giovedì 17 gennaio 2008

Delle cinque piaghe della Santa Chiesa

C’è un libro che, a distanza di più di 150 anni dalla sua prima apparizione, non ha cessato di inquietare e di confortare la coscienza di molti credenti.
Delle cinque piaghe della Santa Chiesa di Antonio Rosmini è veramente un libro profetico e perciò non meraviglia che abbia incontrato, insieme ad ampi consensi, anche molte resistenze e perfino aperte ostilità.
Ora che il suo autore è stato proclamato beato (con una solenne celebrazione che si è svolta a Novara domenica 18 novembre), ci si domanda: come mai l’autorità ecclesiastica è stata tanto severa da inserire questa opera nell’Indice dei libri proibiti? dove starebbe la sua presunta pericolosità?
Non ci sono infatti né errori dottrinali né posizioni aspramente critiche nei confronti dell’autorità, ma accorati appelli alla conversione in nome di un’immagine di chiesa che Rosmini contemplava nella purezza delle sue origini e che vedeva poi tradita e crocifissa (da qui le cinque piaghe corrispondenti a quelle del Maestro sulla croce) nel corso della sua storia.
La ragione della condanna perciò, se da una parte è difficile da spiegare, dall’altra, alla luce degli sviluppi sul cammino della conversione che la chiesa ha maturato nella sua storia più recente, è molto semplice.
Si trattava di un’opera fortemente in anticipo sui tempi. Appunto: di un’opera profetica.
Basterebbe richiamare i principali temi presi in esame per capire come, pur con riferimenti a situazioni storiche ben diverse dalle nostre, i problemi affrontati rivelino un carattere di scottante attualità.
C’è, ad esempio, la delicata questione della nomina dei vescovi (è la quarta piaga) che Rosmini vorrebbe sottratta alle interferenze del potere statale e restituita al clero e al popolo secondo la più sana tradizione della chiesa.
Oggi tale diritto è pienamente rivendicato ed esercitato dalla chiesa, ma con quale partecipazione del popolo di Dio?
Ricordo che in uno dei diversi colloqui che ebbi la fortuna di avere con don Michele Do, mi colpì una sua pungente osservazione a proposito delle nomine dei vescovi in Italia .
“Sai .– mi disse - Ad ogni vescovo bisognerebbe chiedere: Che cosa hai sulla coscienza per essere diventato vescovo? Qualcosa devi avere: confessalo!”.
Un altro problema trattato da Rosmini è quello della educazione del popolo cristiano alla comprensione della parola di Dio, soprattutto nell’ambito delle celebrazioni liturgiche, perché queste non si riducessero a puro spettacolo intessuto di gesti vuoti e di parole mute.
Per questo auspicava una maggiore preparazione culturale del clero, e, senza mettere in discussione l’uso del latino, voleva che la comunicazione fosse resa più efficace mediante opportune versioni dei testi in lingua volgare.
Ricordo l’emozione che provai la prima volta che ebbi questo testo tra le mani (dovevo essere in III teologia), anche perché, per ottenerlo in prestito dalla biblioteca del seminario, avevo dovuto sottoscrivere una domanda indirizzata niente meno che al Papa, della quale non avrei più dimenticato la curiosa formula conclusiva: “Prostrandomi al bacio della sacra pantofola ...”
Questo bacio non venne più richiesto di lì a qualche anno, quando, nel fervore delle novità conciliari, fu soppresso l’indice dei libri proibiti e pertanto il testo di Rosmini, finalmente liberato dalle strette della censura ecclesiastica, potè essere accolto e riconosciuto come una delle voci che più autorevolmente avevano saputo ispirare e anticipare i lavori del concilio.
Unanimemente, salvo che nel seminario di Venegono, dove insegnavo.
Mai avrei potuto immaginare che il mio rapporto con l’opera di Rosmini avrebbe avuto per me sviluppi strani e, in larga misura, imprevedibili.
Ricordo che durante l’estate del 1967 venni invitato dal Rettore Maggiore a tenere alcune lezioni di letteratura contemporanea agli studenti di teologia.
Trattandosi di un lavoro straordinario che esulava dal mio normale impegno didattico, al termine del breve corso mi fu chiesto quale compenso, simbolico naturalmente, avrei desiderato.
Quale compenso più bello avrei potuto desiderare delle Cinque piaghe della Santa Chiesa di cui, dopo gli anni della condanna, era uscita da poco una edizione critica splendidamente curata da Clemente Riva?
La mia proposta venne accolta seppure, cosi m’è parso, con una malcelata contrarietà oppure, per dirla alla latina,: obtorto collo.
Di questa mia impressione ebbi conferma qualche giorno dopo quando (stava già per iniziare l’anno scolastico) venni convocato nello studio del Rettore Maggiore il quale mi comunicò che non avrei più insegnato nei seminari.
Era, in pratica, una formale estromissione dall’insegnamento.
Nonostante la strettissima connessione tra i due fatti, non credo che si potesse applicare, se non nel suo originale senso ironico, il detto latino: post hoc, ergo propter hoc. (dopo di ciò, quindi a causa di ciò).
C’erano altre e più articolate ragioni per motivare una decisione così severa.
Dovrei a questo punto accennare alla situazione di grave disagio che si era creata in quei tempi nei seminari milanesi, dove le novità conciliari avevano fatto circolare un’aria di libertà che metteva in crisi le vecchie strutture disciplinari.
E sul modo di affrontare la crisi si era delineata tra i superori una spaccatura con due fronti contrapposti: il primo formato dai difensori ad oltranza dell’ancien régime, l’altro per lo più da professori (pochi) che, sfidando il sospetto di voler allentare la disciplina dei seminari, privilegiavano la via del dialogo con gli alunni cercando di capire meglio le ragioni di certe loro insofferenze.
Del resto i seminaristi non chiedevano se non un linguaggio più aperto e trasparente, non più viziato da reticenze o da ambiguità, tanto che in quel tempo prese a circolare, inventata non si sa da chi, questa caustica osservazione: “Diceva la verità solo quando era a corto di bugie.
E quando era a corto di bugie, le inventava”.
Devo riconoscere peraltro che la persona presa di mira da questo irridente sberleffo era dotata di particolari capacità intuitive se è vero che riusciva a capire il tuo pensiero prima ancora che tu lo manifestassi.
Ecco perché non posso assegnare al libro di Rosmini un ruolo determinante nel mio allontanamento dal seminario.
Qualcuno a questo punto potrebbe chiedermi come abbia vissuto questa improvvisa disavventura.
Dato che non avevo le stesse qualità che avrebbero reso beato Rosmini, lì per lì ho adottato quella linea di difesa che è indicata da un famoso detto popolare lombardo:”Lu me n’à dà, ma mi ghe nu dì” (Lui me ne ha date, ma io gliene ho dette).
Con lo stesso spirito, ma in modo più sorridente, ho ascoltato le parole che il mio vecchio Rettore Maggiore mi rivolse (erano passati più di trent’anni dal nostro ultimo tempestoso incontro). Il giorno che venne nella mia parrocchia a celebrare il funerale di un sacerdote mio collaboratore e suo conterraneo: “E’ una provvidenza, mi disse, che sia morto il nostro caro don Egidio (sic), perché ci dà l’occasione di ritrovarci dopo tanto tempo”.
Ora che anche lui è passato a “miglior vita” e io mi appresto a raggiungerlo, che cosa dovrei aspettarmi da questo nuovo incontro?
Per il fatto di non essere beato come Rosmini, mi auguro una sola cosa: semplicemente di non essere accolto con le stesse parole usate al funerale di don Egidio. “E’ una provvidenza che tu sia…”.