martedì 25 settembre 2007

Monsignore tifa Bearzot (per il suo ottantesimo compleanno)

Monsignore, che già una volta ha abbandonato per qualche breve margine di tempo la frequentazione di interessi, si fa per dire, più elevati per difendere le ragioni della sua seconda piccola fede, quella relativa alla squadra del cuore (Monsignore tifa Inter), si lascia ora amabilmente coinvolgere nel coro di voci sincere che intendono celebrare un maestro di semplicità e di lealtà.
Si associa ben volentieri sapendo che nel caso dell’amico Bearzot non c’è il rischio di praticare un elogium tale da assecondare le esigenze del grande circo mediatico che ama più la finzione che la verità.
E’ certo infatti che se mai l’amico Enzo si trovasse a leggere qualcosa che non aderisce alla sua natura schiva, di uomo cioè le cui qualità sono così ben dissimulate da diventare il normale modo di essere, non si risparmierebbe il gusto di commentare con una robusta pernacchia friulana.
Sono quasi venticinque anni che monsignore ha la fortuna di avvicinarlo, da quando (ricorda bene quella prima volta), passando per la benedizione delle famiglie, si vide contraccambiare le poche gocce di acqua benedetta con un calice colmo di grappa picolit, da consumare – beninteso - lì per lì, con la stessa docilità con cui lui aveva accolto il rito della benedizione.
Da quel primo incontro benedetto con acqua e “spirito” è nata un’intesa che si sarebbe poi nutrita più di sguardi che di parole, perché era dato a ciascuno di intuire i pensieri dell’altro semplicemente attraverso le espressioni del volto.
Le parole, si diceva, erano poche, ma sempre sapide da parte sua, perché attingevano a una saggezza popolare che aveva radici lontane tanto da impreziosirsi talvolta di qualche massima latina che meglio rispecchiasse la sua visione della vita.
A monsignore pare di capire che proprio da una di queste reminiscenze letterarie l‘amico Enzo abbia mutuato la vis polemica che sente di dover esprimere nei confronti di quel mondo fatuo, esibizionista, cialtrone che sembra imporsi in ogni ambito della vita sociale.
O quanta species… cerebrum non habet!” ama ripetere con il grande Fedro.
Bisognerebbe - confessa monsignore - sorprenderlo al mattino al bar dove è solito prendere il caffè per sentire con quale veemenza, dopo aver dato uno sguardo al giornale, si impegna a denunciare e a demolire le apparenze vuote di gente la cui irresistibile ascesa nel campo della politica come in quello dello sport non è per lui motivo di invidia, ma di profondo disgusto.
Non si lascia certo conquistare dai grandi personaggi che trionfano sulla scena mediatica, ma dalle persone vere che abbiano in testa un po’ di quel cerebrum senza il quale tutto diventa finzione e inganno.
Ma in che cosa consiste precisamente questo elemento che dà sapore a tutta l’esistenza?
Non si tratta di quella intelligenza fredda e calcolatrice di cui si servono gli arrampicatori sociali che Bearzot non si stanca di detestare.
Si tratta piuttosto di quel tipo di intelligenza che coniuga in sè la mente e il cuore, di quella particolare saggezza che rivela un profondo legame con il mondo degli affetti.
A questo punto monsignore non intende forzare la sua discrezione che ama rivestire i sentimenti di grande pudore.
Ma come potrebbe passare sotto silenzio l’importanza che l’amicizia ha sempre avuto nella vita di Enzo Bearzot?
L’amicizia, come per padre David Maria Turoldo, suo conterraneo, rappresenta il bene più grande e l’esperienza privilegiata per riscattare l’esistenza da ogni forma di noia e di stanchezza.
Dell’amicizia conosce la tenerezza che si esprime particolarmente nella dolce complicità con la moglie Luisa.
Che importa se per le sue premurose e tenaci insistenze ha dovuto rinunciare al gusto di ripulire la tazzina del caffè con qualche goccia di grappa secondo il rituale tutto friulano del resentin come pure si è lasciato privare della gloriosa pipa dei mondiali che gli conferiva una simpatica aria patriarcale quando certi sbuffi di fumo gli incorniciavano il volto?
Sentirsi governato da una presenza così affettuosa gli ha fatto apprezzare ancora di più i legami che nell’ordine dell’amicizia si sono intrecciati nella sua vita e che ora rimangono saldamente radicati nel suo cuore.
Si può capire perciò la commozione con cui parla dei “suoi ragazzi” che hanno condiviso nella stagione eroica dei mondiali di Spagna le tensioni e le fatiche come anche le grandi soddisfazioni dopo il meritato trionfo.
Monsignore, che da tempo ormai lo vede arrivare puntualmente ogni domenica nella sua chiesa con l’immancabile presenza della cara Luisa e di un piccolo stuolo di amici a lui devoti (tra questi c’è anche un campione del mondo di ciclismo su pista), potrebbe parlare a lungo del suo grande cuore, aperto a tutto ciò che di bello e di buono offre la vita, soprattutto al dono dell’amicizia.
Ma vorrebbe concludere questa sua affettuosa testimonianza con un ricordo che lo tocca da vicino procurandogli un’emozione sempre nuova.
Bisogna sapere che sulla parete dello studio a cui è addossato il suo tavolo di lavoro compare in un ovale una grande fotografia che lo ritrae di spalle con addosso la maglia nerazzurra contrassegnata, a chiare lettere, dal suo nome e, quasi ad occupare tutta la schiena, dal numero 50.
A chi è dovuta tale bizzarra invenzione?
Fu durante il grande pranzo organizzato in parrocchia per celebrare il cinquantesimo di sacerdozio che monsignore si trovò accanto l’amico Bearzot dal quale, in uno scroscio di applausi, si vide rivestito di colori meno sacri ma ugualmente cari al suo cuore.
Ora, volendo contraccambiare il favore, immagina l’amico ripreso lui pure di spalle, in maglia azzurra, su cui dovrebbe risaltare con particolare evidenza il numero 80.
E immagina ancora di vedere questa grande fotografia inserita, come la sua, in una falsa cornice elaborata dal computer che però preveda la presenza di un cartiglio per una possibile dedica.
Che cosa amerebbe scrivere?
Ad multos annos?:troppo banale.
Per aspera ad astra? : troppo ascetico.
Excelsior? : troppo irenico.
E allora monsignore si arrende e preferisce accompagnare i passi dell’amico con le parole che gli nascono dal cuore: “Caro Enzo, ti hanno chiamato il vecio per la tua saggezza, ma io mi ostino a vedere in te i tratti del bambino che sogna un mondo sempre più bello.
Che il mondo sia fatto per la gioia e per l‘amore, ce lo ricorda anche il nostro amico, padre Turoldo, del quale vorrei dedicarti alcuni versi che sono una calda esortazione alla speranza:
"Tempo è di unire le voci
di fonderle insieme
e lasciare che la grazia canti
e ci salvi la bellezza
”.

