“Dio non esiste.
Io lo prego tutti i giorni.”
Io lo prego tutti i giorni.”
Ho trovato questa confidenza nell’ultimo libro (Notre Père) di Jean-Yves Leloup il quale, dopo averla raccolta dalle labbra di un amico filosofo, ne ha fatto oggetto di attenta riflessione.
Le parole citate con il loro carattere paradossale potrebbero suggerire il tema di un dibattito dal titolo: “E possibile conciliare ateismo e preghiera?”.
Immagino di essere anch’io partecipe di questa discussione: che cosa potrei dire?
A me pare possibile dichiararsi atei e custodire d’altra parte una naturale disposizione alla preghiera.
La contraddizione non deve sorprendere se appena si pensa che in ciascuno di noi agiscono ed entrano in conflitto forze diverse, razionali e irrazionali, speculative e affettive.
Può essere perciò che una posizione rigorosamente atea subisca una sorta di erosione quando entrano in gioco altri elementi non più riconducibili alla pura ragione.
Mi riferisco in particolare a quel senso di precarietà che innerva le strutture profonde del nostro vivere con un corredo di paure da cui nascono appelli verso un possibile riscatto.
È appena il caso di osservare che precarietà e prece hanno in comune la stessa radice.
È possibile, in altre parole, avvertire il gemito che nasce dal cuore di ogni creatura ferita e umiliata dalla propria incompiutezza.
Si tratta di una invocazione universale in cui si fondono accenti diversi come diversa e composita è la realtà che li esprime.
E io sono portato a credere che anche la persona che si professa atea sia in qualche modo coinvolta in questo coralità di voci che anelano a un superamento dei propri limiti creaturali ed esistenziali.
Se la mente rimane chiusa al mondo trascendente e quindi ad ogni forma di preghiera, a pregare è tutta l’esistenza quando si muove sotto il segno della fatica e della fragilità.
Pregano allora gli occhi umidi di pianto, prega il cuore sotto il bruciore di un’assenza, pregano le mani quando non riescono più a trattenere, ad accarezzare, a modellare…
E può succedere che questa preghiera informe e silenziosa professata dentro le fibre oscure dell’esistenza si interiorizzi nel cuore di una persona come esigenza di rapporto con un tu trascendente.
È quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
“La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie.
Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine”.
Mentre rimane salda la convinzione che Dio non esiste, si vorrebbe che Dio esistesse o lo si immagina esistente come principio di ordine e di coesione dentro una realtà ingovernabile e magmatica oppure come l’interlocutore necessario per chi sente il peso della propria radicale solitudine.
Privato di un’alterità che possa dare un senso al suo esistere, l’uomo si trova davanti a un grande vuoto.
Ed è da questo vuoto che nascono preghiere paradossali, incoerenti, disperate.
Come questa di Mario Tobino:
“O Dio, chiunque tu sia,
o non esista,
o trascorra come un concetto
le nostre menti,
benedici anche me”.
Giorgio Caproni arriva a pregare perché Dio si sforzi di esistere:
“Dio di volontà,
Dio onnipotente, cerca
(Sforzati!), a furia d’insistere,
almeno – d’esistere”.
Zinoviev, uno scrittore russo appartenente alla grande stagione del dissenso sovietico, in un componimento intitolato La preghiera di un ateo credente, dopo essersi rivolto anche lui a Dio pregandolo di esistere non solo come onnipotente, ma come Padre, conclude la sua preghiera con questi accenti accorati:
“Vivere senza testimoni, quale inferno!
Per questo, forzando la mia voce,
io grido, io urlo:
Padre mio,
ti supplico
e piango:
Esisti!”
A questa stessa professione di fede in un Dio inesistente, ma invocato disperatamente come Padre si apparenta anche la confidenza rilasciata a Jean–Yves Leloup dall’amico filosofo il quale alle parole già citate aggiungeva:
“Ogni giorno, dal tempo della mia infanzia recito il Padre nostro.
Questo non vuol dire nulla per me, nessuna parola ha senso e tuttavia è una cosa che mi fa bene”.
A questo punto merita un discorso a parte quello riguardante i cosiddetti atei devoti di cui tanto si è parlato ultimamente.
