martedì 17 giugno 2008

Pentecoste 11 maggio 2008

Ho letto in questi giorni che nell’elenco dei “Top 100”, cioè delle 100 personalità che a giudizio di una autorevole rivista americana, sarebbero attualmente le più influenti sul destino dell’umanità, il nome di Benedetto XVI è stato completamente ignorato.
Pare che la notizia sia stata accolta in Vaticano con malcelato disappunto.
E immagino ora con quanta veemenza le varie “gazzette” diocesane faranno a gara nel deplorare l’affronto recato a quanti riconoscono nel magistero del Papa la guida più autorevole per questi tempi di confusione in cui ciascuno sembra appellarsi a una sua personale verità.
Certamente il rammarico può essere legittimo, ma esasperarlo vuol dire perdere ancora una volta un’ occasione favorevole per riflettere sui veri valori su cui si fonda il prestigio della chiesa.
Sto leggendo la biografia, ampia e molto documentata, di Papa Giovanni XXIII; scritta dal pronipote Marco Roncalli , e mi domando come avrebbe reagito se avesse dovuto subire uno sgarbo di questo genere da parte del mondo della cultura ufficiale.
Visto il profilo spirituale che emerge soprattutto dalle pagine del diario, penso che la faccenda non l’avrebbe turbato più di tanto.
Avrebbe potuto osservare come esista una irriducibile distanza tra i valori celebrati dalla cultura profana e quelli continuamente richiamati, con forza, dal vangelo.
Da una parte c’è il personaggio con il suo io esigente e prorompente, che cerca la propria affermazione attraverso spazi sempre più ampi di visibilità, dall’altra c’è la persona che pratica la via del silenzio e della discrezione riconoscendosi al servizio di qualcuno da cui sente di aver tutto ricevuto e a cui pensa di dover tutto riferire.
Da una parte c’è chi si atteggia a maestro con il prestigio della parola e con la forza delle sue vastissime conoscenze; dall’altra c’è chi ama farsi discepolo di un maestro la cui saggezza non tocca soltanto la mente, ma colma di stupore il cuore dell’uomo.
“Quando sono debole, è allora che sono veramente forte” diceva l’apostolo Paolo.
Giovanni XXIII, in forza di una scelta maturata nell’ascolto assiduo della parola evangelica, non si sarebbe perciò rattristato nel vedere segnalati, per esempio, i limiti del suo bagaglio culturale.
Quante lingue sapeva parlare?
Se fosse messo a confronto con altri Papi venuti prima o dopo di lui, risulterebbe – non c’è alcun dubbio - soccombente.
Certo il francese lo conosceva alla perfezione, anche se avvertiva sempre il pericolo di qualche piccolo infortunio, come quelli patiti da uno stimato rappresentante della diplomazia vaticana sul
conto del quale circolavano in quegli anni due gustose storielle.
“ Mon derrière (sic) est partagé en deux parties et au milieu il y a la Belgique” avrebbe detto parlando del suo passato nel quale il posto centrale era occupato dalla nunziatura in Belgio.
E un’altra volta, volendo confidare che doveva la sua nascita a un voto fatto da sua madre, fu tradito nella pronuncia della parola voeu per cui si può facilmente immaginar con quale spirito i presenti abbiano potuto ascoltare la frase che alle loro orecchie suonava così: “Ma mère a fait un veau (vitellone), et me voilà”.
Queste cose ce le raccontava Mons. Rota nel seminario di Venegono, dove allora io insegnavo e dove questo simpatico monsignore della curia romana era ospite abituale nei mesi estivi .
E poiché si sapeva che Mons. Rota era molto amico di Papa Roncalli tanto da essere spesso invitato a condividere il pranzo della domenica, è facile pensare che storielle di questo genere, prima di uscire dai palazzi vaticani, abbiano rallegrato la tavola del Papa.
Piccole cose, si dirà, ma significative di uno stile di vita che sapeva sorridere delle altrui e delle proprie insufficienze nell’uso dei mezzi della cultura ufficiale, sapendo che ben altre risorse, nascoste, erano a disposizione per i veri servitori del vangelo.