mercoledì 12 settembre 2007

Ateismo e preghiera

Dio non esiste.
Io lo prego tutti i giorni.”

Ho trovato questa confidenza nell’ultimo libro (Notre Père) di Jean-Yves Leloup il quale, dopo averla raccolta dalle labbra di un amico filosofo, ne ha fatto oggetto di attenta riflessione.
Le parole citate con il loro carattere paradossale potrebbero suggerire il tema di un dibattito dal titolo: “E possibile conciliare ateismo e preghiera?”.
Immagino di essere anch’io partecipe di questa discussione: che cosa potrei dire?
A me pare possibile dichiararsi atei e custodire d’altra parte una naturale disposizione alla preghiera.
La contraddizione non deve sorprendere se appena si pensa che in ciascuno di noi agiscono ed entrano in conflitto forze diverse, razionali e irrazionali, speculative e affettive.
Può essere perciò che una posizione rigorosamente atea subisca una sorta di erosione quando entrano in gioco altri elementi non più riconducibili alla pura ragione.
Mi riferisco in particolare a quel senso di precarietà che innerva le strutture profonde del nostro vivere con un corredo di paure da cui nascono appelli verso un possibile riscatto.
È appena il caso di osservare che precarietà e prece hanno in comune la stessa radice.
È possibile, in altre parole, avvertire il gemito che nasce dal cuore di ogni creatura ferita e umiliata dalla propria incompiutezza.
Si tratta di una invocazione universale in cui si fondono accenti diversi come diversa e composita è la realtà che li esprime.
E io sono portato a credere che anche la persona che si professa atea sia in qualche modo coinvolta in questo coralità di voci che anelano a un superamento dei propri limiti creaturali ed esistenziali.
Se la mente rimane chiusa al mondo trascendente e quindi ad ogni forma di preghiera, a pregare è tutta l’esistenza quando si muove sotto il segno della fatica e della fragilità.
Pregano allora gli occhi umidi di pianto, prega il cuore sotto il bruciore di un’assenza, pregano le mani quando non riescono più a trattenere, ad accarezzare, a modellare…
E può succedere che questa preghiera informe e silenziosa professata dentro le fibre oscure dell’esistenza si interiorizzi nel cuore di una persona come esigenza di rapporto con un tu trascendente.
È quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie.
Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine
”.
Mentre rimane salda la convinzione che Dio non esiste, si vorrebbe che Dio esistesse o lo si immagina esistente come principio di ordine e di coesione dentro una realtà ingovernabile e magmatica oppure come l’interlocutore necessario per chi sente il peso della propria radicale solitudine.
Privato di un’alterità che possa dare un senso al suo esistere, l’uomo si trova davanti a un grande vuoto.
Ed è da questo vuoto che nascono preghiere paradossali, incoerenti, disperate.
Come questa di Mario Tobino:

O Dio, chiunque tu sia,
o non esista,
o trascorra come un concetto
le nostre menti,
benedici anche me”.

Giorgio Caproni arriva a pregare perché Dio si sforzi di esistere:

Dio di volontà,
Dio onnipotente, cerca
(Sforzati!), a furia d’insistere,
almeno – d’esistere”.


Zinoviev, uno scrittore russo appartenente alla grande stagione del dissenso sovietico, in un componimento intitolato La preghiera di un ateo credente, dopo essersi rivolto anche lui a Dio pregandolo di esistere non solo come onnipotente, ma come Padre, conclude la sua preghiera con questi accenti accorati:

“Vivere senza testimoni, quale inferno!
Per questo, forzando la mia voce,
io grido, io urlo:
Padre mio,
ti supplico
e piango:
Esisti!”

A questa stessa professione di fede in un Dio inesistente, ma invocato disperatamente come Padre si apparenta anche la confidenza rilasciata a Jean–Yves Leloup dall’amico filosofo il quale alle parole già citate aggiungeva:
Ogni giorno, dal tempo della mia infanzia recito il Padre nostro.
Questo non vuol dire nulla per me, nessuna parola ha senso e tuttavia è una cosa che mi fa bene”.

A questo punto merita un discorso a parte quello riguardante i cosiddetti atei devoti di cui tanto si è parlato ultimamente.
Atei lo sono certamente e non perdono occasione per riaffermarlo.
Il loro ateismo vuole essere una solida conquista razionale, non incrinata da dubbi o da debolezze di ordine sentimentale.
È da escludere pertanto una possibile parentela con quella forma di ateismo che, rivolgendosi, anche se in forma solo immaginaria, a una presenza superiore, confessa a questo modo la propria inadeguatezza nell’interpretare e risolvere i vari problemi connessi con la difficile avventura umana soprattutto nel corso della sua storia più recente.
Che valore può avere pertanto la qualifica di devoti che alcuni di essi si sono attribuiti e che dovrebbe definire la loro collocazione nel quadro generale della cultura del nostro tempo?
Devoto è un aggettivo che non più di una trentina di anni fa sembrava un reperto lessicale destinato a essere cancellato per sempre là dove il tramonto del sacro e la morte di Dio erano temi di un discorso oramai definitivamente acquisito - così almeno sembrava - dentro la coscienza collettiva del mondo occidentale.
Ora invece la storia si è incaricata di ribaltare la sicurezza di quelle posizioni.
Il mercato del sacro infatti è più fiorente che mai e mai come in questi ultimi tempi - è una osservazione di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose - si sono registrate tante cadute da cavallo sulla via di Damasco.
È un fatto che sono molti quelli che non si vergognano di intrattenere uno speciale rapporto con Dio nel loro impegno politico-sociale e che perfino atei convinti hanno riscoperto il valore della religione arrivando a definirsi come atei devoti.
Pensando che devoto è una parola che per la sua etimologia contiene l’idea di voto, dovrebbe servire a indicare un uomo che sia votato con ardore e passione a qualcosa di grande per cui valga la pena di rinunciare a ogni interesse personale.
Nel suo senso ultimo, il devoto si consacra a Dio e al suo regno a venire.
Se questo ha senso, bisogna ammettere che un ateo devoto rappresenta una palese incongruenza.
L’ateo devoto può infatti schierarsi con la gerarchia ecclesiastica nella difesa dei valori della tradizione cristiana, ma non può avere quel senso adorante di una presenza viva il cui mistero dovrebbe suggerire un atteggiamento di umile ascolto e di incondizionata fedeltà.
Non usate Dio per fondare politica e legge” raccomanda nel suo ultimo saggio (Sullo spirito e l’ideologia) la filosofa Roberta De Monticelli la quale non esita a chiamare diabolica tale operazione.
Invece di servire Dio, ci si può servire della parola di Dio convertendola in ideologia al fine di dare un fondamento alla propria visione politica ed etica del mondo attuale.
A proposito di questo uso perverso o comunque distorto delle cose di Dio, vien fatto di pensare a quel famoso segretario di un grande uomo politico (siamo ai tempi della prima repubblica) del quale si favoleggiava che, tutte le volte che il suo diretto superiore sentiva il bisogno di sostare in preghiera presso qualche santuario o basilica romana, egli raggiungeva immediatamente la sacrestia dove amava intrattenersi con qualche alto prelato su problemi urgenti e concreti.
Che cosa stesse a cuore a quel troppo disinvolto segretario è facile immaginare così come è facile immaginare quali siano i reali interessi degli attuali frequentatori di prestigiose sacrestie.
È certo comunque che questi atei devoti non sentiranno mai l’esigenza di mormorare almeno questa preghiera: “Ti prego, sforzati di esistere”.

