Questa sera vorrei intonare una trenodia.
Trenodia è parola greca che significa lamentazione.
E lamentazione è qualcosa di ben diverso dalle abituali lamentele che siamo soliti registrare nel corso delle nostre giornate.
Quante di queste lamentele abbiamo dovuto raccogliere durante estate, per il gran caldo che nessuna perturbazione riusciva a debellare, lasciando anzi la sensazione di un’afa particolarmente soffocante.
Ma non è di questo che intendo parlare.
È mortificante dover registrare che quella esperienza particolarmente gradevole che stai vivendo non si riproporrà mai più. È l’ultima volta, non ce ne sarà più un’altra.
Dico questo perché da diverse settimane mi sento angustiato dal fatto di dover rinunciare al piacere di guidare la mia auto.
A determinare questa decisione è stata soprattutto l’insistenza di famigliari e amici i quali vorrebbero evitarmi qualche brutta disavventura.
Non che abbia dato motivi di apprensione a quanti siano stati testimoni del mio stile di guida anche in tempi recenti, a quasi cinquant’anni dal rilascio della patente.
C’è chi potrebbe ferire il mio orgoglio richiamando un episodio che io stesso ho raccontato in una delle prime pagine di questo diario con il titolo “Soffro di amnesie senili”.
Quella volta avrei corso il rischio di sbandare con la mia macchina dopo avere urtato contro il cordolo della strada sul Turchino.
Ma si trattava - ora posso ben dirlo- di un’invenzione puramente letteraria che ubbidiva ad una esigenza di tipo narrativo.
E la riprova sta nel fatto che nessuno potrebbe mai trovare sul passo del Turchino neanche un pezzo di cordolo a delimitare il bordo della strada.
“Di che ti lamenti?” potrebbe obiettarmi qualche amico pantofolaio, uno di quelli dall’aria monsignorile (ce ne sono, eccome!), i quali preferiscono farsi portare lasciando ad altri le incombenze della guida.
Per conto mio non li invidio, perché, così facendo, non conosceranno mai il fascino di quella libertà che puoi provare quando, al volante della tua vettura, puoi scegliere un percorso piuttosto che un altro e senti il motore vibrare per qualche brusca frenata o per un’improvvisa accelerazione.
Quanti ricordi si affollano nella mia memoria per avere attraversato tanti paesi europei, macinando chilometri e chilometri, sempre difendendo il mio posto di guida, anche quando qualche compagno di viaggio avrebbe potuto benissimo darmi il cambio.
Da questi ricordi emergono in particolare situazioni, tutte nel segno di una ardente nostalgia, legate alla vettura che di volta in volta avevo la fortuna di guidare.
Le prime forti emozioni le ho provate prendendo lezioni di guida, in vista dell’esame per la patente, da quel grande amico che è stato per me e per molti don Giuliano Riva, lui pure insegnante nello stesso seminario ginnasiale.
Nel suo ruolo di istruttore sembrava severo, ma era anche molto spassoso, come quando, vedendomi procedere con eccessiva prudenza anche su strade semideserte, spazientito mi gridava: “Ma schiscia giò ‘sto ciud!”, alludendo al pedale dell’acceleratore che avrebbe avuto bisogno, a suo giudizio, di più numerose e robuste sollecitazioni.
Ed è da lui che ho imparato una norma di comportamento coniata, credo, dallo spirito misogino di qualche padre spirituale.
Si era fermi a un semaforo sulla Valassina, quando vedemmo avvicinarsi una ragazza a chiedere un passaggio per il paese più vicino. Fu allora che lo sentii sillabare, tra il serio e il faceto, questa massima: “I donn, che voeren fa l’autostop, regordes, l’è mej tiraj sota che tiraj su”.
È un fatto che le prime esperienze alla guida della mia auto sembravano allargare sempre più gli spazi della mia libertà.