Atei lo sono certamente e non perdono occasione per riaffermarlo.
Il loro ateismo vuole essere una solida conquista razionale, non incrinata da dubbi o da debolezze di ordine sentimentale.
È da escludere pertanto una possibile parentela con quella forma di ateismo che, rivolgendosi, anche se in forma solo immaginaria, a una presenza superiore, confessa a questo modo la propria inadeguatezza nell’interpretare e risolvere i vari problemi connessi con la difficile avventura umana soprattutto nel corso della sua storia più recente.
Che valore può avere pertanto la qualifica di devoti che alcuni di essi si sono attribuiti e che dovrebbe definire la loro collocazione nel quadro generale della cultura del nostro tempo?
Devoto è un aggettivo che non più di una trentina di anni fa sembrava un reperto lessicale destinato a essere cancellato per sempre là dove il tramonto del sacro e la morte di Dio erano temi di un discorso oramai definitivamente acquisito - così almeno sembrava - dentro la coscienza collettiva del mondo occidentale.
Ora invece la storia si è incaricata di ribaltare la sicurezza di quelle posizioni.
Il mercato del sacro infatti è più fiorente che mai e mai come in questi ultimi tempi - è una osservazione di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose - si sono registrate tante cadute da cavallo sulla via di Damasco.
È un fatto che sono molti quelli che non si vergognano di intrattenere uno speciale rapporto con Dio nel loro impegno politico-sociale e che perfino atei convinti hanno riscoperto il valore della religione arrivando a definirsi come atei devoti.
Pensando che devoto è una parola che per la sua etimologia contiene l’idea di voto, dovrebbe servire a indicare un uomo che sia votato con ardore e passione a qualcosa di grande per cui valga la pena di rinunciare a ogni interesse personale.
Nel suo senso ultimo, il devoto si consacra a Dio e al suo regno a venire.
Se questo ha senso, bisogna ammettere che un ateo devoto rappresenta una palese incongruenza.
L’ateo devoto può infatti schierarsi con la gerarchia ecclesiastica nella difesa dei valori della tradizione cristiana, ma non può avere quel senso adorante di una presenza viva il cui mistero dovrebbe suggerire un atteggiamento di umile ascolto e di incondizionata fedeltà.
“Non usate Dio per fondare politica e legge” raccomanda nel suo ultimo saggio (Sullo spirito e l’ideologia) la filosofa Roberta De Monticelli la quale non esita a chiamare diabolica tale operazione.
Invece di servire Dio, ci si può servire della parola di Dio convertendola in ideologia al fine di dare un fondamento alla propria visione politica ed etica del mondo attuale.
A proposito di questo uso perverso o comunque distorto delle cose di Dio, vien fatto di pensare a quel famoso segretario di un grande uomo politico (siamo ai tempi della prima repubblica) del quale si favoleggiava che, tutte le volte che il suo diretto superiore sentiva il bisogno di sostare in preghiera presso qualche santuario o basilica romana, egli raggiungeva immediatamente la sacrestia dove amava intrattenersi con qualche alto prelato su problemi urgenti e concreti.
Che cosa stesse a cuore a quel troppo disinvolto segretario è facile immaginare così come è facile immaginare quali siano i reali interessi degli attuali frequentatori di prestigiose sacrestie.
È certo comunque che questi atei devoti non sentiranno mai l’esigenza di mormorare almeno questa preghiera: “Ti prego, sforzati di esistere”.
L’aneddoto sopra ricordato può servire a introdurre un’ulteriore osservazione sul rapporto che intercorre tra ateismo e preghiera.
Se è vero infatti che in tempi recenti è apparsa o è riapparsa la figura dell’ateo devoto, è altrettanto vero che da sempre nel mondo religioso è presente la figura del devoto ateo, cioè di colui che ostenta una religiosità tutta di facciata, senza una vera consonanza interiore.
Di questo falso devoto Gesù aveva denunciato più volte l’ipocrisia, soprattutto nel Discorso della montagna, là dove viene smascherata la pretesa di apparire persone esemplari da parte di coloro che sono sempre pronti a celare le proprie bassezze morali sotto il velo della virtù.
