giovedì 30 giugno 2011

Ma mì

Ma mì: due monosillabi, due particelle di un discorso che si preannuncia molto teso.
Il ma avversativo suggerisce l’idea di una conflittualità, mentre il mì successivo, che nel dialetto milanese corrisponde al di I persona (mi=io), rappresenta il soggetto a cui è affidata l’azione contestatrice nei confronti di una situazione che altrimenti sarebbe insostenibile.
Un esempio?
Lo trovo in un poemetto di Carlo Porta che mi è capitato di rileggere in questi giorni.
Per illustrare i caratteri diversi della poesia rispetto a quella classica (il poemetto è intitolato Romanticismo), il Porta mette in scena un bon omm che, mentre el fava i fatt soeu dietro il Duomo, viene sorpreso da uno scaccino cattedrale il quale lo redarguisce gridandogli:
“Se pò nò, se pò nò!... Ma mì la foo” è stata la risposta.
La bassezza del paragone, già rilevata del resto dall’autore stesso, non impedisce di cogliere la forza di questo ma mì che pare attinga le sue ragioni non solo da un dato incontrovertibile della natura, ma anche, sia pure velatamente, da una Parola che un giorno si è fatta udire nella storia dell’umanità.
Cercherò ora di chiarire queste osservazioni ripercorrendo il cammino che mi ha portato visione superficiale della realtà, legata cioè all’evidenza dei suoi aspetti esteriori, alla percezione di un senso più profondo, se solo si fosse disposti a convertire i dati oggettivi in elementi metaforici, capaci cioè di alludere a una realtà più nascosta.
Leggendo “se pò nò, se pò nò, ma mì la foo…” ho ritrovato nella memoria immagini di una gita- pellegrinaggio al santuario della Madonna di Einsiedeln nel nord della Svizzera.
Da Porlezza, dove trascorrevo con i miei compagni di II teologia il mese di vacanza estiva (era l’agosto del 1953), diversi pullman ci avrebbero portati alla meta.
Data la lunghezza del percorso, poche erano le soste. Forse una sola.
Fu pertanto una fortuna che viaggiasse con noi un nostro anziano professore il quale, a un certo punto, ancor prima che si arrivasse alla sosta programmata., fece arrestare il nostro pullman ai margini di un vasto prato, delimitato da una fitta siepe di arbusti.
Cosa stava succedendo?
Tutto fu chiaro quando vedemmo il nostro professore lasciare il pullman con un’agilità insospettata e, senza neppure cercare un riparo decoroso, farsi “i fatti suoi,” con estrema naturalezza .
E fu in quella occasione che, risaliti sul pullman (tutti o quasi avevano approfittato di quella sosta), sentimmo la voce citare, quasi a chiedere scusa, le parole del Porta: “Se pò nò nò, se pò nò!...Ma mi la foo”.
E subito dopo ci interpellò con questa domanda: “Non vi pare di avvertire qualche consonanza tra le parole del Porta e quelle del Vangelo?
Per cui a me sembra – aggiunse – che si potrebbe parlare di un “vangelo secondo Carlo Porta”.
E proseguì dicendo:”Pensate alle antitesi che si trovano Discorso della montagna riportato da Matteo.
Sono famose. Dovrebbe essere facile ricordarle.
Eccone alcune.
“Voi sapete che ai vostri antenati fu detto: Non uccidere..
Io però vi dico…
“Voi sapete che fu detto: Occhio per occhio e, dente per dente.
Io però vi dico...”
Notate. In questi diversi esempi c’è un’affermazione il cui senso viene corretto o capovolto
dall’autorità di un io che ha tutta la forza del ma mì usato dal Porta.
Questo ma mi si può intuire anche là dove Gesù, in polemica con i farisei o gli scribi sempre pronti a denunciare i suoi comportamenti, soprattutto in occasione di miracoli compiuti in giorno di sabato, rivendica la sua libertà in nome di un principio che egli ha formulato con queste parole:
“Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Ma sapete che cosa vuol dire un’affermazione di questo genere?
Riuscite a capire quale libertà Gesù riconosceva all’uomo?”.
A questo punto la voce dell’oratore, già incrinata dalla fatica e forse anche da qualche emozione troppo forte, ci lasciò a una nostra personale riflessione.
Tutti fummo sorpresi nel costatare che sul nostro pullman si era creata un’atmosfera di silenzio non passivo ma creativo, come se ciascuno si sentisse invitato a portare a termine quella improvvisata e un po’ ruspante lectio magistralis a cui aveva assistito.