A Elena e Filippo (nel giorno del loro matrimonio, il 13/6/ 2008)



Vorrei trasmettervi anch’io un augurio.
E siete voi a suggerirmelo, con il pieghevole che mi avete mandato per rendermi partecipe di ciò che si sarebbe realizzato in questo giorno.
Su un lato di questo cartoncino, preparato con molta cura, trovo una vignetta senza parole che vi ritrae nell’atto di scambiarvi un bacio.
Il bacio è il segno di una raggiunta armonia, è l’immagine più trasparente del volersi bene e del sentirsi amati, è la parola più espressiva per confidare l’ineffabilità del proprio amore.
Ricordo che la tenerezza di un bacio scambiato da due giovani in piazza S. Pietro commosse anche quel grande patriarca di tutta la cristianità che è stato Papa Giovanni XXIII il quale, dalla finestra del suo studio, silenziosamente ma con un sorriso di compiacimento, tracciò su quei due giovani un segno di benedizione.
Anch’io in questo momento mi sento di benedirvi, di dire bene di voi.
Ma perché il bacio possa esprimere la poesia dell’amore, richiede il coinvolgimento di tutto il proprio essere.
E la vignetta del vostro pieghevole lo dimostra con chiarezza.
Vedo Elena che si protende, sollevandosi perfino sulla punta dei piedi, per offrirsi al bacio di Filippo.
Ma a me piace immaginare anche le parti rovesciate.
Perché tra i due che pure si vogliono bene c’è sempre una distanza da superare, un décalage, direbbero i francesi, da colmare.
C’è di mezzo, infatti, il mistero profondo, irriducibile di una persona.
Una coppia è sempre un incontro di due mondi ciascuno dei quali è mistero per l’altro.
Il matrimonio è perciò una interminabile educazione alla diversità.
E’ quello che ci ricorda anche Gibran quando scrive: “Ciascuno nella coppia sia il custode della solitudine dell’altro”, cioè della sua alterità, del suo mistero.
Come è possibile sostenere questa situazione esposta sempre a tante tensioni e possibili conflitti?
Guardo ancora la vignetta che vi ritrae e trovo che a sostenere Elena nel suo protendersi verso Filippo c’è una pila di libri.
Saranno - ho pensato – libri su cui si sta ancora affaticando Elena.
Ma a me piace interpretare diversamente questo dettaglio.
I libri che sostengono Elena (ma in questo caso dovrebbero sostenere anche Filippo) sono libri che racchiudono la saggezza a cui attingere perché la vostra vita di coppia possa svolgersi in modo armonico.
Tento di dare un nome a qualcuno dei libri motivandone le ragioni.
Enzo Bianchi dice che amare consiste in due cose: ascoltare e cucinare cose buone per la persona che si ama.
Sul fatto dl saper cucinare non ho suggerimenti da dare: so infatti che “giocate in casa”.
Ritengo invece che nella vostra biblioteca ideale non dovrebbe mancare mai un volume con le immagini del vostro viaggio di nozze o di un viaggio che vorreste fare.
E questo per ricordare che il matrimonio non deve essere visto come una meta raggiunta, ma come l’inizio di un viaggio atteso da tanto tempo.
Il matrimonio è sempre stato pensato come viaggio.
Il viaggio di nozze infatti, caratteristico della nostra come di altre culture, è inteso come un cammino verso un paese ignoto, in cui non sia possibile prevedere tutto.
Il paese ignoto verso cui andate è l’incontro con colui o colei che vi sta al fianco.
Non c’è infatti lontananza più grande di quella che separa l’uomo dalla donna.
A questo punto consiglierei un libro di spiritualità.
Ce ne sono tanti, e tutti molto belli, ma vorrei proporvi un piccolo saggio di un autore, Luigi Pozzoli, che conosco molto bene.
D questo breve scritto, che si trova in Caro amico, lasciate che vi citi almeno un passaggio dedicato alla tenerezza:
“La tenerezza è soprattutto indulgenza e misericordia.
E’ difficile amare senza concedere all’altro la libertà di sbagliare.
Ci fosse la capacità di ridere e di sorridere della nostra vulnerabilità e fragilità, sarebbe tutto più semplice e più leggero.
Un po’di quell’umorismo che nasce dall’amore può sdrammatizzare tante situazioni che altrimenti si farebbero pericolose”.
Ho detto tutto?
So che vi ho già rubato molto tempo.
.Ma non posso chiudere senza ricordare il volume più grosso, quello che sta sopra gli altri nella vignetta a cui ci siamo riferiti.
E’ da questo volume che voi avete ricavato i passi della meravigliosa liturgia di questa mattina,
Ma della bellezza del matrimonio così come è stato sognato da Dio, si parla già nelle prime pagine.
Dio aveva davanti a sé le meraviglie scaturite dalla sua azione creativa tra cui spiccava l’immagine incantevole della prima coppia, quando pare (è Moni Ovadia che racconta prendendo da una tradizione ebraica) che si sia lasciato sfuggire questa battuta: “Speriamo che tenga”.
Eh no, noi siamo certi che la vostra coppia è destinata a tenere.
Ve lo dice la cospirazione festosa dei vostri amici che in coro gridano: “Evviva per Elena e Filippo oggi sposi!”.
E ad avvalorare questa certezza c’è lo Spirito di Dio., il soffio, il respiro di Dio che non è altro se non amore.
E’ un dono che oggi voi ricevete in modo privilegiato e che da voi trabocca su tutti gli amici che vi vogliono bene.