Il falso devoto è ridicolo, ingombrante, irritante, come appare attraverso la pungente rappresentazione che ne ha dato Molière nel Tartufo o l’impostore.
Ma soprattutto rende un cattivo servizio a Dio che egli peraltro crede di onorare con una religiosità tutta risolta in pratiche esteriori.
“Nulla spinge di più all’ateismo che la falsa devozione” ha scritto Jean Sulivan, un autore particolarmente attento a scrutare il fondo oscuro dell’animo umano, là dove tra ambiguità e simulazioni si consuma il tradimento peggiore che è quello nei confronti della propria fede.
Se qualcuno ha potuto dire: “Quando sento parlare di Dio, metto mano alla pistola”, è perché si è trovato davanti non il Dio del vangelo, ma un Dio moralistico che premierebbe gli scrupolosi osservanti della legge, quelli che lo onorano con tante piccole pratiche religiose, mentre si dimenticano che l’unica legge che conta è quella dell’amore.
Dio è amore, ci ha ricordato più volte l’apostolo Giovanni.
Per cui si impone immediatamente questa riflessione: il vero ateo è colui che non ama, che non sa amare.
Dice infatti Giovanni: “Chi non ama, non ha conosciuto Dio”.
È lui il vero ateo, il vero senza Dio.
Che dire allora delle preghiere con le quali certe persone scandiscono il loro tempo per ricevere un giorno il premio promesso?
Non c’è da intenerirsi troppo, se si pensa che esse sono spesso forme di ripiegamento sulle ragioni esclusive del proprio io.
C’è dunque una devozione atea che si apparenta facilmente con l’ateismo devoto.
In entrambi i casi c’è un io che rimane precluso al soffio della preghiera autentica.
A questo punto può essere opportuno richiamare qualche nota che appartenga in forma imprescindibile alla esperienza della preghiera, quale che sia la sua particolare espressione religiosa.
Già abbiamo avuto modo di associare alla preghiera l’immagine del soffio, come a dire che la vera preghiera ha sempre un connotazione di respiro, di leggerezza, di espansione degli spazi vitali oltre i limiti dell’esistente.
A questo senso di scioltezza e di libertà si accompagna una naturale disposizione a ciò che Kierkegaard chiamava la passione dell’interiorità per cogliere le vibrazioni di infinito che attraversano il nostro mondo finito e, al tempo stesso, non dovrebbe mancare una nota di stupore
di fronte al rivelarsi dell’inatteso e dell’insperato.
Si prova allora la felicità semplice di chi non ha nulla da dire né da domandare, ma gode di trovarsi in un rapporto di immensa tenerezza con tutti gli esseri nella cui presenza gli è dato talvolta di avvertire le tracce di una presenza più grande.
Questo desiderio di comunione universale che segna profondamente la coscienza del vero orante mi pare sia stato felicemente celebrato da Erri De Luca in un suo componimento poetico (è intitolato Valori e lo voglio citare per intero) che, pur non prendendo le movenze usuali di una preghiera, custodisce e rivela l’anima e il pathos di una autentica:preghiera:
Considero valore / ogni forma di vita / la neve, la fragola, la mosca. /
Considero valore / il regno minerale / l’assemblea delle stelle. /
Considero valore il vino / finché dura il pasto, / un sorriso involontario, /
la la emblea delestelle:
regno minerale / l'stanchezza di chi / non si è risparmiato, /due vecchi che si amano. /
Considero valore quello che / domani non varrà più niente / e quello che oggi vale ancora poco. /
Considero valore / tutte le ferite. /
Considero valore / risparmiare acqua, / riparare un paio di scarpe, /
tacere in tempo, /accorrere a un grido, / chiedere permesso / prima di sedersi, /
provare gratitudine senza / ricordare di che. /
Considero valore sapere in una / stanza dov’è il nord, /
qual è il nome del vento che sta / asciugando il bucato. /
Considero valore il / viaggio del vagabondo, / la clausura della monaca, /
la pazienza del condannato, / qualunque colpa sia. /
Considero valore l’uso / del verbo amare / e l’ipotesi che esista un creatore. /
Molti di questi / valori non ho / conosciuto.
(scritto per Odissea numero sttembre-ottobre 2007 pag.20)
Favolosa, è una delle riflessioni più interessanti
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