E intanto si rendeva palese anche un clima di crescente simpatia verso quel nostro insegnante che, lontano dalle aule scolastiche, per la prima volta ci rivelava qualche tratto della sua calda umanità.
Eravamo in prossimità della meta quando, nell’attraversare , riudimmo ancora la sua voce che ci invitava, questa volta, a prestare attenzione a un cartello stradale che avremmo trovato
sulla nostra destra.
Si procedeva lentamente in quel tratto di strada e quindi tutti ebbero la possibilità di assecondare il desiderio del nostro grande maestro.
Due erano le note informative che venivano trasmesse.
La prima riguardava l’orario festivo delle S. Messe.
L’altra era segnalata da un vistoso WC seguito da un segno che ne indicava la ubicazione nella piazza della chiesa.
Ma perché i due avvisi erano strettamente legati tra loro quando nel riquadro del cartello c’era tanto spazio che avrebbe permesso di tenerli ben distinti?
E soprattutto, perché quel profano WC doveva campeggiare proprio sotto la dicitura S. Messe del primo avviso?
E‘un fatto che tutti vi avevano colto un intento dissacrante(“blasfemo”addirittura, come ebbe a suggerire qualcuno).
Si può capire pertanto quale fu la nostra sorpresa quando, riprendendo la parola, il nostro maestro ci confidò di non potere condividere le nostre impressioni.
Se è vero infatti che due sono le dimensioni costitutive dell’essere umano, quella spirituale e quella materiale, fisica, carnale, non era possibile privilegiare la prima mortificando la seconda, entrambe dovevano essere riconosciute e rispettate.
Era il caso di citare a questo proposito un detto famoso del grande Pascal:”
“Chi vuol fare l’angelo, fa la bestia”.
Perciò, là dove noi avevamo avuto il sospetto di un intento denigratorio, egli vi trovava il segno di un alto grado di civiltà e di una cultura.
Queste cose le andava dicendo con la forza di un suo personale ma mi che, mentre dissipava i nostri pregiudizi, disponeva il nostro cuore ad accogliere con gioioso stupore la parola sempre nuova e sempre umanizzante del vangelo di Cristo.
Era tale il fascino che esercitava su quanti lo stavano ascoltando che, una volta raggiunta la meta, si formò attorno a lui un drappello dei suoi più vivaci estimatori con la speranza di avere in dono qualche altro saggio della sua sapienza evangelica.
Ma intanto urgevano incombenze che sarebbe stato imprudente rimandare.
Un aiuto in tale senso ci venne offerto da una piccola e sottile tavola di legno grezzo, lavorata in forma di freccia per suggerire .
Ma dove ci avrebbe portati quella indicazione, visto che tutte le spiegazioni possibili erano racchiuse in una sola parola e per di più poco incoraggiante?
ABORT infatti era la sola parola incisa nel legno di quella piccola tavola.
A liberarci dalle nostre perplessità fu ancora una volta la presenza del nostro amabilissimo professore il quale, con un’intonazione rassicurante e lasciando un piccolo spazio alla nostra intuizione, ci incoraggiò dicendo:”Fieu, la parola l’è bruta, ma l’è quela che fa per mi”.
E subito lo vedemmo sparire nella direzione indicata.

Ma mi 2

Il nesso sintattico ma mi, incontrato in una poesia del Porta, aveva lasciato in me la curiosità di vedere se mai potessi trovare altri esempi, sempre tra gli scritti in dialetto milanese.
Devo ammettere di essere stato particolarmente fortunato, perché, di lì a poco, mi sono ricordato di un detto popolare che recita: “Lu me n’à dà, ma mi ghe nu dì”.
E’una frase il cui senso è affidato a diversi sottintesi.
Tradotta in lingua., essa suona così:”Lui me ne ha date, ma io glie ne ho dette.”
Lu:.chi è mai questo lui che con il suo comportamento violento crea un profondo disagio in chi è costretto a subire le sue sopraffazioni?
Ciascuno di noi, anche la persona più mite, può avere conosciuto situazioni in cui si è trovato esposto a certi gesti di malvagità senza la possibilità di rivalersi in qualche modo delle ingiustizie patite.
Non resta allora che cercare una compensazione attraverso la via dello sberleffo praticato segretamente senza lasciare un benché minimo sospetto.