mercoledì 20 febbraio 2008

Una grandezza nascosta (29 gennaio)


Leggendo oggi il Corriere ho trovato un paginone dedicato ai malati di parkinson
Mi ha colpito in particolare un servizio che portava questo titolo: “Da Wojtyla a Dalì, il male dei grandi”
Mi ha colpito, ma sarebbe bene precisare: mi ha contrariato, urtato, indispettito.
Mi sono detto:“Se è vero che il parkinson è il male dei grandi, che c’entro io con questa malattia?”.
Posso capire che nell’elenco delle persone citate figurino i nomi di Papa Wojtyla, del mio carissimo card. Martini come pure quello di mons. Maggiolini, vescovo di Como, che tante volte ha avuto l’onore di comparire in televisione nel prestigioso servizio di Bruno Vespa, Porta a porta, ma uno come me che neppure può fregiarsi impunemente del titolo di monsignore, avrebbe dovuto sentirsi al riparo da questa malattia.
Che sia sbagliata la tesi sostenuta nel Corriere?
Un giornalista, per di più del Corriere, non può dire cose che non siano fondate.
E allora non mi resta che denunciare la grave ingiustizia che mi è stata fatta.
“No, non è giusto!”mi dico. "Io mi ribello. Qui c’è un abbaglio colossale. A meno che…”.
Mi sorge un dubbio.
E se godessi di una grandezza nascosta, per nulla appariscente, così ben dissimulata da non averne la benché minima consapevolezza?
Devo perciò impegnarmi a scoprire quest’altra identità, per spiegarmi come possa essere stato cooptato nella famiglia eletta dei parkinsoniani.
Ho scritto un Elogio della piccolezza.
E gli amici sanno della mia predilezione per la semplicità dell’asinello, assunto da me come emblema di una vita evangelicamente realizzata.
Non potrebbe essere stato (cerco di indovinare) proprio l’amore per le cose che non contano a segnalare il mio caso a chi dall’alto dispensa i percorsi da seguire secondo una logica non sempre facilmente accertabile?
Mi rimane da scoprire se e in che misura il “male dei grandi” possa essere inteso come un privilegio oppure come una prova particolarmente severa.
E qui mi si affaccia un’interpretazione che può sciogliere qualche nodo di troppo e consentirmi una comprensione più pacata e pacificante della mia condizione.
ll parkinson è il “male dei grandi” perché permette di seguire un cammino che può portare alla vera grandezza dell’uomo.
E’ vero: quel “lui” (mister Parkinson) di cui ho già parlato lo sento spesso come un essere ingombrante, dispettoso, impiccione.
Ma il fatto di rallentare i miei movimenti e di isolarmi nel corso di una conversazione mi offre l’opportunità di approfondire certe riflessioni che hanno bisogno di grandi silenzi per diventare motivi di immensa consolazione.
Ricordo, a questo proposito, con quale passione il carissimo amico don Michele Do richiamasse le parole del vangelo, di Agostino, di Gandhi sulla necessità di abitare dentro gli spazi della propria interiorità per ascoltare dalla voce del cuore verità che contano veramente.
In interiore homine habitat veritas”diceva con il grande Agostino.
Perciò sentiva di dover condividere anche il suo invito a rientrare in se stesso: In te ipsum redi.
Liberato dalle urgenze del fare mi trovo particolarmente favorito in questa discesa nel profondo della interiorità dove mi è dato di sognare e di contemplare, di apprezzare le piccole .gioie che la vita dispensa ogni giorno, senza essere distratto da tante futilità, di sentirmi in pace con gli altri, ma anche con il mio passato, riscoprendo e conservando della vita soprattutto il profumo di bontà di qualche volto che ho incontrato.Se poi mi fosse concesso di contemplare “quel” volto, potrei dire anch’io, come il vecchio Simeone: “Ora lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola”.