Non sono mancati, certo, anche momenti di disaffezione, soprattutto quando si rifiutava di ripartire al mattino, per il freddo patito durante la notte, ma per lo più si stabiliva tra noi un rapporto di reciproca solidarietà tanto che mi capitava di parlare alla mia auto come se fosse una creatura sensibile, incoraggiandola nei momenti difficili ed esaltandone il valore dopo avere superato la prova.
A questo proposito, c’è un episodio che mi è rimasto impresso nella memoria con una nitidezza di particolari, come se appartenesse a una esperienza recente.
In realtà bisogna risalire a quella stagione del nostro mondo occidentale (era il famoso ’68) contrassegnata da continue agitazioni che spesso culminavano in fatti di sangue.
Quel giorno, essendo stato indetto uno sciopero generale, avevo disertato anch’io la scuola dove insegnavo e mi trovavo a conversare con un amico, libero lui pure, per stessa ragione, da ogni impegno di lavoro, quando all’improvviso udimmo dal cortile sottostante un vociare confuso e minaccioso come di gente che si fosse mossa per una spedizione punitiva.
Mi ci volle poco per capire che si trattava di un gruppo di “autonomi” il cui obiettivo doveva essere la sede di CL che si trovava proprio sotto la mia abitazione.
Tutto si svolse rapidamente, ma furono attimi spaventosi.
Si udirono dapprima dei botti assordanti, poi si levò una nuvolaglia nera quasi a nascondere lo scenario investito da tanta violenza, infine, al diradarsi di questa coltre fuligginosa, apparvero tante lingue di fuoco, alcune pronte ad aggredire l‘ascensore di cui già lambivano la struttura lignea,
altre sul punto di appiccare il fuoco ai vecchi armadi della vecchia sacrestia.
Ma la mia attenzione fu subito totalmente assorbita dal pericolo che incombeva sulla mia macchina parcheggiata in un angolo del cortile (era una Fiat 850), si trovava racchiusa entro una cornice di fuoco che ne aveva annerito le fiancate e che stava per intaccare le gomme.
Per me era come se l’avessi oramai perduta.
Mi trovavo paralizzato dalla paura che qualcosa dovesse scoppiare (o una gomma o il serbatoio), quando vidi la sagoma del mio amico raggiungere precipitosamente la mia macchina per poi balzare all’interno, incurante di ogni pericolo, riuscendo così a sottrarla alla morsa dei quel cerchio infernale.
Intanto una piccola folla di giovani, per lo più di CL, si era raccolta nel cortile deplorando ad alta voce la violenza subita dalla loro sede.
Di lì a poco comparve anche l’assistente di CL che ufficialmente sarebbe dovuto essere a Roma per discutere – così si vociferava – di cose estremamente importanti con un’alta carica del Vaticano.
All’arrivo di diversi cronisti attorno quali si formò subito un assembramento di persone pronte a dare la loro versione dei fatti, ci chiedemmo, io e il mio amico, che cosa fosse più conveniente per noi.
Ci guardammo negli occhi e la decisione fu subito presa.
Dopo aver dato uno sguardo compassionevole alla mia macchina che se ne stava ammaccata e negletta in un angolo del cortile, ci trovammo in una piccola trattoria del quartiere a smaltire le nostre emozioni attorno a un tavolo fumante di polenta e spezzatini.
Conclusione: Perché ho raccontato questa storia?
Per far capire come tra me e la mia macchina c’è sempre stato un rapporto non puramente strumentale, ma affettivo.
Ecco perché ogni volta che mi separavo dalla mia auto provavo una grande tristezza.
Avete un bel dirmi, cari amici: “Di che ti lamenti, visto che sei autosufficiente?".
Io avrei voglia di rispondere: che me ne faccio di questa autosufficienza se mi togliete l’auto?
Senza auto che senso ha quella sufficienza residua?
Che me ne faccio di una sufficienza che non abbia alcun riferimento concreto?
Ecco perché la lamentazione di cui parlavo all’inizio mi sembra più che legittima.
Il titolo che ho scelto all’inizio mi sembra più che giustificato.
