venerdì 22 maggio 2009

Pensando al Concilio


Me l’aspettavo.
Che qualcuno si facesse vivo per ricordarmi che, se mai avessi voluto procedere in parallelo con la serie dei Capita…già registrata nel mese di febbraio del 2007, avrei dovuto occuparmi anche dei problemi della chiesa nel mondo d’oggi.
Effettivamente c’è stato chi mi ha interpellato su questo argomento.
Che giudizio mi sono fatto della chiesa nella società attuale? Mi è parso di capire che si vorrebbero da me giudizi precisi che tocchino anche le persone, soprattutto quelle che hanno maggiori responsabilità nella vita ecclesiale.
Ma io, anche a costo di deludere qualche amico, posso soltanto parlare di una profonda tristezza e di una irriducibile speranza di fronte alla chiesa di cui tutti portiamo la responsabilità.
La tristezza è palese in me. Non la nascondo.
E si manifesta soprattutto quando mi pare di avvertire l’enorme distanza che ci separa dalla grande stagione conciliare.
Erano anni, quelli, pieni di fervore pentecostale.
Era appassionante seguire i lavori che si svolgevano nella grande aula conciliare (la basilica vaticana) e vedere delinearsi, giorno dopo giorno, l‘immagine di una chiesa più libera, più dialogante, più aperta ad accogliere le istanze che erano custodite nel cuore non solo dei credenti, ma di tutta la grande famiglia umana.
Si aveva l’impressione allora che un sogno a lungo inseguito potesse diventare realtà.
Questa esperienza che ho avuto la fortuna di seguire attentamente trovandomi in quegli anni a insegnare in seminario, l’ho rivissuta proprio in questi giorni attraverso la testimonianza che ci hanno lasciato due grandi protagonisti del concilio.
La prima è quella che ci viene offerta da un grosso volume di memorie intitolato La mia battaglia per la libertà che Hans Kung ha dedicato particolarmente al grande evento del concilio.
Su questo famoso teologo, che ho potuto avvicinare quando nel 1967 passò da Milano per la presentazione di un suo coraggioso saggio sulla chiesa (fu in quella occasione che subì un violento attacco da parte di un giornalista-teologo che già godeva di una forte protezione vaticana), si potrebbero esprimere diverse valutazioni che certamente non valgono a procurargli un consenso immediato e unanime.
È vero: anche in questo ultimo suo lavoro non ha saputo controllare sempre la sua istintiva vis polemica e frenare la presenza debordante del suo io.
Ciò non toglie che questa opera abbia il merito grandissimo di farci rivivere, attraverso una narrazione sempre tesa e appassionata, i travagli a volte drammatici da cui sono usciti i testi più innovativi del concilio.
Di diverso spessore emotivo e altrettanto preziosa sul piano documentario è la testimonianza che sul concilio ci ha lasciato il grande vescovo brasiliano Dom Helder Camara.
Sto leggendo in questi giorni Roma, due del mattino: è un’antologia delle lettere che, a commento di ogni seduta dei padri conciliari, Dom Helder trasmetteva (alle due di notte!) alla sua lontana comunità informandola sui temi che venivano trattati, sul favore e sulle resistenze che incontravano in aula, sulle proposte che maggiormente gli stavano a cuore.
Con tono pacato, ma vibrante di segreta passione per le sorti della chiesa, vedeva con favore il fatto che il concilio non intendesse prendere posizione contro qualcosa o qualcuno, mentre non nascondeva la sua profonda delusione nel vedere quanta resistenza incontrassero i “suoi” temi, quelli in particolare della pace e del sottosviluppo sui quali aveva sperato un voto pressoché unanime.
E chi si rende conto della grande novità rappresentata dal concilio per il futuro della chiesa, non può che patire una profonda delusione nel costatare come da più parti si tenta di privare il concilio di ogni alone di straordinarietà così da poter ripristinare più facilmente le consuetudini del passato.
Che cosa abbiamo fatto del concilio?
La domanda l’ho posta a qualche amico e proprio da uno di essi mi è stata data una risposta scritta che già nel titolo (Il concilio dimenticato) interpreta pienamente il mio attuale stato d’animo.
