le braccia e si rifiuta di collaborare.
Perché questi dispetti per cui mi capita di vedermi sparire pagine intere di un lavoro appena concluso?
È come voler fare uno sgambetto (uso un’immagine cara a Nietzsche) a chi già si regge male per conto suo.
Ecco perché in questi casi provo una profonda avversione contro uno strumento di lavoro di cui peraltro sono pronto a riconoscere tutte le benemerenze che me lo rendono compagno insostituibile e inseparabile.
Odi et amo, dicevo.
Questa dialettica sentimentale l’ho avvertita anche recentemente quando il mio portatile si è bloccato senza alcuna possibilità, da parte mia, di indurlo a più miti consigli.
L’unica nota di vita era una finestrella che ostinatamente si apriva per avvertirmi come un certo disco fosse sovraccarico di memorie (naturalmente riferisco con un linguaggio assai approssimativo) e fosse pertanto necessario alleggerirlo per poterlo riattivare.
Devo confessare che in una situazione tanto sgradevole non mi è mancata una nota di conforto.
Mi rendevo conto infatti che se anche il computer le cui capacità di memorizzare avrei sempre considerato pressoché illimitate, pativa certe défaillances, non dovevo preoccuparmi più di tanto per le mie amnesie senili.
Ecco come stanno le cose, mi dicevo. Anche nella mia testa c’è come un disco che con il passare degli anni ha raccolto troppe memorie.
È giusto perciò che abbandoni parte di questo bagaglio eccessivo per lasciare spazio alle novità che premono per essere ospitate e custodite dentro la sfera segreta del mio mondo interiore.
Ma ripensandoci mi accorgo subito che questa visione meccanicistica del processo memoriale non ne coglie per nulla il lato umano, cioè le vibrazioni ed emozioni che vi sono connesse.
Ricordare, rammentare, rimembrare stanno a significare (se l’etimologia non mi inganna) operazioni che si iscrivono nella profondità dell’essere umano .
Perciò a me pare importante distinguere tra memoria e ricordo.
Memoria potrebbe essere la registrazione puntigliosa delle cose, con uno sguardo neutro, impassibile, distaccato.
A queste memorie opache e inerti, affidate, come è giusto, ai meccanismi di un computer, fanno riscontro i ricordi che, per il fatto di essere filtrati attraverso una calda adesione emotiva, sono sempre vivi e creativi.
Non importa che i ricordi perdano i contorni precisi che avevano in passato, non importa che tu abbia dimenticato totalmente la vicenda di un racconto come pure di un film che ti era molto caro.
Ciò che importa è la traccia pressoché impercettibile, come un profumo o una iridescenza lieve, che comunque ha arricchito la tua umanità.
Succede, a me pare, quello che avviene per gli incontri che abbiamo vissuto e di cui abbiamo smarrito ogni riferimento.
Tutti questi incontri ci hanno lasciato qualcosa.
Possiamo perciò dire che quello che siamo lo dobbiamo a tutte quelle persone che in tempi diversi hanno incrociato positivamente la nostra esistenza e ci hanno fatto dono di una parola significativa, di un gesto di amicizia, di un’attenzione particolare.
Siamo quello che abbiamo ricevuto, anche se non si è più in grado di richiamare i vari momenti in cui qualcuno ci ha elargito una nota della sua gratuita sensibilità.
I ricordi più cari li dovremmo riservare ai passaggi di Dio nella nostra vita.
Nel diario di Julien Green c’è una nota meravigliosa tanto che mi capita di citarla spesso con profonda commozione:
Se dovessi partire questa sera e mi si domandasse che cosa mi ha maggiormente commosso in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini.
Tutto si perde nell'amore. Anche se saremo giudicati sull'amore, non è meno vero che saremo giudicati dall'amore, cioè da Dio.
Questo mi porta a sperare che il Signore, quando ci accoglierà sulla soglia dell’eterno, non farà intervenire una sorta di verbale su cui saranno annotati tutti i nostri comportamenti secondo la loro collocazione morale, ma vorrà confidarci i ricordi più belli, quelli che maggiormente lo avranno rallegrato.
Sarà l’inizio della festa dei ricordi, in cui ciascuno godrà nel richiamare e condividere ciò che di più prezioso è custodito nel suo cuore.
mercoledì 8 agosto 2007
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