Si tratta per me di una vera trenodia.
Trenodia è parola greca che significa lamentazione.
E lamentazione è qualcosa di ben diverso dalle abituali lamentele che siamo soliti registrare nel corso delle nostre giornate.
Quante di queste lamentele abbiamo dovuto raccogliere durante estate, per il gran caldo che nessuna perturbazione riusciva a debellare, lasciando anzi la sensazione di un’afa particolarmente soffocante.
Ma non è di questo che intendo parlare.
È mortificante dover registrare che quella esperienza particolarmente gradevole che stai vivendo non si riproporrà mai più. È l’ultima volta, non ce ne sarà più un’altra.
Dico questo perché da diverse settimane mi sento angustiato dal fatto di dover rinunciare al piacere di guidare la mia auto.
A determinare questa decisione è stata soprattutto l’insistenza di famigliari e amici i quali vorrebbero evitarmi qualche brutta disavventura.
Non che abbia dato motivi di apprensione a quanti siano stati testimoni del mio stile di guida anche in tempi recenti, a quasi cinquant’anni dal rilascio della patente.
C’è chi potrebbe ferire il mio orgoglio richiamando un episodio che io stesso ho raccontato in una delle prime pagine di questo diario con il titolo “Soffro di amnesie senili”.
Quella volta avrei corso il rischio di sbandare con la mia macchina dopo avere urtato contro il cordolo della strada sul Turchino.
Ma si trattava - ora posso ben dirlo- di un’invenzione puramente letteraria che ubbidiva ad una esigenza di tipo narrativo.
E la riprova sta nel fatto che nessuno potrebbe mai trovare sul passo del Turchino neanche un pezzo di cordolo a delimitare il bordo della strada.
“Di che ti lamenti?” potrebbe obiettarmi qualche amico pantofolaio, uno di quelli dall’aria monsignorile (ce ne sono, eccome!), i quali preferiscono farsi portare lasciando ad altri le incombenze della guida.
Per conto mio non li invidio, perché, così facendo, non conosceranno mai il fascino di quella libertà che puoi provare quando, al volante della tua vettura, puoi scegliere un percorso piuttosto che un altro e senti il motore vibrare per qualche brusca frenata o per un’improvvisa accelerazione.
Quanti ricordi si affollano nella mia memoria per avere attraversato tanti paesi europei, macinando chilometri e chilometri, sempre difendendo il mio posto di guida, anche quando qualche compagno di viaggio avrebbe potuto benissimo darmi il cambio.
Da questi ricordi emergono in particolare situazioni, tutte nel segno di una ardente nostalgia, legate alla vettura che di volta in volta avevo la fortuna di guidare.
Le prime forti emozioni le ho provate prendendo lezioni di guida, in vista dell’esame per la patente, da quel grande amico che è stato per me e per molti don Giuliano Riva, lui pure insegnante nello stesso seminario ginnasiale.
Nel suo ruolo di istruttore sembrava severo, ma era anche molto spassoso, come quando, vedendomi procedere con eccessiva prudenza anche su strade semideserte, spazientito mi gridava: “Ma schiscia giò ‘sto ciud!”, alludendo al pedale dell’acceleratore che avrebbe avuto bisogno, a suo giudizio, di più numerose e robuste sollecitazioni.
Ed è da lui che ho imparato una norma di comportamento coniata, credo, dallo spirito misogino di qualche padre spirituale.
Si era fermi a un semaforo sulla Valassina, quando vedemmo avvicinarsi una ragazza a chiedere un passaggio per il paese più vicino. Fu allora che lo sentii sillabare, tra il serio e il faceto, questa massima: “I donn, che voeren fa l’autostop, regordes, l’è mej tiraj sota che tiraj su”.
È un fatto che le prime esperienze alla guida della mia auto sembravano allargare sempre più gli spazi della mia libertà.