sabato 16 febbraio 2008

Per dire grazie


Ovada, Masone sono nomi che mi resteranno nella memoria come i nomi di Jena, Lipsia, Austerlitz dove Napoleone vinse le sue gloriose battaglie.
Perché Ovada e Masone godono ai miei occhi dello stesso prestigio delle grandi imprese napoleoniche?
Perchè è lì che mi sono misurato con le forze scatenate della natura riportandone una vittoria che in certi momenti mi era sembrata impossibile.
Ecco in rapida sintesi ciò che meriterebbe di essere trattato con i toni della più alta poesia epica.
Ore 13 di martedì 4 febbraio: caricati i bagagli, si parte per Ospedaletti dove, come ogni anno, a carnevale, spero di trovare il clima mite di una incipiente primavera.
Il viaggio sull’autostrada per Genova non presenta particolari problemi.
La leggera pioggia che m’accompagna mi sottrae al rischio, ben più preoccupante, della nebbia.
Se non che, una volta imboccata la deviazione per Ventimiglia, lo scenario volge decisamente al peggio.
Vedo. in lontananza, nuvolaglie enormi e compatte sostare immobili sulle pendici del Turchino, mostruosamente nere e oscenamente gravide di chissà quali minacce.
E’ questione di pochi minuti e tutto si oscura davanti a me: che sia già entrato nel ventre della bufera come Giona nel ventre della balena?
Riesco solo a leggere su un pannello luminoso questa scritta: PIOGGE INTENSE FINO A OVADA.
Hanno ragione di usare il plurale:si tratta infatti di scrosci a ripetizione, improvvisi e violenti, separati l’uno dall’altro da una piccola frazione di tempo.
Avranno ragione anche nell’indicare Ovada come termine estremo di questo furioso accanimento contro la mia povera vettura che già arranca faticosamente sulle prime salite che portano al Turchino?
Intanto sale la tensione anche all’interno della vettura, visto che il passeggero che mi sta al fianco non smette di trasmettermi sempre più nervosamente segnali che dovrebbero facilitarmi la guida in quella critica congiuntura (vedo le sue mani agitarsi in continuazione come quelle di un grande direttore d’orchestra) fino al momento in cui, non potendo più comprimere l’ansia, cerca di sdrammatizzare la situazione con questa battuta: “Finalmente qualcuno ha pensato di lavarti la macchina”.
Ero tentato di chiedergli: “Perché non mi canti il famoso motivetto di Rascel: ‘E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale?’ Credo che farebbe bene sia a me che a te”.
Devo riconoscere a questo punto il perfetto funzionamento della segnaletica autostradale.
Le intense piogge in prossimità di Ovada erano infatti cessate, come da copione, ma c’era ben poco da rallegrarsi dal momento che un nuovo pannello luminoso mi annunciava la presenza di nevischio fino a Masone.
“Nevischio?” mi dicevo – “Ma dove è mai?”
Guai a provocare il nemico che ti aspetta al varco.
Il nevischio non si è fatto attendere segnalato da un brusio che si infittiva sempre di più fino a rendersi visibile attraverso un sottile velo bianco che intanto si andava formando sulla strada.
Mi ci volle poco a capire che dal nevischio si era passati alla neve e che per me la situazione si faceva ancora più delicata.
Senza gomme da neve e senza catene, che cosa avrei potuto opporre alla nuova e più grave minaccia?
Ho sempre odiato la neve, più che la nebbia, da quando una sera - ero ancora fresco di patente - sulla strada che m’avrebbe riportato in seminario mi ritrovai con la macchina rigirata in senso contrario, per l’impossibilità di governare i suoi movimenti su quel manto nevoso.
Ora non mi restava che procedere con grande prudenza cercando di mettere le mie ruote nei solchi lasciati dalla macchina che mi precedeva, augurandomi che non le succedesse di arrestarsi per non essere coinvolto in qualche spiacevole disavventura.
Si ostinasse pure il mio compagno di viaggio a gridarmi: “Metti la terza….Non vedi che i vetri si appannano ...Non potresti sostare un poco nella prossima galleria?...”.
Per conto mio ero talmente concentrato nella guida che ascoltavo solo il mio istinto, accarezzando peraltro l’idea di fermarmi non in galleria (già, come se fosse possibile senza intralciare pericolosamente il traffico), ma presso il più vicino posto di ristoro.
Se non che, come saggiamente ammonisce un detto popolare, l’uomo propone, ma è il cielo che dispone.
E il cielo dimostrò di non avere ancora esaurito tutte le sue potenzialità aggressive.
Fu proprio all’uscita di una galleria che mi si accesero davanti agli occhi due lampi, seguiti da un cupo brontolio.
“Sta’a vedere che ora si mette pure a grandinare”.
E questa volta, senza alcun preavviso, sopraggiunse una tempesta di grandine così violenta (pareva che le nuvole fossero venute tutte a sgravarsi completamente sul mio percorso) che, arrivato in prossimità del posto di ristoro dopo Masone, decisi di proseguire.
Sostare infatti voleva dire aggravare una situazione già estremamente rischiosa. Dove avrei potuto mettere i piedi per terra senza correre il pericolo di scivolare?
E come mi sarebbe stato possibile difendermi dalle sferzanti carezze della grandine?
“Ero tra due fuochi”avrei potuto dire anch’io con le parole che un mio lontano alunno aveva usato (oh beata ingenua incoscienza!) per descrivere in un tema una situazione analoga alla mia.
Questo ricordo mi addolcì, sia pure di poco, la tristezza del momento.
Sentivo comunque che il peggio stava passando e che pertanto potevo salutare la mancata sosta con questo breve, patetico discorso: “Addio a voi, toilettes accoglienti e ospitali, che al viandante provato da una troppo lunga attesa sapete offrire la vostra discreta e dolce complicità: addio!
E addio anche a te, fumante tazza di cioccolata calda a lungo vagheggiata ed ora cancellata da un destino veramente avverso: addio!”.
Per il resto del viaggio, nulla di rilevante da segnalare. Oramai ad accompagnarmi era una pioggia continua fino a Sanremo, dove, lasciando l’autostrada, mi apparve all’improvviso il cielo in direzione di Bordighera tutto macchiato di un rosso vivo: era il sole che al tramonto cercava di farsi largo tra le nuvole ancora dense, promettendo un tempo splendido per i giorni a venire.

P.S.
Perché questa lunga pagina dedicata a un fatto pressoché inconsistente?
Lascio al lettore di scorgere le motivazioni nascoste, frugando anche nel mio inconscio.
Per parte mia l’ho intesa come un’occasione per dire grazie.
La preghiera di ringraziamento non ha bisogno di occasioni particolarmente solenni, se è vero che, come ebbe a osservare Bernanos sulla scorta della piccola Teresa di Lisieux, “tutto è grazia”.