Ma so che una ragione ci deve pure essere


C’è un modo maldestro di consolare gli afflitti.
E’ quello di chi, accanto alla situazione che ti fa soffrire, te ne prospetta un’altra ben più grave per cui sei come costretto ad ammettere: “Posso dirmi davvero fortunato, visto che mi poteva andare
molto peggio”.
Accenni a qualche tuo limite nei movimenti?
E subito trovi chi ti aggiorna sulle condizioni di un comune amico (“Te lo ricordi, vero, com’era?”) il quale, colpito da sclerosi multipla, è ridotto ora in uno stato penoso e pietoso.
Ti capita di accusare qualche piccolo vuoto di memoria?
Ma che cosa è mai se messo a confronto con quanto è successo a quel signore (“Dovresti conoscerlo anche tu o, comunque, ne avrai certo sentito parlare”) il quale, dopo essere passato quel mattino in posta a sbrigare una piccola pratica, non ha saputo più trovare la via del ritorno: un caso di alzheimer fulminante da cui non si sarebbe più ripreso.
Capisco che è difficile consolare chi ogni giorno si trova a dover lottare contro i guasti provocati dalla malattia o dall’età avanzata,
In questi casi bisognerebbe avere almeno il buon senso di non aggravare la situazione con parole o gesti impropri, anche se dettati dal desiderio di recare qualche sollievo.
Pensavo, mentre stendevo questa nota, alla storiella di quel tale che in piazza Duomo si trovò indecorosamente schizzato sul suo sparato bianco da un piccione, vai a sapere se perchè incontinente o dispettoso.
Che fare? Come prendersela con quell’impunito che ora forse volteggiava, beato, pin in alto, tra le guglie della cattedrale?
Non gli restò che rifugiarsi in questo lapidario commento:“Vivaddio che non volano le mucche”.
Non so perché ho citato questa storiella.
Ma sono certo che una ragione ci deve pure essere.
Lascio a voi, se mai vi riesce, di scoprirla.