Non sono mancati, certo, anche momenti di disaffezione, soprattutto quando si rifiutava di ripartire al mattino, per il freddo patito durante la notte, ma per lo più si stabiliva tra noi un rapporto di reciproca solidarietà tanto che mi capitava di parlare alla mia auto come se fosse una creatura sensibile, incoraggiandola nei momenti difficili ed esaltandone il valore dopo avere superato la prova.
A questo proposito, c’è un episodio che mi è rimasto impresso nella memoria con una nitidezza di particolari, come se appartenesse a una esperienza recente.
In realtà bisogna risalire a quella stagione del nostro mondo occidentale (era il famoso ’68) contrassegnata da continue agitazioni che spesso culminavano in fatti di sangue.
Quel giorno, essendo stato indetto uno sciopero generale, avevo disertato anch’io la scuola dove insegnavo e mi trovavo a conversare con un amico, libero lui pure, per stessa ragione, da ogni impegno di lavoro, quando all’improvviso udimmo dal cortile sottostante un vociare confuso e minaccioso come di gente che si fosse mossa per una spedizione punitiva.
Mi ci volle poco per capire che si trattava di un gruppo di “autonomi” il cui obiettivo doveva essere la sede di CL che si trovava proprio sotto la mia abitazione.
Tutto si svolse rapidamente, ma furono attimi spaventosi.
Si udirono dapprima dei botti assordanti, poi si levò una nuvolaglia nera quasi a nascondere lo scenario investito da tanta violenza, infine, al diradarsi di questa coltre fuligginosa, apparvero tante lingue di fuoco, alcune pronte ad aggredire l‘ascensore di cui già lambivano la struttura lignea,
altre sul punto di appiccare il fuoco ai vecchi armadi della vecchia sacrestia.
Ma la mia attenzione fu subito totalmente assorbita dal pericolo che incombeva sulla mia macchina parcheggiata in un angolo del cortile (era una Fiat 850), si trovava racchiusa entro una cornice di fuoco che ne aveva annerito le fiancate e che stava per intaccare le gomme.
Per me era come se l’avessi oramai perduta.
Mi trovavo paralizzato dalla paura che qualcosa dovesse scoppiare (o una gomma o il serbatoio), quando vidi la sagoma del mio amico raggiungere precipitosamente la mia macchina per poi balzare all’interno, incurante di ogni pericolo, riuscendo così a sottrarla alla morsa dei quel cerchio infernale.
Intanto una piccola folla di giovani, per lo più di CL, si era raccolta nel cortile deplorando ad alta voce la violenza subita dalla loro sede.
Di lì a poco comparve anche l’assistente di CL che ufficialmente sarebbe dovuto essere a Roma per discutere – così si vociferava – di cose estremamente importanti con un’alta carica del Vaticano.
All’arrivo di diversi cronisti attorno quali si formò subito un assembramento di persone pronte a dare la loro versione dei fatti, ci chiedemmo, io e il mio amico, che cosa fosse più conveniente per noi.
Ci guardammo negli occhi e la decisione fu subito presa.
Dopo aver dato uno sguardo compassionevole alla mia macchina che se ne stava ammaccata e negletta in un angolo del cortile, ci trovammo in una piccola trattoria del quartiere a smaltire le nostre emozioni attorno a un tavolo fumante di polenta e spezzatini.
Conclusione: Perché ho raccontato questa storia?
Per far capire come tra me e la mia macchina c’è sempre stato un rapporto non puramente strumentale, ma affettivo.
Ecco perché ogni volta che mi separavo dalla mia auto provavo una grande tristezza.
Avete un bel dirmi, cari amici: “Di che ti lamenti, visto che sei autosufficiente?".
Io avrei voglia di rispondere: che me ne faccio di questa autosufficienza se mi togliete l’auto?
Senza auto che senso ha quella sufficienza residua?
Che me ne faccio di una sufficienza che non abbia alcun riferimento concreto?
Ecco perché la lamentazione di cui parlavo all’inizio mi sembra più che legittima.
Il titolo che ho scelto all’inizio mi sembra più che giustificato.
Si tratta per me di una vera trenodia.