Ci eravamo rallegrati per la riscoperta di una chiesa come luogo di libertà, di coraggio, di gioia, di speranza e ci ritroviamo con una chiesa intristita da troppe paure e preoccupata prevalentemente della propria sopravvivenza in un mondo considerato come luogo di disgregazione di tutti i valori morali.
Che tristezza nel dover prendere atto che, invece di apparire come presenza profetica in grado di portare al mondo un annuncio gioioso (non è forse vero che essa è chiamata a rivelare al mondo che Dio si è fatto vicino per offrire a tutti gesti di perdono e di misericordia?), si accontenta di esercitare un ruolo di tipo burocratico-disciplinare.
Il vangelo della misericordia e della riconciliazione sembra infatti lasciare spazio, ogni giorno più, alla preoccupazione per l’ortodossia e la dottrina.
Mi permetto un’autocitazione.
Nella lettera aperta che scrissi ”al mio nuovo vescovo” in occasione del suo ingresso in diocesi, osavo ricordargli come fosse “importante oggi presentare l’immagine di una chiesa che sia finalmente sciolta da tanti fardelli del passato (ritualismi, formalismi, paure, diplomazie eccessive…) e diventi sempre più lo spazio dove si possa stare in comunione amorosa con l’universo, con l’esistenza, con il mistero di Dio”.
Per questo lo invitavo a non preoccuparsi di cercare una risposta a ogni problema di ordine morale, ma di essere testimone di una fede che avesse una connotazione mistica, cioè dell’indicibile stupore che si prova nel sentirsi amati da Dio, per pura grazia, senza alcun calcolo di ogni possibile nostro merito.
È proprio su questo punto che la chiesa appare oggi mancante.
Perché molti giovani si sentono estranei alla vita della chiesa?
Perché, mentre la sentono quasi ossessivamente presente nel definire le proprie posizioni riguardanti i temi della sessualità, della contraccezione, dell’aborto, della fecondazione artificiale e su quelli relativi all’accanimento terapeutico o al testamento biologico, non la trovano altrettanto preoccupata di trasmettere messaggi che tocchino il cuore delle persone, che si aspettano parole liberanti che facciano sognare un mondo più umano, dove a ciascuno, anche se occupa l’ultimo posto nella scala sociale, sia riconosciuta una dignità inalienabile e dove tutti insieme si concorra a creare relazioni ispirate ai valori del rispetto reciproco, della condivisione, della fraternità.
“Dov’è la Chiesa che scalda i cuori?” si chiedeva Beppe Severgnini sul Corriere del 5 febbraio.
Una chiesa capace di scaldare cuori l’abbiamo conosciuta ai tempi del concilio.
Ricordo ancora l’emozione che provai nel settembre del 1967, partecipando ad alcune liturgie domenicali presso la parrocchia degli studenti ad Amsterdam, dove mi aveva spinto il desiderio di conoscere meglio il famoso catechismo olandese, non ancora tradotto in Italia.
Rivedo ancora la folla di giovani che occupavano ogni angolo di quella vastissima sala.
La luce che splendeva nei loro occhi, la felicità che esprimevano con i loro canti, la spontaneità con cui interpretavano i momenti più significativi della celebrazione trasmettevano il senso gioioso di un’esperienza vissuta nel segno di una grande libertà.
Questa immagine esaltante di chiesa oggi è fortemente impallidita se non addirittura cancellata.
“Che insicurezza nei continui richiami a essere fedeli alla propria identità, che incertezza nei richiami ossessivi a non lasciarsi fuorviare dal relativismo, che paura nei confronti di un mondo che chiede solo di essere compreso e salvato, questo sì, ma non “protetto” e “preservato” o peggio accusato di malafede” fa osservare il mio amico.
Se la chiesa dà l’impressione di non sapere più trasmettere messaggi di speranza, di coraggio, di fiducia, che cosa conviene fare?
C’è chi, come il teologo Vito Mancuso, invoca un nuovo concilio.
Il clima generale della società e della chiesa oggi, è piuttosto depresso. Scoraggiato.