L’aneddoto sopra ricordato può servire a introdurre un’ulteriore osservazione sul rapporto che intercorre tra ateismo e preghiera.
Se è vero infatti che in tempi recenti è apparsa o è riapparsa la figura dell’ateo devoto, è altrettanto vero che da sempre nel mondo religioso è presente la figura del devoto ateo, cioè di colui che ostenta una religiosità tutta di facciata, senza una vera consonanza interiore.
Di questo falso devoto Gesù aveva denunciato più volte l’ipocrisia, soprattutto nel Discorso della montagna, là dove viene smascherata la pretesa di apparire persone esemplari da parte di coloro che sono sempre pronti a celare le proprie bassezze morali sotto il velo della virtù.
Il falso devoto è ridicolo, ingombrante, irritante, come appare attraverso la pungente rappresentazione che ne ha dato Molière nel Tartufo o l’impostore.
Ma soprattutto rende un cattivo servizio a Dio che egli peraltro crede di onorare con una religiosità tutta risolta in pratiche esteriori.
Nulla spinge di più all’ateismo che la falsa devozione” ha scritto Jean Sulivan, un autore particolarmente attento a scrutare il fondo oscuro dell’animo umano, là dove tra ambiguità e simulazioni si consuma il tradimento peggiore che è quello nei confronti della propria fede.
Se qualcuno ha potuto dire: “Quando sento parlare di Dio, metto mano alla pistola”, è perché si è trovato davanti non il Dio del vangelo, ma un Dio moralistico che premierebbe gli scrupolosi osservanti della legge, quelli che lo onorano con tante piccole pratiche religiose, mentre si dimenticano che l’unica legge che conta è quella dell’amore.
Dio è amore, ci ha ricordato più volte l’apostolo Giovanni.
Per cui si impone immediatamente questa riflessione: il vero ateo è colui che non ama, che non sa amare.
Dice infatti Giovanni: “Chi non ama, non ha conosciuto Dio”.
È lui il vero ateo, il vero senza Dio.
Che dire allora delle preghiere con le quali certe persone scandiscono il loro tempo per ricevere un giorno il premio promesso?
Non c’è da intenerirsi troppo, se si pensa che esse sono spesso forme di ripiegamento sulle ragioni esclusive del proprio io.
C’è dunque una devozione atea che si apparenta facilmente con l’ateismo devoto.
In entrambi i casi c’è un io che rimane precluso al soffio della preghiera autentica.
A questo punto può essere opportuno richiamare qualche nota che appartenga in forma imprescindibile alla esperienza della preghiera, quale che sia la sua particolare espressione religiosa.
Già abbiamo avuto modo di associare alla preghiera l’immagine del soffio, come a dire che la vera preghiera ha sempre un connotazione di respiro, di leggerezza, di espansione degli spazi vitali oltre i limiti dell’esistente.
A questo senso di scioltezza e di libertà si accompagna una naturale disposizione a ciò che Kierkegaard chiamava la passione dell’interiorità per cogliere le vibrazioni di infinito che attraversano il nostro mondo finito e, al tempo stesso, non dovrebbe mancare una nota di stupore
di fronte al rivelarsi dell’inatteso e dell’insperato.
Si prova allora la felicità semplice di chi non ha nulla da dire né da domandare, ma gode di trovarsi in un rapporto di immensa tenerezza con tutti gli esseri nella cui presenza gli è dato talvolta di avvertire le tracce di una presenza più grande.
Questo desiderio di comunione universale che segna profondamente la coscienza del vero orante mi pare sia stato felicemente celebrato da Erri De Luca in un suo componimento poetico (è intitolato Valori e lo voglio citare per intero) che, pur non prendendo le movenze usuali di una preghiera, custodisce e rivela l’anima e il pathos di una autentica:preghiera:

Considero valore / ogni forma di vita / la neve, la fragola, la mosca. /
Considero valore / il regno minerale / l’assemblea delle stelle. /
Considero valore il vino / finché dura il pasto, / un sorriso involontario, /
la la emblea delestelle:
regno minerale / l'stanchezza di chi / non si è risparmiato, /due vecchi che si amano. /
Considero valore quello che / domani non varrà più niente / e quello che oggi vale ancora poco. /
Considero valore / tutte le ferite. /
Considero valore / risparmiare acqua, / riparare un paio di scarpe, /
tacere in tempo, /accorrere a un grido, / chiedere permesso / prima di sedersi, /
provare gratitudine senza / ricordare di che. /
Considero valore sapere in una / stanza dov’è il nord, /
qual è il nome del vento che sta / asciugando il bucato. /
Considero valore il / viaggio del vagabondo, / la clausura della monaca, /
la pazienza del condannato, / qualunque colpa sia. /
Considero valore l’uso / del verbo amare / e l’ipotesi che esista un creatore. /
Molti di questi / valori non ho / conosciuto.

(scritto per Odissea numero sttembre-ottobre 2007 pag.20)

Personale di Gianfranco Cattaneo

Quando tento di interpretare la vicenda artistica di Gianfanco Cattaneo, mi soccorre una frase di Picasso: "Occorre molto tempo per diventare giovani".
Che Gianfranco Cattaneo goda di una invidiabile condizione fisica nonostante gli anni che l’anagrafe gli assegna, è un fatto che riempie di stupore coloro che hanno la fortuna di avvicinarlo.
Ma ancora più sorprendente è la freschezza con cui si dedica all’attività pittorica, da lui riscoperta una volta cessata l’attività professionale, quando altri avvertono la stanchezza che li induce a seguire in forme ripetitive una pratica già lungamente collaudata..
Giovane è lo sguardo sempre vivo e interrogante, giovane la luce che brilla nei suoi occhi, giovane la passione con cui si innamora di un soggetto fino al suo pieno compimento
Di questo fervore creativo la prova più eloquente ti viene data quando, visitando la sua abitazione, hai l’impressione di trovarti in un immenso atelier.
Tutto è in ordine e tutto al tempo stesso tradisce un fremito di impazienza nel realizzare quello che egli ha già contemplato nella camera segreta del suo mondo interiore.
Se è vero che si è scelto uno studiolo come luogo privilegiato del suo rapporto con l’arte (è lì che trovi sempre su un cavalletto un nuovo lavoro in gestazione), bisogna subito aggiungere che il dinamismo creativo deborda e si irradia in ogni angolo della casa dove, appoggiate alle pareti, ti è dato di osservare tele ultimate e altre appena abbozzate, in un disordine solo apparente perché di ciascuna Gianfranco Cattaneo saprebbe tracciare una piccola storia, come se fosse l’unica a meritare in quel momento tutta la sua attenzione.
Secondo un famoso aforisma di Oscar Wilde in letteratura (ma anche, pare di capire, in ogni altra espressione artistica) l’ispirazione conta il dieci per cento, mentre il novanta per cento è solo traspirazione.
Pensando a Gianfranco Cattaneo mi sento di rovesciare questo rapporto assegnando il ruolo più importante proprio all’ispirazione, o se si vuole, all’entusiasmo con cui si dedica all’attività pittorica vincendo in tal modo il peso della traspirazione, cioè del sudore, della fatica, delle ore sottratte a un meritato riposo.
Ho parlato di entusiasmo, ma vorrei precisare.
Non si tratta di una semplice propensione a realizzarsi lasciandosi sollecitare da qualcosa che già si possiede, ma di una tensione verso l’assoluto, verso un orizzonte di pura bellezza in cui sia possibile percepire la presenza del divino, come del resto suggerisce l’etimologia della parola entusiasmo dove compare il termine theòs, cioè Dio.
Per raggiungere questo orizzonte Cattaneo si è affidato a una poetica molto essenziale: ha puntato tutto sulla nostalgia e sul colore.