Un concilio, se preparato attraverso la preghiera di tutta la comunità cristiana, per l’azione dello Spirito potrebbe riscaldare il cuore di ciascuno, così che si possa insieme affrontare il futuro con gioia e coraggio, senza più le paure che abbiamo dovuto registrare sul nostro cammino.
Ci sono però altri che nulla sperano da un eventuale nuovo concilio: visto l’arroccamento attuale della gerarchia sui temi della bioetica, i risultati sarebbero scontati.
D’altra parte molti di questi non sono più disposti a dare fiducia ancora una volta a una chiesa che li ha profondamente delusi. Per questo sono tentati di abbandonare la chiesa, come ha fatto recentemente la filosofa Roberta de Monticelli, la quale ha pubblicamente professato il suo distacco dalla chiesa cattolica.
Tentazione tremenda, questa, che ha sfiorato anche la coscienza di molti credenti, in particolare di alcuni che erano considerati come guide autorevoli sulla via del rinnovamento voluto dal concilio.
Ma essi (penso in particolare a padre Giovanni Vannucci, a padre David Maria Turoldo, a padre Nazareno Fabbretti, a Don Michele Do ...) hanno scelto di rimanere fedeli alla loro chiesa, che avevano amato e servito con tanta passione, intimamente persuasi che essa non è mai abbandonata dallo Spirito, il quale ci aiuta ad affinare il nostro sguardo così da trovare motivi di speranza anche nei momenti più oscuri della sua storia.
Su questo tema non posso dimenticare la risposta che don Michele Do diede ad alcuni amici valdesi che l’avevano invitato a passare dalla loro parte: “Sono certo che anche tra voi troverei un’istituzione che, come ogni istituzione umana, ha le sue pesantezze e le sue ottusità.
Tanto vale che rimanga nella mia chiesa e cerchi, per poco che mi riesca, di renderla come da sempre la vado sognando”.
Anche il card. Martini, nel suo libro di confidenze e confessioni Colloqui notturni a Gerusalemme, parla di una Chiesa a lungo sognata “una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo (….) Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto, una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli e peccatori.
Sognavo una chiesa giovane”.
Ma poi conclude con una frase che sembra negare la possibilità di coltivare questo sogno: “Oggi non ho più di questi sogni”.
Che si fosse arreso lui pure, in un momento di sconforto, al pessimismo che serpeggia nella chiesa, in ordine alla sua capacità di dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo?
In realtà il cardinale non intendeva esprimere soltanto il suo disagio nei confronti della chiesa attuale, ma preparare il lettore a capire meglio il senso della sua ultima affermazione.
Dopo i settantacinque anni - così ci ha confidato - ha compreso che i sogni non contano nulla se non sono affidati alla preghiera. Solo la preghiera può vincere lo sconforto e il pessimismo tenendo accesa la fiamma della speranza.
E a quanti si chiedono se lo Spirito Santo sia ancora presente nella chiesa, il cardinale Martini, già nella Lettera sullo Spirito Santo del 1997, così rispondeva: “Lo Spirito c’è anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è, e sta operando; arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è, e non si é mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva là dove mai avremmo immaginato”.
Che sia questa la via da seguire, per poco che si conosca il vangelo, è facile esserne convinti.
Chi si lascia condurre dallo Spirito, acquista uno sguardo più limpido in grado di vedere l’invisibile.
E si scoprono tanti semi nascosti, tante esperienze nuove che si sono sviluppate sotto l’azione incessante e creativa dello Spirito.
Per parte mia, ne ho avuto conferma quando ho potuto scoprire la grandezza umana e spirituale di certe presenze nascoste che, lontane dagli ambienti ufficiali, hanno tenuta viva l’urgenza di un rinnovamento della chiesa attraverso una radicale fedeltà al vangelo.
Quanti cristiani conoscono oggi la luminosa figura di sorella Maria di Campello?
Il suo nome l’ho raccolto la prima volta dalle labbra di don Michele Do che l’aveva conosciuta personalmente e ne conservava una memoria intrisa di affettuoso stupore.
Quando ho potuto leggere il saggio biografico che le è stato dedicato da Roberto Morozzo della Rocca, mi sono reso conto della straordinaria avventura spirituale di questa donna.
Fondatrice dell’eremo di Campello, aveva elaborato una spiritualità che valorizzava molto il decoro, l’armonia, il garbo, la finezza dei comportamenti e soprattutto la bellezza nella semplicità. Aveva in particolare il culto dell’amicizia e una grande capacità di relazione anche con persone lontane dal suo orizzonte culturale.
È sorprendente vederla dialogare con Gandhi, con Albert Schweitzer oltre che con Bonaiuti e Ambrogio Donini.
Recentemente le “Edizioni Qiqajon" di Bose hanno pubblicato due preziosi epistolari che ci consentono di avvicinare il mondo segreto di sorella Maria e di conoscere meglio la sapienza evangelica da lei appresa alla scuola della Parola e dispensata con la libertà e la semplicità di chi ha posto tutta la sua fiducia in Dio.
Il primo epistolario raccoglie le lettere scambiate con padre Giovanni Vannucci, il grande religioso Servita che ha fondato l’eremo delle Stinche.
Il secondo riproduce la corrispondenza intercorsa tra sorella Maria e don Primo Mazzolari che Giovanni XXIII, all’inizio del suo pontificato, avrebbe salutato come “la tromba dello Spirito Santo“ in Val padana, ma che intanto aveva problemi con la gerarchia per la libertà con cui, nel difendere la causa dei poveri, osava denunciare i compromessi della chiesa con il potere.
Ed è con immensa gioia che ho visto affiorare dalle fitte pagine di questo epistolario un nome a me particolarmente caro, quello di don Michele il quale, quando ancora era un giovane prete, aveva scelto come suo eremo il piccolo villaggio valdostano di Saint Jacques meritandosi questo affettuoso elogio da parte di sorella Maria: ”una perla di giovane prete….quanto è aperto, studioso, evangelico questo fragile uomo! Ha un fervido spirito religioso”.
E proprio a conferma di queste parole è uscito recentemente un volume che raccoglie in forma antologica alcune riflessioni di don Michele su temi che a suo giudizio dovrebbero appassionare la coscienza di ogni credente.
Per un’immagine creativa del cristianesimo è il titolo del volume che già con la presentazione del profilo biografico di don Michele, redatto da Clara Gennaro nel segno di una profonda amicizia, permette di seguire le tracce del suo cammino spirituale e di rimanerne conquistati tanto che un amico mi ha confidato di essersi trovato, nel corso della lettura, con gli occhi umidi di pianto.
Qualcuno si domanderà perché abbia voluto evocare la memoria di questi quattro testimoni del vangelo.
La ragione è semplice.
A parte la suggestione esercitata dal fatto di vederli così fraternamente uniti, pur provenendo da orizzonti culturali diversi, e di sapere che con le loro riflessioni hanno anticipato i temi che sarebbero stati al centro del dibattito conciliare, la loro testimonianza risulta particolarmente luminosa se si pensa che erano tempi, quelli, in cui la gerarchia esercitava ancora un severo controllo sulle coscienze.
Essere sospettati di filomodernismo o di filomarxismo voleva dire incorrere in censure molto pesanti da parte dell’autorità ecclesiastica.
Che essi abbiano avuto il coraggio di affrontare questi sospetti lasciandosi guidare dall’azione dello Spirito, porta a sperare che anche nei tempi oscuri per la chiesa che stiamo attraversando non debbano mancare mai certe presenze profetiche nascoste, capaci di tenere accesa la lampada della fede.
Sulla fede mi è capitato di leggere recentemente questa definizione attribuita a George Bernanos:
“La fede è: ventiquattro ore di dubbi meno un minuto di speranza”.
Quando, recitando il credo, diciamo: “Credo la chiesa una, santa, cattolica e apostolica”, siamo presi da tanti dubbi mai completamente debellati, ma a sostenere il nostro cammino di fede c’è la speranza rappresentata da questi testimoni che hanno scelto la dimensione della piccolezza evangelica.
Perciò dovremmo fare nostro il saluto che padre David Maria Turoldo usava nel prendere congedo da qualche amico.
Il saluto consisteva in questa bellissima esortazione: “ Aiutiamoci a sperare!”.