La nostalgia lo ha portato a rivisitare le opere dei grandi maestri, soprattutto fiamminghi, nel cui mondo fantastico ha visto rispecchiati i sentimenti che meglio definiscono la sua segreta identità.
Le malinconie di certe ore crepuscolari, la poesia della natura al suo ridestarsi, l’incantevole stupore che si esprime in paesaggi colmi di luce come pure la festevole allegria che trascorre in una festa paesana rappresentano – è un giudizio unanime - il fascino particolare delle opere di certi maestri fiamminghi e olandesi, come quelli appartenenti alla grande famiglia dei Brueghel.
Ora, questo fascino è possibile avvertirlo anche nelle tele di Gianfranco Cattaneo il quale si é posto davanti ai modelli di questi grandi artisti non con la puntigliosa ma fredda fedeltà del copista, bensì con la calda partecipazione emotiva di chi si è lasciato toccare da quelle immagini tanto da ricrearle con una felice libertà interpretativa.
Non è però su certe volute difformità che bisogna indugiare per mettere in luce la novità della sua arte.
Senza dubbio ha dilatato le misure delle immagini originali (che a volte hanno le dimensioni di una semplice cartolina) e ha giocato con i dettagli di certe scene ora inventandone alcuni, ora sopprimendone altri, ma è giunto il momento di affermare che il valore del suo esercizio pittorico sta tutto nel sapiente trattamento del colore.
E’ nella resa di certe atmosfere indefinite e come sospese che Gianfranco Cattaneo dà il meglio della sua sensibilità pittorica con la delicatezza delle sue pennellate e le vibrazioni cromatiche che riesce a ottenere.
Un diverso sentimento del colore è quello che Cattaneo ci comunica
attraverso le immagini quanto mai suggestive delle sue nature morte.
Qui ci sono vasi e cesti traboccanti di frutta che si impongono all’attenzione con l’immediatezza della loro superba bellezza.
Qui l’artista, dopo aver accarezzato con lo sguardo questi doni che sembrano provenire da una favolosa cornucopia, ci rende partecipi del suo stupore, servendosi della forza mimetica ed evocativa dei colori.
Non è forse questa una delle principali funzioni assegnate all’arte?
Ecce pictura: così recita un cartiglio che Maurizio Bottoni, un pittore innamorato della tradizione, ha posto a commento di una delle sue ultime opere. La tela presenta su un vassoio la testa del pittore (un macabro autoritratto!), recisa come quella del Battista.
Si tratta di una sorta di cordoglio sulla pittura tradizionale, sacrificata, è facile intuire, da ciò che di eversivo viene espresso dalle nuove avanguardie.
Ecce pictura potrebbe figurare anche in qualche natura morta di Gianfranco Cattaneo.
In questo caso l’iscrizione, abbandonato ogni intento provocatorio, suonerebbe come festosa celebrazione di un’arte che trae dalla realtà l’impulso iniziale a creare immagini le quali poi, per l’afflato poetico da cui sono investite, vengono a trasfigurarsi in icone di pura bellezza.
E’questo il miracolo della vera arte.

lunedì 3 settembre 2007

* Spigolature (1 settembre)

Proposta di iscrizione su una lapide mortuaria:

“Qui giace il nostro caro defunto n.n. (personalmente avrei un nome da suggerire ): nell’unico posto che in vita non ha ambito ardentemente occupare”.

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Qualità richieste per la promozione al canonicato:

platitudo pedum,
latittudo ventris,
hebetudo mentis.

Personalmente trovo più gustosa la sintesi che di queste qualità è racchiusa in un famoso detto brianzolo:
quand san pu ‘se fa d’un om, el fan Monsciur del Dom.

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E c'è chi ha inventato queste altre due strofe di cui mi limito ad apprezzare la rima (baciata).

Mi chiedi: e quand un munsciur el va in naftalina?
Semplice: ghe mettenn in co la papalina.

E se la papalina le va in sumenza?.
Avanti un alter: se poeu minga fa senza.